Martina Franca, Festival della Valle d’Itria 2016: “Baccanali” di Agostino Steffani

Martina Franca, Chiostro di San Domenico, 20 luglio 2016
“BACCANALI”
Divertimento drammatico in un atto unico, libretto di Ortensio Mauro
Musica di Agostino Steffani
Prima esecuzione in tempi moderni
Edizione critica a cura di Cinthia Pinheiro Alireti
Atlante
NICOLO’ DONINI
Bacco/Tirsi RICCARDO ANGELO STRANO
Driade  BARBARA MASSARO
Celia  VITTORIA MAGNARELLO
Clori  PAOLA LEOCI
Aminta  ELENA CACCAMO
Fileno  CHIARA MANESE
Ergasto  YASUSHI WATANABE
Ensemble Cremona Antiqua
Maestro concertatore al cembalo e direttore d’orchestra Antonio Greco
Regia Cecilia Ligorio
Scene Alessia Colosso
Costumi Manuel Pedretti
Disegno luci Marco Giusti
Coreografie Daisy Ransom Philips
Martina Franca, 20 luglio 2016
Il “Progetto dell’accademia del belcanto 2016” con Baccanali (1695) – divertimento drammatico in un solo atto composto per il kleine schloss di Herrenhausen, residenza estiva della corte degli Hannover, da Agostino Steffani su libretto di Ortensio Mauro – bissa l’operazione di due anni fa condotta su La lotta d’Ercole con Acheloo (1689, stesso librettista, stesso genere, stessa destinazione e contesto produttivo). L’edizione critica basata sulle fonti musicali della British Library è sempre di Cinthia Pinheiro Alireti e la realizzazione musicale ancora affidata all’eccellente Antonio Greco che dal 2011 (con Il novello Giasone di Cavalli) garantisce al Festival martinese esecuzioni storicamente informate raffinate e gustose, capaci di avvicinare qualsiasi fascia di ascoltatore al repertorio sei-settecentesco, a torto giudicato ostico dai più. In questa occasione per la prima volta ha diretto l’Ensemble Cremona Antiqua (due flauti, due oboi, arpa, due violini, viola, violoncello e contrabbasso) la cui dimestichezza con le partiture del Seicento ha fatto la differenza rispetto ai precedenti allestimenti (perfette le dinamiche, gli stacchi di tempo, le scelte negli abbellimenti).
Il libretto di Ortensio Mauro, tipico prodotto cortense ricolmo di allegorie, passi sentenziosi e motteggianti, nel 1695 diede vita a una drammaturgia astratta e statica, configurandosi come collage di scene arcadico-pastorali irrelate e, pertanto, di non facile resa scenica su un palcoscenico odierno. La regista Cecilia Ligorio ha dovuto rafforzare il nucleo drammatico, tradendo il testo originale, e fare coincidere i personaggi di Bacco e Tirsi: Dioniso ha così vestito i panni del giovane pastore, in linea con il gioco di travestimenti peculiare dell’opera barocca, per convertire all’ebbrezza le ninfe più riottose. L’apoteosi bacchica conclusiva, con il trionfale corteo di baccanti, assume in tal modo il valore di un’agnizione finale che dà senso alle precedenti schermaglie amorose tra ninfe e pastori. La Ligorio è dunque riuscita ad attribuire linearità drammaturgica a un testo paratattico e centrifugo, anche grazie a un lavoro ben condotto sulla caratterizzazione dei singoli personaggi e sulla loro prossemica. Lo spazio scenico, costituito dai portici del chiostro e dal praticabile che cingeva l’ensemble strumentale (meglio collocato rispetto alla Lotta di Ercole con Acheloo), è stato gestito da tutti i lati senza alcun disordine, assicurando una dinamicità garbata, incrementata dalla controscena continua che ha realizzato la bravissima coppia di danzatori (la coreografa Daisy Ransom Philips affiancata dal ballerino Joseba Yerro Izaguirre). Il ballo (divertissement) era infatti un elemento essenziale nell’opera di Steffani (debitore alla spettacolarità di Lully e delle sue tragédies-lyriques) e intercalava i momenti cantati. La moderna riproposta dell’opera di Steffani ha giocoforza optato per la sovrapposizione delle componenti canore e coreutiche che tuttavia non è risultata distraente agli occhi del pubblico perché si è sempre inserita con intelligenza teatrale nell’azione rappresentata. La fascinazione delle evoluzioni scenotecniche costituiva un altro aspetto essenziale degli spettacoli alla corte di Hannover, impossibile da riproporre nelle condizioni allestitive del chiostro martinese. La scenografia di Alessia Colosso ha giocato, per forza di cose, su una dimensione simbolica, stilizzando nei pampini e nei rampicanti (divenuti luminosi nella scena conclusiva) l’eros bacchico. Apprezzabile, in corrispondenza della scena 8, il rispetto per la didascalia scenica originale che prevedeva la comparsa di quattro alberi, qui realizzati con l’innalzamento di strutture a rete. Le scene si sono ben sposate con i costumi di Manuel Pedretti, variazioni monocromatiche di delicatezza acconcia all’astratto contesto del mitico Parnaso.
Mettere in scena nell’ambito di un laboratorio teatrale indirizzato a giovani cantanti partiture di fine Seicento – sempre insidiose per l’intrinseca e imprevedibile duttilità del ritmo, del fraseggio, delle linee melodiche e degli snodi armonici – resta una sfida in cui la direzione artistica del Valle d’Itria crede strenuamente. Per la prova interpretativa del tenore Yasushi Watanabe si può parlare di capolavoro: voce morbidissima e suadente, di timbro prezioso per varietà di colori espressivi, stilisticamente adeguata al repertorio seicentesco, ottima nella dizione del testo. Per il contraltista Riccardo Angelo Strano (che nel 2014 aveva interpretato Acheloo) si è trattato di un bis che ha dato conferma delle sue doti di cantante e di attore: il suo timbro è infatti meraviglioso anche nella zona centrale e bassa (quella dove i falsettisti sono più a rischio) e, nonostante qualche episodio di stanchezza che lo ha reso un po’ calante verso la fine dell’opera, ha dimostrato una raggiunta maturità e una congenialità verso questo difficile repertorio. Ottime anche Vittoria Magnarello (uniforme nei passaggi di registro, voce sempre ben proiettata con una rigorosa attenzione tecnica allo stile seicentesco intriso di messe di voce e agilità articolate) ed Elena Caccamo (anche se avrebbe potuto evitare alcuni vibrati eccessivi che le hanno inficiato l’uniformità dei volumi). Paola Leoci è attorialmente spigliata con una bella voce ricca di armonici nella tessitura acuta a discapito però di quella centrale, cosa che la costringe quasi a ‘parlare’ in molti segmenti recitativi. Barbara Massaro ha una voce notevole ma poco adeguata al tipo di vocalità congruo con la scrittura di Steffani (che non è quella del Donizetti maturo) e di certo sarebbe stato auspicabile un minor vibrato e un suono più pulito specie nei passaggi virtuosistici richiesti alla sua parte. Meno convincenti le voci di Chiara Manese, la cui voce piuttosto scura non la rendeva perfetta nella dizione, e del basso Nicolò Donini, seppur impegnato solo all’inizio dell’opera, alle volte era in ritardo nelle entrate e con agilità poco chiare. Sia ben inteso: le poche critiche che qui si sono mosse hanno voluto essere soltanto dei suggerimenti migliorativi e a tutto il cast va tributato un elogio incondizionato. Del resto il numeroso pubblico che riempiva la metà del chiostro di San Domenico ha compreso il valore di questa straordinaria operazione culturale manifestando un apprezzamento forse inatteso per la sua calorosità (gli applausi e le grida erano quelle tipiche dei concerti pop). L’augurio è che ogni anno si proceda con simili riproposte e che tutti, specialisti e neofiti, possano bearsi dell’erotismo canoro peculiare del melodramma italiano seicentesco.