Venezia, Teatro La Fenice: “Il signor Bruschino”

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione 2015-2016, Lirica e balletto
“IL SIGNOR BRUSCHINO”
Farsa giocosa in un atto di Giuseppe Foppa, dalla commedia “Le Fils par hasard, ou Ruse et folie” di René de Chazet e Maurice Ourry.
Musica di Gioachino Rossini
Gaudenzio DAVIDE GIANGREGORIO
Sofia GIULIA BOLCATO
Bruschino padre FILIPPO FONTANA
Bruschino figlio/Un delegato di Polizia DAVID FERRI DURÀ
Florville FRANCISCO BRITO
Filiberto CLAUDIO LEVANTINO
Marianna GIOVANNA DONADINI
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Alvise Casellati
Maestro al fortepiano Roberta Ferrari
Regia Bepi Morassi   
Scene Erika Muraro
Costumi Nathan Marin
Costruzioni Marta Zen
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 30 settembre 2016     
È andato in scena al Teatro La Fenice Il signor Bruschino di Rossini, in un allestimento realizzato dall’Atelier della Fenice al Teatro Malibran, avvalendosi della collaborazione degli allievi della Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia guidata dai tutor Giuseppe Ranchetti (laboratorio scene), Paola Cortelazzo (laboratorio progettazione costumi) e Giovanna Fiorentini (laboratorio costumi), su progetti degli studenti Erika Muraro (scene), Nathan Marin (costumi) e Marta Zen (costruzioni), realizzati in appositi laboratori cui hanno partecipato una quarantina di studenti dell’Accademia stessa; il tutto con il coordinamento e la supervisione di Bepi Morassi. direttore della produzione artistica. Si tratta dello stesso allestimento proposto l’anno scorso al Teatro Malibran, con cui si è concluso il ciclo dedicato alle farse messe in musica dal giovane Rossini per l’antico Teatro di San Moisè. Ultima delle cinque farse ad atto unico, firmate dal Pesarese, Il signor Bruschino è la classica “commedia degli equivoci”, che trova la sua risoluzione nel topos dell’agnizione e nel conseguente lieto fine. Il poeta veneziano Giuseppe Foppa – esperto librettista, autore anche dei libretti de L’inganno felice e La scala di seta – trasse dalla commedia Le fils par hasard di René de Chazet e Maurice Ourry un intrigante libretto, summa dell’opera comica così come andava di moda all’inizio dell’Ottocento. Per quanto attiene alla alla musica, il lavoro è assolutamente pregevole: il giovane compositore rispetta la tradizione, ma guarda anche verso il futuro, ad esempio per quella nuova sensibilità che prelude al primo Romanticismo, che convive nell’opera con gli aspetti più squisitamente comici. Inspiegabile, dunque – almeno in base al gusto attuale – il clamoroso fiasco che subì la première al San Moisè, il 27 gennaio 1813; un’oltraggio da cui Rossini si riscattò appena dieci giorni dopo con il successo riportato dal Tancredi alla Fenice e di lì a qualche mese, sempre a Venezia, dall’Italiana in Algeri al Teatro – oggi scomparso – di San Benedetto.
Venendo alla messinscena, coordinata da Morassi, essa si è rivelata veramente gradevole e spiritosa, con qualche originale trovata come il plastico posto sul palcoscenico – che rispecchia, in scala ridotta, la scenografia vera e propria dal fantasioso realismo, tra passato e presente –, su cui compaiono anche le sagome dei personaggi: “teatrino” – per così dire – nel teatro. Indovinati i costumi – anch’essi in parte “moderni, in parte d’altri tempi – al pari delle costruzioni. Tutti bravi, quanto al gesto scenico, i cantanti e i mimi. Eccellente anche l’esecuzione musicale. Giulia Bolcato ha impersonato una Sofia scaltra e appassionata: grazie alla sua limpida vocalità di soprano leggero di pasta omogenea, alla nonchalance con cui saliva fino alla zona acuta o affrontava le colorature, spesso insidiose, che connotano la sua parte, si è messa particolarmente in luce nel recitativo e aria-clou dell’opera “Ah voi condur volete … Ah donate il caro sposo” – dove già si coglie un’aura protoromantica –, che tra l’altro ha cantato, indossando elmo e corazza, sopra un cavallo di legno, come fosse un’eroina del melodramma serio. Analogamente il tenore Francisco Brito, con la sua voce dal timbro chiaro, che si estende con invidiabile sicurezza fin nel registro sovracuto, ha offerto un Florville teneramente innamorato nella cavatina “Deh! tu mi assisti amore”, intrisa di lirismo, e poi nel duetto con l’amata Sofia (“Quant’è dolce a un’alma amante”), sapendo peraltro trovare il giusto tono spregiudicato nel successivo duetto “Io danari vi darò”, in cui si rivolge a Filiberto – che ha preso in ostaggio nella sua locanda Bruschino figlio, in quanto cliente moroso –, promettendogli di dargli dei soldi, purché tenga ancora sotto chiave il suo rivale. Validissimi i anche i baritoni. Filippo Fontana è un Bruschino padre dalla sicura vocalità gradevolmente timbrata, mai eccessiva nell’espressione come nel fraseggio, a delineare un personaggio divertente ma nello stesso tempo credibile (anche nell’aria, che si presterebbe a facili quanto scontati effetti, “Ho la testa o è andata via?”, cantata nel buio più completo). Lo stesso si può dire del Gaudenzio di Davide Giangregorio, che non è il solito tutore imbecille, ma rivela una sua umanità, come ha confermato l’aria “Nel teatro del gran mondo”, e del Filiberto di Claudio Levantino, sempre attento a non debordare dal buon gusto. Sono apparsi all’altezza anche il soprano Giovanna Donadini (Marianna) e il tenore David Ferri Durà (Bruschino figlio/Un delegato di polizia), entrambi garbati nella loro comicità. Irresistibili le scene d’insieme: dai terzetti –  tra Bruschino padre, Gaudenzio e Florville – “Uh che caldo! … e lo degg’io” e “Eh lasciatemi in malora! (quest’ultimo con Bruschino che canta trasportato in una carriola) al concertato finale, “Ebben, ragion dovere”, dove l’intero cast ha sfoggiato musicalità e precisione. Sensibile e sicura la bacchetta di Alvise Casellati, che ha tratto dalla preziosa scrittura rossiniana colori, di volta in volta, smaglianti o delicati. Il direttore ha imposto un ritmo diffusamente spedito ma mai in questo senso eccessivo e ha accompagnato con rispettosa autorevolezza le voci. Ottima la prestazione dell’orchestra, che si è fatta apprezzare particolarmente nella celebre sinfonia, vero capolavoro nel suo genere, nonché testimonianza ineguagliabile della proverbiale ironia del Pesarese, che impone ai violini, in certi brevi passaggi, di battere con l’archetto “sui piatti sottoposti al lampadino” e, in altri, di percuotere la corda con il legno producendo una nota dal timbro particolare. Cose che scandalizzarono all’epoca, e ora sono considerate manifestazioni dell’originalità di un genio precoce. Applausi, applausi, applausi per tutti. Foto Michele Crosera