“Moses und Aron” al Teatro Real di Madrid

Albert Dohmen, John Graham-Hall

Madrid, Teatro Real, temporada 2015-2016
“MOSES UND ARON”
Opera in tre atti ispirata ai capp. 3, 4, 32 dell’Esodo
Libretto e musica di Arnold Schönberg
Moses ALBERT DOHMEN
Aron JOHN GRAHAM-HALL
Un’invalida CATHERINE WYN-ROGERS
Un giovane uomo ANTONIO LOZANO
Un giovane nudo/un uomo MICHAEL PFLUMM
Un altro uomo/un efraimita OLIVER ZWARG
Un sacerdote ANDREAS HÖRL
Una fanciulla/prima vergine nuda JULIE DAVIES
Seconda vergine BEATRIZ JIMÉNEZ
Terza vergine ANAÏS MASLLORENS
Quarta vergine LAURA VILA
Sei voci soliste PILAR BELAVAL, CRISTIAN DÍAZ NAVARRO, JOHN HEATH, BEATRIZ OLEAGA, MANUEL RODRÍGUEZ, CRISTINA TEIJEIRO
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Direttore Lothar Koenigs
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia, scene, costumi, luci Romeo Castellucci
Coreografia Cindy van Acker
Nuova produzione del Teatro Real in coproduzione con Opéra National de Paris
Madrid, 9 giugno 2016

«Un’opera dodecafonica ormai più religiosa delle Messe di Bruckner, più patriottica di un inno nazionale, più emozionante non solo del Nabucco ma della Forza del Destino». Era il 27 dicembre 1995 quando Alberto Arbasino pubblicava su «Repubblica» un’entusiastica memoria autobiografica tutta centrata su Moses und Aron di Arnold Schönberg: titolo di riferimento della sua formazione culturale, in un secondo dopoguerra dalle scie lunghissime e sempre generose di scoperte eclatanti come di riproposte emozionanti. Ancora una decina d’anni più tardi, e non per l’ultima volta, Arbasino avrebbe dedicato all’opera più distese riflessioni, declinandone l’ambientazione «in un ‘set’ di Orientalismo Vittoriano sfrenatamente faraonico-Kitsch e babilonese-pompier, da futuro Musée d’Orsay» (Marescialle e libertini, Milano 2004, p. 117). Oltre alla fonte biblica, a rendere affascinante il titolo schönberghiano è il linguaggio musicale, con le particolarità ormai storicizzate e conchiuse della dodecafonia, che a lungo hanno condizionato la (s)fortuna dell’opera in vari paesi (in Italia, per esempio, gli si opponeva il sempre più rifulgente Puccini, al punto che Montale segnalava con un certo stupore come «un alfiere della musica dodecafonica», René Leibowitz, avesse dedicato ampio ed elogiativo studio a Puccini, come se si trattasse di mondi lontanissimi e privi di relazione: ed era il 1959). Ma ora siamo a Madrid, per la prima esecuzione in forma scenica nella capitale spagnola, nonché prima ripresa dell’allestimento parigino in coproduzione, che mortifica ogni aspettativa di grandiose scenografie, e rende conto di suggestioni teatrali ben diverse da quelle che la precedente tradizione aveva esplorato (o anche solo prospettato). Che senso ha la rappresentazione di Moses und Aron nel 2016, con la regia demiurgica e totalizzante di Romeo Castellucci? In una sala del Teatro Real, prima della prova generale, il regista parla ai corrispondenti stranieri, esponendo con molto garbo tutte le sue idee in merito all’opera-oratorio-dramma biblico incompleto. Fuori della cornice dello spettacolo, tra il pourparler del regista (parloteo lo chiamano gli spagnoli) e l’effettiva mise en scene, si rileva una curiosa antinomia: Castellucci è tanto umile e semplice nel presentare le proprie idee registiche, e a giustificarle con ragioni e schemi sociali, quanto il suo spettacolo è superbo, algido, inesorabile nell’imporre tutta la macchinosità, lo sfarzo, la ricchezza di ogni possibile mezzo, insomma il complessivo e ininterrotto scialo di persone, animali, tecniche e risorse di ogni genere.
L’accoglienza del pubblico è senza dubbio molto buona: per quasi due ore (atti I e II di seguito, senza pausa; del tutto cassati i frammenti del III) ascolta e osserva il complicatissimo dispiegamento delle macchine sceniche, per liberarsi delle ultime angoscianti domande di Moses con un lungo applauso, crescente per i solisti, l’orchestra e il direttore, e soprattutto per l’eroico coro. Va sottolineato subito che la resa musicale è magnifica: i suoni dell’Orquesta del Teatro Real diretta da Lothar Koenigs sono perfettamente calibrati, nel frequente dialogo tra ottoni e archi, nei ritmi di danza come nelle asserzioni più seriose; il direttore rimarca molto bene le aporie della conversazione tra canto ideale di Moses e controcanto quasi popolaresco di Aron, integrandole con gli sferzanti interventi di coro e orchestra. A questo proposito, non è affatto una leggenda quella che Moses und Aron sia in tutta la storia del teatro musicale l’opera di più alta difficoltà per un coro: oltre agli scogli della tecnica dodecafonica vi sono molti momenti polifonici a cappella o di recitazione pura, disarticolata rispetto all’intonazione ma comunque distinta in molte sezioni, come gruppi di voci di un popolo che progressivamente acquisisce consapevolezza e oppone fermi rifiuti a chi tenta guidarlo. Il Coro del Teatro Real ha iniziato a prepararsi un anno fa, sotto la guida di Andrés Máspero, e la sua esecuzione è ora veramente perfetta. Albert Dohmen è sicuramente un interprete ideale: il suo Moses è ieratico come un Wotan e cocciuto come un Pizarro, per ricordare solo due ruoli che hanno reso celebre questo bass-baritone; a stento trattiene la voglia di cantare come in un bel melodramma, atteggiamento che dà un tocco di lirismo alla sua prova. Il tenore John Graham-Hall, già protagonista delle recite parigine, è un ottimo attore, e possiede quella gestualità carismatica di cui Aron ha bisogno per persuadere e controllare il popolo; è un peccato che la voce risulti talvolta un po’ chioccia nel registro acuto, in cui peraltro si destreggia bene, considerata la scrittura a dir poco impervia che il compositore ha previsto. Tutte molto corrette le altre parti vocali, tra cui merita una menzione l’invalida di Catherine Wyn-Rogers, dalla voce mezzosopranile molto solida e dal timbro brunito. La coreografia di Cindy van Acker è sovraccarica di simbolismi, di gesti tribali che imitano divinità arcaiche, di pose geometriche a ricordo dell’arte egizia. Ma nella scena dell’adorazione del simulacro le danze sono così statiche, che i movimenti più vistosi risultano quelli della coda del toro, sempre più nervosetto. Se la première parigina dello scorso anno fu accompagnata da feroci polemiche animaliste (che lo stesso Castellucci ricorda ancora adesso con amarezza), la vista di un toro mansuetissimo, quasi bloccato dai suoi millecinquecento chili di peso, in una città come Madrid, abituata a ben altri caratteri taurini (combattivi, de lidia, secondo la definizione ufficiale) desta assai poco interesse. In tutta franchezza, comunque, è abbastanza penoso vedere questo animale così invaso dalla pinguedine trascinato qua e là sul palcoscenico, muoversi con difficoltà, seguire malvolentieri la guida che lo tira per il giogo, reagire con fastidio alla partecipazione scenica che deve subire (anche addosso all’animale, infatti, viene versato un po’ di pestifero inchiostro nero, simbolo di quell’attività ed esperienza umane tanto necessarie quanto discutibili). Il Teatro Real doveva ben premurarsi contro ogni possibile rimostranza; per questo, in calce alla locandina ha aggiunto nel programma di sala un comunicato così traducibile: «Il Teatro Real intende rendere pubblico tutto il suo impegno per il benessere del toro, assicurando che la presenza sulla scena non implica, in nessun caso, alcun rischio o danno per l’animale». Va bene; ma proprio nella recita cui abbiamo assistito l’animalone decide di contribuire allo stile dello spettacolo di Castellucci: visto che tutti i figuranti si versano addosso liquidi neri disgustosi, anch’esso abbandona le proprie vistose deiezioni mentre attraversa il palcoscenico, tra le risatine degli spettatori delle prime file, che subito capiscono di che si tratta. Il toro, a detta del regista, è la carne viva e palpabile di cui il popolo ha bisogno; ovviamente sostituisce il vitello d’oro del racconto biblico. Ma il protagonista del dramma? Moses è ossessionato dalla codificazione: per questo si porta appresso il nastro magnetico che fluisce dalla macchina della legge, un vecchio proiettore a bobine, che è il primo oggetto che il pubblico vede nella scena ancora vuota, all’aprirsi del sipario. Ottima la sottolineatura del nomos; peccato che non ci sia un briciolo di ironia, perché tutto è sempre tremendamente serio (ben diverso il tono con cui Thomas Mann avrebbe genialmente reinterpretato lo stesso personaggio nel romanzo Das Gesetz [La legge, appunto] del 1944). Il deserto è un fondale lattiginoso, in una visualizzazione resa ancor più vaporosa dal velatino bianco, dai costumi bianchi e fioccosi, che ricordano un precipitato chimico anziché un’ipotetica pelliccia. Sul fondale chiaro si proiettano parole, come ‘popolo’, ‘sacrificio’, ‘orizzonte’, ‘oppressione’, ‘bestemmia’, etc. etc., in una successione sempre più rapida e incalzante: dopo i concetti e le astrazioni si sussegue un intero vocabolario della malattia, mentre in effetti Aron mostra la mano piagata dalla lebbra e poi miracolosamente sanata; leggere può distrarre dall’ascolto musicale, ma l’effetto di opprimente angoscia è certamente ottenuto. Il missile che discende dall’alto è la rivendicazione della forza di Aron, nonché l’esito delle sue capacità persuasive. Un lungo tubo di cristallo estratto dal missile contiene l’acqua del Nilo evocata dallo stesso Aron: opportunamente agitata dai figuranti l’acqua si trasforma in sangue (un po’ come con l’ampolla partenopea di san Gennaro …). Nell’entracte silenzioso un cronometro mostra lo scorrere dei numeri, da uno a quaranta – i giorni di Moses sul monte – per poi arrestarsi e permettere la ripresa della musica. Und so weiter … Da scene come queste si comprende bene la forte esigenza di Castellucci di raccontare la storia, ossia di riproporre, con una simbologia abbastanza semplice, tutti gli elementi narrativi del racconto biblico alla base del libretto. Alla fine ci si rende conto che l’ambizione di raccontare prevale addirittura su ogni altra; anche l’intento di dimostrare l’inanità delle immagini, e la sostanziale vuotezza di un mondo dominato dalle immagini, resta sostanzialmente incompiuto. Ma il messaggio non-integro non deve poi apparire paradossale, perché forse è diretta conseguenza di una messinscena tanto cervellotica e inesauribile di trovate. Lo spettatore, in altri termini, non ha modo o tempo di riflettere, perché sempre subissato di diverse specie di mezzi artistici: i solisti e il coro cantano il difficile testo di Schönberg (in cui si orienta bene il conoscitore di Wittgenstein); poi ci sono orde di danzatori (la locandina ne enumera trentaquattro), i ballerini speciali (tre artisti della compagnia Kalliopé), sommozzatori che si immergono nella vasca d’acqua incassata nel palcoscenico, le comparse che versano e stendono ettolitri di inchiostro nerissimo su qualunque superficie e personaggio, il toro troneggiante (e dalla digestione intempestiva), gli acrobati che nella penultima scena si arrampicano sulla parete rocciosa del Sinai fino a restare a perpendicolo sul palco … Insomma, un coacervo di presenze umane disomogenee, in cui il messaggio forte della regia si stempera e si diluisce fino ad annacquarsi. Più che sul tremendo mistero della parola – una sorta di chiave di decifrazione della storia umana, e non solo di quella ebraica; in tal caso si tratterebbe della Parola – lo spettacolo di Castellucci si incentra sull’impossibilità di comunicare, a partire dal problema delle immagini. Il velatino, i costumi, la vernice-inchiostro, le ingombranti macchine, tutto appare simbolo di una barriera che sempre si interpone tra chi comunica e chi dovrebbe essere destinatario del messaggio. Neppure Moses e Aron comunicano tra loro; anzi, il blocco del dialogo si origina a partire da loro due per trasmettersi alla folla. Un’osservazione finale, però, può essere netta e interessante: secondo Castellucci il personaggio più sofferente, più soggetto all’umiliazione, più costretto a piegarsi ai bisogni primari e animaleschi dell’umanità non è Moses, bensì Aron; non colui al quale viene meno la parola (secondo la disperata battuta finale del II atto, e dunque finale dell’opera nella scelta del regista: «O Wort, du Wort, das mir fehlt!»), ma colui che ne ha sempre in abbondanza e che dovrebbe trasmetterla agli altri: egli è l’autentica vittima dell’intera vicenda, come se l’essere depositario della parola fosse già di per sé una condanna definitiva.   Foto Teatro Real © Javier del Real