Esperimenti coreografici di “La Ribot” al Teatros del Canal di Madrid

Madrid, Teatros del Canal
“ANOTHER DISTINGUÉE”
Coreografia La Ribot
Interpreti La Ribot, Juan Loriente, Thami Manekehla
Luci Eric Wurtz
Madrid, 26 febbraio 2017

Eravamo tutti quanti disorientati dal buio silenzioso di una grandissima sala: attenti a osservare che cosa accadesse, chi occupasse lo spazio vuoto attorno a un ammasso di teli neri, una montagna scura al centro dello spazio. Niente poltrone, niente palco, niente scene; il pubblico, in piedi o seduto per terra, ad attendere gli artisti. Fino a quando irrompono due figuri, rivestiti di una calzamaglia color carne, e ritmicamente iniziano a ritagliare il primo strato di pelle che hanno addosso, rivelando un costume nero e lucente al di sotto. Sono due attori della compagnia di La Ribot, che ingaggiano una specie di lotta dalle movenze anche erotiche, in cui la donna ritaglia la pelle dell’uomo e gliela nasconde sotto il costume e poi l’uomo fa altrettanto con la donna: sfida e umiliazione, rivincita e aggressività si alternano senza fine in un numero estenuante (dura venticinque minuti), sullo sfondo una sequenza di house music della qualità più scadente. Entra un terzo attore, tutti ci si sposta per seguire il nuovo sviluppo: i due uomini si coricano a terra nudi, ricoperti soltanto da un lenzuolo; la donna lo taglia, in corrispondenza della piega più alta che copre i corpi, per poi segnare la linea del taglio con un pennarello sulla carne nuda. Quindi l’uomo e la donna indossano pantaloni di tela attillati e se li ritagliano con le stesse forbicine, segnando sulla pelle la linea longitudinale del taglio con altri pennarelli, rosso e nero. La prima parte dello spettacolo è tutt’uno sforbiciare, tutt’una frenesia di tagliare abiti e tele. Poi, abbandonate (per fortuna) le forbici, iniziano passi di danza elementari e ripetitivi, combinati tra di loro fino all’ossessione. Che cosa sono questi numeri frammentari, del tutto privi di un senso narrativo? Sono quel che nel lessico di La Ribot si denominano “pezzi separati” (Piezas distinguidas, da cui deriva anche il titolo bilingue), ossia esercizi coreografici in cui la (poca) danza si combina con la (altrettanto poca) recitazione. Evidentemente il contenuto di questi pezzi non ha alcuna importanza; tutto, anzi, pare un pretesto per formulare “pezzi distinti” ed enumerarli negli anni, con la possibilità di creare sequenze e composizioni sempre nuove (ma forse sempre scipite allo stesso modo). È infatti dal 1993 che La Ribot, regista e performer di nazionalità spagnola ma dalla carriera internazionale, propone sequenze di Piezas distinguidas, ognuna delle quali ha un titolo; fino a oggi ne ha elaborate più di cinquanta, e per l’occasione presso la Sala Negra del Teatro Canal ne offre otto di seguito, per uno spettacolo a contatto diretto con il pubblico di quasi un’ora e mezza. Dark practices (il primo numero), Super Romeo, Sirènes, Sacrifice I, Sacrifice II, Desasosiego, Olivia, sono i titoli dei vari numeri nell’ordine in cui si presentano; ma sarebbe arduo ritrovare un filo che li collegasse e li spiegasse. Alcune di queste pièces sembrano nate per suturare tempi morti della performance, anche se al loro primo apparire possono destare la curiosità del pubblico. Il numero conclusivo è quello più elaborato, ma anche quello più banale: i due uomini, ora abbigliati con altri pantaloni di tela, camicia e cravatta colorate, stendono a terra una larghissima tovaglia di velluto verde su cui si coricano; la donna li raggiunge e inizia a spennellare i loro corpi di una vernice rossa (che schizza anche a una certa distanza). L’operazione prosegue, accompagnata dal canto popolare sullo sfondo, Anda y pínchame una vena (Forza, bucami una vena), fino a che i due sciagurati sono totalmente ricoperti di colore. Si spegne la musica e si spegne anche lo spettacolo, nella stupefazione e nel disorientamento generale.
Se ognuno di questi numeri fosse filmato, registrato, ripetuto a oltranza in video-installazioni all’interno di una galleria d’arte e accostato ad altri numeri, da vedere contemporaneamente, la resa sarebbe sintetica, plurilinguistica, efficace. Ma la giustapposizione dei numeri in uno spazio troppo ampio e il continuo rincorrersi degli attori e del pubblico sciupano tutto il potenziale plastico e l’attrattiva per la ripetizione. Dopo tre quarti d’ora di sforbiciate e di movimenti meccanici ripetuti all’infinito, con – o spesso senza – musica di accompagnamento, la noia comincia ad affiorare. Lo spettacolo è presentato come un momento di totale libertà per lo spettatore, che può restare in piedi, sedersi, spostarsi nella sala; ma anche questo suona pretestuoso e idealistico. Lo spettatore in realtà non è affatto libero; al contrario, è costretto a rincorrere gli artisti, e farsi strada in mezzo ad altre persone, se davvero vuole vedere qualcosa, giacché la maggior parte dei numeri si svolge a terra, e tutti – nell’intento di capire che cosa stia accadendo – si tengono molto vicini agli artisti, impedendo di vedere a chi rimane dietro di loro. Gli spettatori – una folla eterogenea, in cui non tutti dimostrano dimestichezza con la danza d’avanguardia e il teatro sperimentale – segue accanitamente gli artisti nei loro movimenti, forse li asseconda persino troppo, e accetta tutto quanto proposto con assoluta serietà; o forse è lo spavento di chi non osa neppure sorridere delle bizzarrie e della pochezza di idee che finisce per riempire il tempo. Alla fine occorre stare attenti che la vernice non cada sugli abiti, ed è bene tenersi a debita distanza; ma non c’è pericolo che un applauso scrosciante confonda gli spettatori con gli attori; al contrario, si respira come un’aria di lieve imbarazzo, di sfinimento e di delusione.   Foto Teatros del Canal