L’organista 2.0: Cameron Carpenter a Madrid

ITO (International Touring Organ)

Madrid, Auditorio Nacional de Música
Orquesta y Coro Nacionales de España (OCNE), Ciclo Sinfónico – Temporada 2016-2017 “Locuras”
Orquesta Nacional de España
Direttore Jakub Hrůša
Organo Cameron Carpenter
César Franck: “Le chasseur maudit”FWV 44
Francis Poulenc: Concerto per organo e orchestra in sol minore
Johan Sebastian Bach: Passacaglia e fuga in do minore per organo solo BWV 582
Richard Strauss: “Tod und Verklärung” op. 24
Madrid, 11 novembre 2016

Una ventina di altoparlanti puntati come cannoni contro il pubblico, pronti a sparare ondate di suono elettricamente amplificato nei più variegati registri; una dozzina di grandi blocchi mobili, più la consolle centrale e qualche altra apparecchiatura digitale; al posto delle canne, le casse acustiche; e al posto di un ascetico organista nella lontananza superiore della sala o della navata, un artista in giacca di velluto nero, cravatta nera, stivaletti di pelle nera con tacco argentato e maliziosamente luccicante. Il tutto costituisce l’effetto ITO (International Touring Organ) voluto dal trentacinquenne Cameron Carpenter, il tastierista statunitense divenuto celebre per aver progettato e creato il gigantesco (ma trasportabile) elettrofono che dal 2014 visita le sale da concerto di tutti i continenti, suscitando appassionati entusiasmi e qualche esplicita perplessità. Già nel nome del mastodontico strumento è l’augurio di un viaggio incessante, come se si volesse aggiornare l’antico organo portativo all’età della globalizzazione, dei rapidi viaggi transoceanici, e soprattutto dell’elettronica; in realtà Carpenter propone un’idea totalmente differente dell’esecuzione organistica e del tipo di suono che ne è alla base. Il primo e non trascurabile effetto dell’architettura dell’ITO è la visibilità della consolle, delle tastiere, della pedaliera; l’organista non siede infatti alla sinistra del direttore (come un pianista, per intendersi) ma sta al suo fianco dando le spalle al pubblico, così da permettere a quest’ultimo di osservare le evoluzioni di braccia e piedi. Nel repertorio bachiano la vista della pedaliera accresce enormemente il carattere spettacolare, e spiega perché Carpenter calzi stivaletti dall’alto tacco argentato, che sfavillano a ogni movimento (del resto stiamo parlando dello stesso artista che in altre occasioni ama esibire platealmente i propri bicipiti …). Certo, come in ogni occasione artistica in cui la tecnologia costituisce il primo requisito, il rischio d’incidente è sempre alle porte, e crea penosi momenti d’incertezza e imbarazzo: quando Carpenter si accomoda sul seggiolino della consolle si rende subito conto che qualcosa non funziona; esce, rientrano due tecnici che sottopongono a nuovo controllo il macchinario, trascorrono alcuni minuti di tentativi e di dubbi, poi finalmente tutto si illumina e si è pronti ad attaccare il concerto di Poulenc. Ottima l’orchestra diretta da Jakub Hrůša, anch’egli trentacinquenne; ottimo Carpenter, almeno per chi pretenda una performance organistica molto cool e un po’ rock, visto che il musicista esalta esageratamente i contrasti di sonorità; del resto è questa la peculiarità di un elettrofono così potente, ma ne costituisce anche il limite, perché si percepisce chiaramente l’innaturalità di tale amplificazione, come quando si alza troppo il volume della radio o della televisione. E poi Carpenter è decisamente aggressivo nei confronti delle frasi musicali di Poulenc; l’abilità tecnica è fuori discussione, ma gli arpeggi sono enunciati con rapide sprezzature, sempre al limite dello sberleffo. Il pubblico di Madrid – dove Carpenter debutta – al termine del concerto di Poulenc è più strabiliato che entusiasta (alla seconda replica del nostro concerto non mancano neppure sdegnate grida di dissenso); per questo l’abilissimo artista attacca subito un brano bachiano fuori programma, di fronte all’orchestra abbastanza sorpresa. Già l’atmosfera cambia, perché il solista vuole rassicurare i presenti, tranquillizzarli con un “Siamo a casa, non ve ne accorgete? Rilassatevi!” E quindi via a tutto gas con una marcetta più che bandistica, tutta effetti speciali, un Fucik all’ennesima potenza, con sferragliare di carrozzoni circensi e ripetuti colpi di grancassa. Il pubblico adesso va in visibilio, esplode di gioia, sembra non attendere altro, e non si accorge che il motivetto semi-improvvisato, grottesco e baraccone, è funzionale a far dimenticare sia le spericolate modulazioni di Poulenc sia le delicatezze armoniche di Bach. La scena si ripete anche all’inizio della seconda parte: la Passacaglia BWV 582 si conclude con un accordo che fa sussultare a lungo l’impiantito, come se si assistesse all’atterraggio di un elicottero; ma segue un tango argentino quale ultimo bis capace di strappare l’apprezzamento più appassionato del pubblico, compreso quello arcigno … hoc erat in votis. Ed è importante ricordare che i musicofili madrileni ogni sabato mattina possono assistere a un concerto d’organo, proprio all’interno di questa sala, dove si esibiscono i più importanti virtuosi della tastiera; questo per dire che i frequentatori dell’Auditorio Nacional non sono certo digiuni né del repertorio organistico né delle sue più rinomate interpretazioni.
Il programma per tastiera era in realtà incastonato dentro due estremità sinfoniche: Franck all’inizio, Strauss al termine. Per parlare dell’orchestra e del lavoro svolto dal direttore ceco si devono senz’altro menzionare i corni nell’incipit del Chasseur maudit, molto buoni, sebbene poi, nell’enunciazione del tema principale, la trama degli archi in controcanto agli ottoni vada un poco disperdendosi, come se l’assertività dominasse (ma nella partitura non è così: a legni e viole Franck affida disegni nervosi che dovrebbero emergere meglio). Il suono complessivo è molto suggestivo, e prepara bene al momento protagonistico dell’organo. Dopo la violenza sonora di quest’ultimo, comunque, la delicatezza del flauto e del violino nella prima parte di Tod und Verklärung echeggia come un’oasi di serenità perduta. Qualche incertezza nello sviluppo, con sonorità non bene mescidate, non impedisce che il direttore offra un finale molto lavorato, anche grazie all’ottima prestazione dei tromboni, e raggiunga un pregevole amalgama nella impegnativa coda, accompagnata da robusti e unanimi apprezzamenti del pubblico.Al termine del concerto il maestoso organo dal disegno vagamente luterano che scandisce il profilo verticale della Sala Sinfónica resta avvolto nella penombra, come un celebrante privato del controllo della liturgia; a chi ne guarda le immote, severe canne, lassù, sembra di sentirgli mormorare: “Un tal baccano in chiesa! Bel rispetto!”