Shakespeare in musica: “Amleto” di Franco Faccio

Franco Faccio at time of composing AmletoRiportato alla luce a distanza di circa 150 anni dalla sua composizione dal direttore d’orchestra e compositore americano Anthony Barrese il quale, tra tante difficoltà, è riuscito a fare un’edizione critica della partitura, Amleto è la seconda, ultima e sfortunata opera di Franco Faccio, dal momento che non è mai entrata nel repertorio. Eppure la prima rappresentazione al Teatro Carlo Felice di Genova il 30 maggio 1865 era stata salutata da un successo clamoroso a cui avevano contribuito l’ottima direzione di Angelo Mariani e un cast eccezionale formato da Mario Tiberini (Amleto), Angelina Ortolani Tiberini (Ofelia), Elena Corani (Geltrude) e Antonio Cotogni (Claudio). Le aspettative della vigilia, quindi, non erano state deluse; il mondo culturale genovese, infatti, era in fermento per questo evento che si pensava potesse dare una svolta nuova all’opera italiana. Soprattutto erano accorsi numerosi i fautori dell’Arte dell’avvenire, come testimoniato da Verdi:
“Ora gli accoliti dell’Avvenire sono a Genova con l’incenso e in turiboli per innalzar degli osanna che equivarranno alla famosa Ode saffica col bicchiere alla mano. Ricordi, Filipi ecc., ecc., vi troveranno qualche altro che farà loro bordone. Vi manca il Gran Pontefice che è qui, ma aspetta martedì a notte un telegrafo a ogni atto dell’Amleto (e sono quattro). ieri sera gongolante mi disse che quel potentissimo ingegno, se pure cadrà, cadrà in piedi riservandosi a nuove pugne e più sicuri trionfi. Si vedrà, risposi, e cangiai discorso”[1]
Certamente questa rappresentazione, pur suscitando giudizi elogiativi da parte di molti giornali, non fu immune da attacchi denigratori, come si può leggere nella lettera di Mariani a Verdi del 31 maggio 1865:
Mario Tiberini as Amleto“Ieri sera andò in scena l’Amleto di Faccio. Il primo atto passò alquanto freddo… Mazzuccato, Filippi, Giulio Ricordi, il maestro Sala, Boito ed alrri Milanesi sono venuti ad assistere alla prima rappresentazione dell’opera del loro amico. Tranne Mazzuccato gli altri si trovano in Genova da venerdì della settimana scorsa. Ora sentirai strombettare su tutti i giornali il trionfo dell’Amleto, ma stattene a quello che io ti scrivo e che dico a te solo, perché a te si può, si deve, e sono obbligato di dire la verità. Già mille dispacci telegrafici partirono ieri sera. Questa mattina venne Mazzuccato da me con Faccio per ringraziarmi. Feci mostre di accettare i suoi complimenti ed attestati di stima, ma non mancai di fargli osservare che semmai l’Amleto si darà altrove non si potrà dire come si disse dell’Ebrea che cioè a Genova fu male eseguita. Si schernì col dire che non fu egli l’autore di quell’articoletto”[2]
Piave, a sua volta, scrisse il 2 giugno 1865:
“Passando poi alle notizie giunte sulla battaglia di Genova, debbo rettificare un mio errore che solo appresi ieri sera. Il Gran Pontefice fu presente alla battaglia, e ne sentii la sua orale relazione ai direttori della Scala nel palchetto alla Cannobiana. Te ne dirò le parole perché me ne ricordo: «Fu un esito dei più lusinghieri; vi furono 14 chiamate; vi sono almeno 6 pezzi d’incontrastabile effetto. S’immagini di sentire Gounod, Meyerbeer…». Per me (dico io) ciò vuol dire che siamo sempre ai Profughi fiamminghi.
Angiolina Ortolani Tiberini as OfeliaQuanto poi a Filippi ritornò come un ossesso, ed al Caffè Martini tra le risate dell’uditorio disse cose tali, che tutti ripetevano Pum Pum Pum all’unisono. Da 40 anni, egli esclamò l’Italia non vidde [sic] un’opera musicale più completa, più nuova, più fine, ecc. ecc. Dopo tanto strepitoso successo nessun artista peraltro scrisse una linea a nessuno corrispondente; e lo stesso impresario dopo la rappresentazione non ne disse verbo. Dunque dico l’entusiasmo della Filippa non era stato ad altri comune.
La sullodata Filippa dice mirabilia di Mariani, e pare vogliano proporlo Pontefice Ottimo Massimo dell’Avvenire. In casa Maffei dicono piovessero lacrime di gioia[3]“.
Fra le molte voci favorevoli apparse in numerosi giornali spicca il resoconto fatto da Mazzuccatto all’insegnante di Faccio, Stefano Ronchetti-Monteviti e pubblicato nel «Giornale della Società del Quartetto»:
“suscitò insolite e profonde emozioni nel pubblico genovese, che festeggiò l’egregio vostro allievo con ogni sorta di lusinghiere accoglienze. Le chiamate al Maestro ed agli esecutori furono unanimi, insistenti, continue, e sempre più calorose di mano in mano che l’immaginoso lavoro dispiegavasi dinnanzi agli occhi di uditori altamente sorpresi della verità dei concetti, della novità delle forme, della passione delle melodie, dell’armonia dell’insieme, del robusto magistero che domina in tutto lo spartito…
Antonio Cologni as ClaudioLa maggior parte degl’italiani continua a cantare il troppo vieto ritornello che l’arte della composizione e il genio sono perduti in Italia. Questa è una bestemmia, vivaddio! Non so se più sciocca o rea: bestemmia che purtroppo mille bocche vanno ripetendo pappagallescamente, ignare certo del male che fanno all’arte, agli artisti e al paese.
Finché noi vedremo dei giovani italiani dare per secondo lavoro una creazione seria e forte quale quella di cotesto Amleto, assicuratevi, mio amatissimo collega, che l’arte italiana non è vicino a morire…
Non tacerò che il libretto molto contribuì al fortunato successo dell’Amleto. E difatti non vi ha che una lode per Boito, persino dalla parte dei suoi più accaniti avversari[4]
Positivo fu anche il giudizio del giornale «Movimento»:
“Ieri sera le porte del Carlo Felice si apersero al preconizzato spettacolo del nuovo spartito di Franco Faccio, l’Amleto. Grande era l’aspettativa dell’universale, perché dubbia era corsa la fama sul nuovo genere di musica tentata dal giovane maestro. Accorse numeroso perciò il pubblico ed in atteggiamento di chi vuol giudicare con circospezione, diciamolo anche, con severità. Ma delle dubbie intenzioni ebbe a ricredersi, e dopo aver voluto pensarci sopra, prese la sua decisione; applaudì e applaudì con spontaneità, con entusiasmo[5]“.
L’opera, ripresa alla Scala sei anni dopo, il 12 febbraio 1871, incorse però in un clamoroso fiasco dovuto, secondo le testimonianze dell’epoca, anche alla performance poco brillante, contrariamente ai suoi standard, di Tiberini che, come affermato da De Renzis, totalmente afono e disorientato non emise una sola nota con l’accento di quel grande artista che fu sempre, abbassò la tonalità, soppresse intere frasi (Ivi, p. 115). La performance di Tiberini prestò il fianco ad una facile ironia tanto che Ricordi sulla «Gazzetta Musicale», scrisse: l’Amleto si è rappresentato senza Amleto. Faccio, infastidito dall’esito di questa rappresentazione, decise di ritirare l’opera che non fu più rappresentata né durante la sua vita né dopo la sua morte fino all’edizione critica curata da Barrese. L’insuccesso sembrò decretare, inoltre, la fine delle idee e delle aspirazioni della Scapigliatura, quel movimento giovanile che intendeva rinnovare l’arte in tutte le sue manifestazioni, ma che, nell’ambito del teatro musicale, aveva conosciuto due brucianti sconfitte: il fiasco della prima versione del Mefistofele di Boito nel 1868 alla Scala e quello dell’Amleto di Faccio il quale, dopo quest’insuccesso, si dedicò esclusivamente alla direzione d’orchestra dirigendo importanti prime come quella scaligera dell’Aida (12, febbraio 1872) e quella dell’Otello (La Scala, 5 febbraio 1887), ma non compose mai più.
Arrigo BoitoAmici sin dai tempi degli studi al Conservatorio, Faccio e Boito, condividendo le stesse idee estetiche, avevano sperato di dare ad esse una realizzazione concreta proprio nell’Amleto che costituisce il primo libretto scritto da Boito. Quasi coetaneo di Faccio (Verona, 1840), Boito (Padova, 1842) che, oltre ad essere musicista, fu anche un poeta, riteneva che si potesse nobilitare il teatro musicale facendo ricorso alla grande lezione di Shakespeare a proposito del quale aveva scritto proprio il 14 maggio 1865, due settimane prima della première al Carlo Felice dell’Amleto, sul «Giornale della Società del quartetto»:
“Il melodramma è la grande attualità della musica; Shakespeare è la grande attualità del melodramma. Sintomo imponente! L’arte tocca a Shakespeare? Sta bene, l’arta s’innalza. Le grandi fatiche non si addicono che alle grandi forze; il toccar la cima dell’alpe è avidità dell’aquila. Se oggi il melodramma s’attenta a toccar Shakespeare, è indizio sicuro che oggi il melodramma è degno di Shakespeare”[6].
Ma perché per Boito il melodramma sarebbe stato degno di Shakespeare solo in quel particolare periodo? Boito, probabilmente, intendeva affermare che, insieme a un rinnovamento dei soggetti dei melodrammi che si sarebbero dovuti ispirare al grande drammaturgo inglese, era necessario trasformare la formula, la struttura a pezzi chiusi tipica dell’opera ottocentesca che Abramo Basevi aveva definito la solita forma, in una vera e propria forma. In un altro articolo, pubblicato il 13 settembre 1863 su «La Perseveranza» Boito aveva scritto, infatti:
“La forma, la estrinseca manifestazione, la bella cera dell’arte, ha tanto di comune colla formula, come un’ode di Orazio col rimario di Ruscelli, come i raggi di Mosè con le orecchie dell’asino. E ciò che ne preme tosto di dire è che, da quando il melodramma ha esistito in Italia in fino ad oggi, vera forma melodrammatica non abbiamo avuta giammai, ma invece sempre il diminutivo la formula […] L’ora di mutare stile dovrebb’essere venuta, la forma vastamente raggiunta dalle altre arti dovrebbe pure svolgersi anche in questo studio; il suo tempo di virilità dovrebb’esser pieno, ci si levi la protesta e lo si copra di toga, ci si muti nome e fattura, e invece di dire libretto, picciola parola d’arte convenzionale, si dica e si scriva tragedia, come facevano i Greci” (Ivi, p. 1080-1081)
L’aspirazione degli Scapigliati era dunque quella di riuscire a creare una vera tragedia per musica non solo ispirandosi al tragediografo per eccellenza, ma anche dando una nuova forma al libretto. Ma ciò è stato realizzato nell’Amleto? Si può dire che le aspirazioni della Scapigliatura sono state realizzate solo in parte, in quanto dal punto di vista strutturale, se, da una parte, è vero che la solita forma, analizzata da Abramo Basevi nel suo Studio sulle opere di Verdi, che caratterizzava il melodramma ottocentesco, appare abolita, permane ancora una costruzione a numeri chiusi. Non importa, infatti, se i titoli delle singole sezioni dell’opera siano stati introdotti in modo posticcio per stamparle separatamente o siano stati decisi da Faccio, ma è altrettanto evidente che l’opera può essere divisa in quei pezzi chiusi la cui struttura interna, tuttavia, non risponde più alla solita forma con la tradizionale scansione in recitativi, tempi d’attacco, cantabili, tempi di mezzo e cabalette. Non mancano, tuttavia, i debiti nei confronti della tradizione con la netta separazione tra sezioni dinamiche, che, a volte, vengono realizzati anche come recitativi, e sezioni liriche, nella cui realizzazione musicale Faccio mostra d’iscriversi perfettamente nella tradizione italiana. Un esempio è l’aria della regina dell’atto terzo Io rea, io rea che il padre il cui accompagnamento in arpeggi ricorda molte pagine verdiane. Per quanto attiene alla linea del canto si assiste, inoltre, a una contrapposizione tra il declamato, prevalente nella parte di Amleto, al quale, nei suoi spunti di natura lirica, sono affidate delle melodie a volte tortuose che sembrano rappresentare le serpi che attanagliano il suo animo, e un puro lirismo che caratterizza la parte di Ofelia, la quale si produce in ampie arcate melodiche anche nel drammatico duetto con il principe nel secondo atto. Lo stesso trattamento dell’orchestra mostra un’ambivalenza, in quanto se, da una parte, presenta una scrittura sinfonica che le conferisce quasi le funzioni di un personaggio a sé stante, dall’altra accompagna il canto come avviene nella migliore tradizione melodrammatica. Essa, tuttavia, ha un ruolo di protagonista, in quanto le è demandata la funzione di introdurre le scene con preludi o brani strumentali che ne danno il colore. In conclusione, si può affermare che il tentativo degli Scapigliati di rinnovare il melodramma si pone nell’alveo della migliore tradizione italiana e non di quella tedesca, rappresentata da Wagner, il cui nome è stato spesso a loro accostato sin dai contemporanei tanto da suscitare la difesa di Filippo Filippi nel Manifesto degli avveniristi:
“Coloro i quali attribuiscono a noi, più ammiratori che partigiani di Wagner, il pensiero palese o nascosto di ridurre la musica e l’opera italiana ad immagine e similitudine di quella di Wagner prendono uno di quei granchi colossali che hanno per pretesto il patriottismo, ma che in fondo non nascondono altrimenti che dispettosa malignità”[7].
Se di influenza wagneriana si può parlare, questa appare limitata ad un più esteso utilizzo dell’armonia cromatica, ma non nella drammaturgia e nemmeno nella concezione dei Leitmotiv.
Per tutte queste ragioni l’Amleto si può considerare un’opera di transizione che tenta di creare una frattura con la tradizione operistica precedente, nei confronti della quale presenta, però, ancora innegabili debiti. L’opera per le spinte innovative avrebbe potuto costituire il primo passo di una vera riforma del melodramma che, comunque, Boito riuscirà ad attuare insieme al grande vecchio della musica, Giuseppe Verdi, con gli estremi capolavori della sua maturità, Otello e Falstaff.
L’opera
Atto primo

Amleto Facio 1871 set for act 1Una musica di carattere solenne e maestoso con squilli di trombe introduce la scena iniziale del primo atto che si svolge nella gran sala reale del castello di Elsinora dove la corte sta festeggiando l’incoronazione del nuovo re Claudio (Coro: Viva il re!); Amleto sta in disparte in atteggiamento contrariato non disdegnando il suicidio, al quale darebbe corso se non fosse un peccato, e pensando al padre morto in modo misterioso solo da un mese. Il clima di festa prende il sopravvento e assume le movenze di un vorticoso valzer nel quale si può notare un certo accento viennese, quasi straussiano. Subito dopo uno squarcio di puro lirismo si apre nella sortita di Ofelia la cui purezza è espressa dai chiari timbri dei legni che intonano il tema della sua “aria” (Dubita pur che brillino) in cui la fanciulla, innamorata del principe, lo invita a non essere triste e a credere nell’amore. Il re gli propone un brindisi in onore dei defunti per distoglierlo dalla sua tristezza il cui testo di carattere dualistico con la contrapposizione tra il mesto Requie ai defunti e lo spensierato E colmisi d’almo liquor la tazza è reso da Faccio con una contrapposizione di timbri, scuri i primi (clarinetto e fagotto), chiari i secondi (tutti), di tempi (2/4 contro ¾), ed armonie che accompagnano una melodia orecchiabile in cui si avverte la tradizione del melodramma italiano. Quando la festa sta per terminare, egli è avvicinato dall’amico Orazio e da Marcello, una guardia che gli racconta di aver visto il fantasma del defunto re. In questo passo, il cui carattere tenebroso viene squarciato dalla spensieratezza di Laerte che invita tutti a bere e dal tema della successiva orgia, qui accennato dalla banda, non mancano le influenze verdiane soprattutto nell’orchestrazione del tema che accompagna il dialogo intrattenuto da Amleto con Orazio e Marcello, dove sono evidenti i debiti nei confronti del duetto tra Rigoletto e Sparafucile del primo atto del Rigoletto. Mentre Amleto, con i suoi amici si allontanano, si scatena l’orgia (Su la danza si scateni). Introdotti da un breve preludio caratterizzato inizialmente dal timbro scuro di 4 violoncelli, i tre, avvolti in lunghi mantelli, vanno nel luogo indicato da Marcello dove improvvisamente vedono apparire una figura bianca nel quale Amleto riconosce il defunto padre. Lo spettro gli si avvicina e gli ordina di allontanare i due uomini. Rimasto solo con il figlio, svela con un tono maestoso quasi oracolare la causa della sua morte (Tu dei saper ch’io sono l’anima lesa del morto padre tuo): nel pomeriggio stava riposando come al solito, quando gli si avvicinò furtivamente il fratello Claudio che gli versò nell’orecchio un liquido di una fiala facendolo morire tra atroci spasimi (Era il momento). Sparito lo spettro, Amleto, sconvolto, promette che avrebbe vendicato il padre e fa giurare ai due amici di non raccontare ciò che hanno visto. Alla fine pregano, su delle misteriose e irrisolte quinte vuote, per l’anima del padre di Amleto.
Atto secondo
AmletoIntrodotto da un breve preludio strumentale basato su un’unica figurazione ritmica
, in una sala del castello, Polonio, che attribuisce la causa della pazzia di Amleto all’amore per Ofelia, propone al re di spiare di nascosto l’incontro fra i due. In quel momento giunge Amleto assorto nei suoi pensieri sulle sorti della vita (Essere o non essere); il suo monologo si caratterizza per un declamato vibrante che, però, trova un’espansione lirica nel Moderato assai, quasi un cantabile da opera ottocentesca, Oh se bastasse il rapido. In quel momento gli si avvicina Ofelia col proposito di offrirgli un dono, ma Amleto rifiuta il dono e tratta la giovane con grande durezza suggerendole di farsi monaca. Anche in questo duetto Faccio delinea i due personaggi con una scrittura vocale diversa: tortuosa quella di Amleto, di puro lirismo quella di Ofelia che, accortasi dello stato di alienazione della persona amata, rivolge a Dio una commovente preghiera. Allontanatasi la giovane pensierosa e dolente, ritorna Polonio per informarlo dell’arrivo di una compagnia di artisti che si sarebbero esibiti nel castello.
La scena successiva, in cui ha luogo la rappresentazione, viene introdotta da una musica di carattere solenne che trova il suo punto culminante in una marcia dall’andamento ieratico. Alla rappresentazione Amleto si mostra allegro e molto gentile nei confronti di Ofelia, ma nessuno immagina il motivo di tanta gioia. Gli artisti stanno rappresentando un dramma che tratta dell’assassinio del re Gonzaga da parte del fratello. All’inizio della rappresentazione in un duettino abbastanza tradizionale il re confida alla moglie di sentire prossima la morte, mentre Amleto chiede ad Orazio di scrutare le reazioni del re. Amleto, intanto, dando alla tragedia il titolo diverso di La trappola, spiega al re che il dramma rappresentato è accaduto a Vienna e che il sorcio, per il quale è stata preparata la trappola, è proprio il re. Poco dopo entra in scena Luciano che, nelle vesti del fratello, si avvicina al re Gonzaga, turbando Claudio il quale, oppresso dal rimoso, manifesta alla regina la paura che si sta impadronendo della sua anima nel vedere la scena che gli ricorda il suo delitto. Nel momento in cui l’attore Luciano versa un liquido nell’orecchio del fratello, Claudio si alza spaventato e interrompe la recita dando la prova ad Amleto della sua colpevolezza. Estremamente raffinata dal punto di vista contrappuntistico, la scena si conclude con una precipitosa scala cromatica discendente, metafora di una discesa agli inferi che coinvolge tutti i personaggi
Atto terzo
Introdotto da un breve preludio caratterizzato inizialmente da un tema etereo che si fa più tormentato nel prosieguo del brano strumentale
, Claudio, preso dal rimorso, recita il Padre Nostro chiedendo pietà del suo delitto (o Padre nostro che sei nel cielo). In quel momento è raggiunto da Amleto, che, armato di pugnale, vorrebbe uccidere lo zio, ma poi preferisce rimandare temendo di mandarlo in Paradiso piuttosto che all’Inferno. La preghiera ha una scrittura armonica diatonica piana che, però, è turbata da cromatismi pieni di tensione a conclusione di essa quando il re manifesta tutto il suo tormento. Successivamente la madre raggiunge Amleto il quale, dopo averle rinfacciato il suo incestuoso matrimonio con il fratello del padre, in un raptus di follia sta per ucciderla quando sente delle grida d’aiuto provenire da dietro l’arazzo. È Polonio che si era nascosto lì per ascoltare il dialogo tra madre e figlio e Amleto, credendolo il re, lo trapassa con il pugnale attraverso l’arazzo. Continua poi ad accusare la madre di complicità nell’assassinio e di adulterio nella sezione “lirica” del duetto (Oh re ladrone) e, mentre è preso da un attacco di risate isteriche, vede lo spettro del padre che gli ricorda la sua vendetta. L’apparizione è invisibile agli altri e ciò convince la madre che Amleto è folle. Il duetto si conclude con una sezione di intenso lirismo (Celesti spiriti) nella quale la madre invita Amleto (Figlio deliri) a ritornare ai teneri dì della dolce calma, mentre lo Spettro chiede di pregare per sé. Rimasta sola, la Regina, inizialmente si fa cogliere dall’ira nei confronti del figlio, ma, presa dal rimorso, si produce nel cantabile agitato dagli accenti verdiani Io rea, io rea che il padre nel quale manifesta il suo desiderio di essere uccisa dal figlio a cui ha arrecato tanto dolore essendosi fatta complice dell’omicidio del padre.
Morte di OfeliaLa scena conclusiva dell’atto terzo si apre con un breve preludio strumentale nel quale la natura è rappresentata grazie a una scrittura romantica sia attraverso un breve inciso tematico affidato al flauto che sembra riprodurre le voci degli uccelli sia attraverso un tema di ampio respiro melodico affidato agli archi. Quest’atmosfera serena, che rappresenta la lussureggiante vegetazione di una zona del parco di Elsinora attraversato da un ruscello, cede il posto ad una scrittura fortemente caratterizzata in senso percussivo che accompagna i rumori di un tumulto e le voci minacciose di persone che reclamano la morte del re. Tra di loro c’è Laerte che, ritenendo il re il responsabile dell’uccisione del padre, gli si avvicina per vendicarsi, ma, avendo appreso dallo stesso monarca che il vero responsabile della morte di Polonio è Amleto, ne va alla ricerca. Introdotta dal puro suono del flauto che esegue degli arpeggi quasi in fase cadenzante, sopraggiunge Ofelia la quale, in preda alla follia, oltre a piangere la morte del padre, immagina la sua stessa morte e la sua sepoltura nel cantabile pieno di tenero lirismo La bara involta d’un drappo nero. Il vaneggiamento di Ofelia non sfugge a Laerte che piange la sorella (Sventura orrenda) e in un momento d’ira pronuncia il nome di Amleto che risveglia nella mente della ragazza le parole dell’ultimo colloquio avuto con il giovane amato. Alla fine la ripresa del tema del preludio prefigura una fusione della giovane con la natura e poco dopo, il cadavere di Ofelia, che si è inoltrata tra la vegetazione, è visto galleggiare, circondato da fiori, sulle acque del ruscello.
Atto quarto
Una breve introduzione strumentale, che, aperta nella tetra tonalità di si minore, si conclude in maggiore con la terza piccarda, disegna l’interno del cimitero, luogo in cui è ambientata la scena iniziale dell’atto quarto. Una scarna strumentazione, caratterizzata da quinte vuote tenute dai contrabbassi e dai violoncelli che danno un profondo senso d’indeterminatezza a causa della mancanza della terza, accompagna il canto poco rispettoso del luogo sacro di due becchini (Oggi a me, domani a te) ai quali risponde la solitaria voce dell’oboe. I due becchini sono spiati da Amleto e Orazio; il principe, dopo essersi prodotto in un’amara considerazione sul cranio dissotterrato dai becchini, chiede ad uno dei due a chi appartenga. Appreso che si tratta del teschio del giullare Yorick, Amleto ricorda la sua infanzia e soprattutto i giochi che faceva con quell’uomo di cui è rimasto un putrido teschio. Nel frattempo, accompagnato da un brano strumentale caratterizzato da un tema malinconico, si avvicina un corteo funebre che induce Amleto ed Orazio a nascondersi. Nel corteo, che sta accompagnando la sventurata Ofelia verso l’ultima dimora, ci sono anche il Re, la Regina e Laerte i quali invitano a pregare per la defunta e, se il Re ne tesse le lodi, Laerte si lancia in una violenta invettiva contro Amleto che, come un forsennato, esce dalla zona non illuminata e ingaggia con lui una lotta corpo a corpo. I due sono separati a fatica, mentre alla fine il Re ordina di sorvegliare Amleto.
Scena finaleNella sala d’armi del castello, dove campeggia al centro il trono del re, entra una folla di cavalieri e dame introdotta da un breve preludio caratterizzato da una fanfara che ricorda gli squilli delle trombe che precedevano i tornei medievali. Un araldo espone le regole della tenzone (Illustri cortigiani e cavalieri) che vede come sfidanti Laerte e Amleto in una gara di scherma che sarebbe stata vinta da chi avrebbe toccato per tre volte per primo l’avversario. I cortigiani e i cavalieri intonano un coro (Gloria al monarca) in cui esaltano il re che chiede a Laerte se è stata avvelenata la punta del suo fioretto. Amleto, dopo aver chiesto scusa per la sua temporanea demenza, ingaggia il duello con Laerte toccandolo per primo; il Re finge di festeggiare Amleto invitando il giovane a bere, ma il principe continua il suo assalto colpendo una seconda volta Laerte, mentre la regina beve il vino avvelenato preparato per il figlio prima che il re possa fermarla. Laerte ferisce Amleto con il fioretto avvelenato e a sua volta è ferito da Amleto il quale, dopo averlo disarmato, scambia il fioretto con il suo avversario. Infine, avendo compreso che la madre era stata avvelenata, uccide il re e, sostenuto da Orazio, muore stoicamente gridando: t’aspetto o morte. Nella versione approntata per la Scala quest’ultima scena appare tagliata e l’opera si concludeva nel cimitero dove Amleto, dopo aver disarmato Laerte, non lo uccide e si rivolge contro il Re che, in questa versione, era l’unico a morire nel finale.

[1] F. Abbiati, Giuseppe Verdi, Vol. 3, cit., p. 19.
[2] Ivi, p. 20.
[3] Ivi, pp. 20-21.
[4] Ivi, p. 22.
[5] V. De Renzis, L’Amleto di Arrigo Boito, con lettere inedite di Boito, Mariani e Verdi. Ancona: La Lucerna, 1927, p. 35.
[6] A. Boitoi, Tutti gli scritti, a cura di P. Nardi, Mondadori, Milano, 1942, pp. 1172-1173
[7] Il passo è citato in G. Barigazzi, La Scala racconta, Hoepli, Milano, 2014, p. 161.

Un particolare ringraziamento a Anthony Barrese per le informazioni e la preziosa documentazione che ha reso possibile la realizzazione di questo approfondimento.