Milano, Teatro alla Scala: “Anna Bolena” con Federica Lombardi

Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’opera e di balletto 2016-2017
“ANNA BOLENA”
Tragedia lirica in due atti su libretto di Felice Romani
Musica Gaetano Donizetti
Enrico VIII CARLO COLOMBARA
Anna Bolena FEDERICA LOMBARDI
Giovanna Seymour SONIA GANASSI
Lord Rochefort MATTIA DENTI
Lord Riccardo Percy PIERO PRETTI
Smeton MARTINA BELLI
Signor Hervey GIOVANNI SEBASTIANO SALA
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Ion Marin
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia Marie-Louise Bischofberger
Scene Eric Wonder
Costumi Kaspar Glarner
Luci Bertrand Couderc
Produzione Opéra National de Bordeaux
Milano, 20 aprile 2017
A distanza di trentacinque anni dal tristemente noto fiasco del 1982, “Anna Bolena” torna alla Scala senza riuscire a risollevare la sorti di un’opera sulla quale sembra pendere ormai una sorta di maledizione quando allestita sulle tavole del Piermarini (rimandiamo alla precedente recensione per ripercorrere più nel dettaglio la storia scaligera del titolo donizettiano).  La produzione è la ripresa di uno spettacolo andato in scena nel 2013 al Grand Théâtre de Bordeaux, per la regia della svizzera Marie-Louise Bischofberger. Privo di un’incisiva chiave di lettura capace di scavare anche solo minimamente nel dramma, lo spettacolo si riduce all’avvicendarsi dei cantanti in proscenio, abbandonati sostanzialmente a se stessi salvo l’imposizione di movimenti ridicoli di cui ci limiteremo a citare le continue piroette di Seymour, Anna che si guarda i piedi perplessa prima di attaccare “Piangete voi?”, o l’innaturale tenersi per mano dei protagonisti che trasforma il grande concertato del primo atto (“Io sentii sulla mia mano”) in una sorta di saggio di fine anno scolastico. Svariate sono poi le trovate kitsch, scontate o no-sense: flûte di champagne con secchio del ghiaccio annesso; una bimba che vaga in scena continuamente nei panni della figlia Elisabetta; una bambola cui Anna stessa stacca la testa nel finale primo; coriandoli che piovono dal cielo; una donna fantasma che cammina avanti e indietro con un corvo in testa durante la Scena della Pazzia. Non contribuiscono a rendere lo spettacolo almeno visivamente appetibile i costumi di Kaspar Glarner e le scene insipide e spoglie di Eric Wonder, consistenti in un fondale fisso squarciato da un quadrilatero sghembo che rivela proiezioni non ben identificate e lascia filtrare le luci piuttosto anonime firmate da Bertrand Couderc. Insomma, un allestimento grigio sia a livello cromatico che di significato, privo di qualsiasi sforzo nell’indagare la profondità drammatica della vicenda. Se i protagonisti sul palco, come vedremo in seguito, regalano qualche sospiro di sollievo, questa Bolena non potrà che lasciare l’amaro in bocca anche sul fronte musicale, con una buona dose di responsabilità da destinarsi alla bacchetta di Ion Marin cui è stato affidato il podio in seguito alla defezione del Maestro Bruno Campanella. La concertazione è relegata a un mero accompagnamento dei cantanti povero di colori e varietà dinamiche, limitandosi a un arido stacco dei tempi spesso fastidiosamente bandistico. Ma la situazione si aggrava quando a una direzione asettica e non certo memorabile si aggiunge l’infelice scelta di abbattere la scure non solo sulla Regina inglese ma anche sulla partitura. L’eliminazione di ogni singolo da capo, la riduzione dei cori e lo sfoltimento di brandelli di partitura a destra e a manca non sono che tagli brutali i quali – pur dichiarando in locandina di riprendere l’edizione critica a cura di Paolo Fabbri (andata con successo in scena a Bergamo due anni fa) – non solo riducono la versione integrale di più di trenta minuti, ma trasformano una millantata ripresa filologica del titolo donizettiano in un’operazione totalmente insensata e contraddittoria. Fortunatamente, come anticipato, uno dei rari punti di forza di questa produzione non è di secondaria importanza e risiede nella convincente Anna Bolena di Federica Lombardi. Dotata di uno strumento notevole per estensione, ricchezza di armonici e bel timbro, il giovane soprano riesce ad affrontare l’impervio ruolo eponimo nella sua interezza, tanto dal punto di vista vocale quanto a livello scenico, con presenza statuaria e carismatica. La voce è rotonda e corposa nella tessitura centrale, ma capace di salire in acuto senza perdere mai di smalto, andando a chiudere le principali arie con una linea di canto sempre pulita e tendente all’impeccabile nell’attesissima Scena della Pazzia “Al dolce guidami castel natìo”, fino a sfociare in un cristallino “Cielo a’ miei lunghi spasimi” che ben prelude a una cabaletta finale di tragica intensità (“Coppia iniqua”). Preziosa è anche l’alchimia della protagonista con il Percy di Piero Pretti, pari in raffinatezza e musicalità. Notevole è dunque la resa dei duetti (a partire da un intenso e sofferto “S’ei t’abborre io t’amo ancora”) fino a raggiungere un perfetto equilibrio nell’estatico terzetto “Fin dall’età più tenera”, nonostante i ripetuti interventi scomposti del basso. Il tenore nuorese sopperisce ai limiti di una voce non certo enorme con eleganza interpretativa e sorprendente cura del fraseggio, scolpendo il proprio personaggio in ogni sua sfumatura: impetuoso e incisivo a partire dalla cavatina “Da quel dì che lei perduta…Ah! Così, nei dì ridenti”, spicca poi nelle pagine più liriche per cura nell’emissione, sapiente dosaggio delle mezzevoci e un’interessante varietà di colori. Purtroppo da dimenticare invece è l’Enrico VIII di Carlo Colombara, che ci aveva abituati a ben altro per musicalità e impeccabilità del fraseggio in passate produzioni scaligere e non. A partire da gravi e reiterati problemi di intonazione, la performance del basso si riduce all’emissione continua di suoni fissi e calanti, che spesso scadono immotivatamente nel parlato senza mostrare in generale nemmeno la minima intenzione espressiva. Dispiace per i numerosi dissensi dimostrati dal pubblico a fine recita, tuttavia perfettamente comprensibili considerato il mancato annuncio di un’indisposizione che potesse giustificare un’interpretazione ampiamente sotto il limite dell’accettabile. Meglio la prova di Sonia Ganassi, che plasma una Giovanna Seymour scenicamente convincente ed espressiva, pur con alcune riserve sul fronte vocale. Col tempo il suono inizia a mancare di corposità in particolar modo nel registro grave e l’emissione ha generalmente perso di fluidità, un’usura che il mezzosoprano cerca di dissimulare con le migliori intenzioni interpretative, risultando tutto sommato efficace in questo ruolo non semplice di cui è ormai veterana. Meritati gli applausi a scena aperta al termine di “Ah, pensate che rivolti” nel secondo atto. Buona la prova di Martina Belli (Smeton) e Mattia Denti (Rocheford). Assai promettente infine il giovanissimo tenore Giovanni Sebastiano Sala (Hervey), bella voce proveniente dall’Accademia di Perfezionamento per Cantanti Lirici del Teatro alla Scala che ci aspettiamo di riascoltare presto anche in ruoli più corposi.Come sempre ineccepibili gli interventi del Coro diretto da Bruno Casoni. Al termine della recita l’entusiasmo non si spreca: buon successo per la protagonista e tiepidi applausi di cortesia per tutti, con evidenti contestazioni all’indirizzo di Colombara e Marin.