Torino, Teatro Regio: “L’incoronazione di Dario” RV719

Torino, Teatro Regio, stagione lirica 2016/17
“L’INCORONAZIONE DI DARIO”
Dramma per musica in tre atti su libretto di Adriano Morselli
Musica di Antonio Vivaldi
Dario CARLO ALLEMANO
Statira SARA MINGARDO
Argene DELPHINE GALOU
Niceno RICCARDO NOVARO
Alinda ROBERTA MAMELI
Oronte LUCIA CIRILLO
Arpagno VERONICA CANGEMI
Flora ROMINA TOMMASONI
Ombra di Ciro e Oracolo (Apollo) CULLEN GANDY
Direttore Ottavio Dantone
Orchestra Teatro Regio, Torino
Regia Leo Muscato
Scene e costumi Accademia Albertina di Belle Arti
Movimenti coreografici Alessandra de Angelis
Luci Alessandro Verrazzi
Nuovo allestimento Teatro Regio, Torino
22 aprile 2017  
Un rapporto speciale lega Torino ad Antonio Vivaldi: i casi della storia e i capricci del fato hanno fatto confluire nel capoluogo subalpino gran parte dei manoscritti autografi del Prete Rosso e la pubblicazione di questo repertorio – con annessa registrazione discografica – è stato fra i maggiori sforzi culturali compiuti negli ultimi decenni dall’Università di Torino e dalla Regione Piemonte.
Un rapporto speciale che trova finalmente la sua consacrazione sul palcoscenico del Teatro Regio che dopo le edizioni in forma di concerto di “Orlando finto pazzo” (2003), “L’Olimpiade” (2005) e Orlando furioso” (2006 presso il Conservatorio “G. Verdi”) – mette finalmente in scena un lavoro vivaldiano. La scelta è caduta non su uno dei grandi titoli della maturità ma su un’opera ancora giovanile come “L’incoronazione di Dario”, andata in scena al Teatro di Sant’Angelo il 23 gennaio 1717 con un allestimento che non si stenta ad immaginar sontuoso considerando l’incarico come scenografo affidata al Bernardo Canal collaborato dai figli fra cui quel Giovanni Antonio all’epoca ventenne destinato a trasformare negli anni seguenti la storia della pittura lagunare con lo pseudonimo di Canaletto.
L’opera è ancora lontana dai trionfi vocali dei decenni successivi e affonda pienamente le radici nel melodramma veneziano del tardo Seicento fino alla stagione di Cesti e Cavalli. Certo l’impianto delle arie è molto più strutturato che nei precedenti secenteschi ma resta un forte senso del teatro così come quel gusto – così tipico del barocco veneziano – di intrecciare generi e stilemi, alto e basso, comico e sublime così che l’eroica epopea della successione a Ciro il grande sul trono di Persia si carica dei colori della commedia fino a sfiorare dinamiche da opera buffa.
Bisogna riconoscere all’allestimento di Leo Muscato la capacità di cogliere molto bene le contrastanti dinamiche dell’opera pur non convincendo in pieno sul piano visivo. Se l’idea di affidare le scenografie agli studenti dell’Accademia Albertina rinforzava ulteriormente il rapporto fra la città, l’opera e il suo autore, la scelta di mischiare tempi e spazi, presente e passato in modi non sempre trasparenti lasciava qualche perplessità. L’impianto scenico integrava condutture di oleodotti e pozzi petroliferi – l’oro nero ricchezza e maledizione del Vicino Oriente contemporaneo – a sculture antiche, pannelli e fregi achemenidi e neo-assiri. Ugualmente i costumi mischiavano modelli antichizzanti – soprattutto per le principesse – ad abiti contemporanei. Dario alternava abiti da sceicco arabo – e forse troppa Arabia si notava in un contesto che si vorrebbe iranico – e redingote vagamente ottocentesche, Oronte e i suoi accoliti vestiti da guerriglieri, Arpago e i suoi trasformati in operai petroliferi, Alinda e Flora totalmente velate secondo fogge nuovamente più arabe che persiane. Un insieme decisamente confuso che se non disturbava sicuramente nulla aggiungeva alla vicenda. Di contro la parte prettamente registica funzionava molto bene: la vicenda era svolta in modo chiaro e lineare, con una specifica volontà di valorizzare i tratti più leggeri e ironici del libretto e realizzata da una compagnia di perfetti cantanti attori pienamente calati nel gioco scenico complessivo che hanno reso la recita assolutamente godibile come le sincere risate e l’entusiasmo del pubblico – non così scontato in un repertorio certo non così abituale sui nostri palcoscenici – hanno pienamente confermato.
Ottavio Dantone con la sua esperienza e la sua conoscenza di questo repertorio ha dato il suo sigillo alla correttezza esecutiva musicale. Dantone – che si alterna nelle funzioni di direttore e maestro al cembalo – fornisce dell’opera una lettura ricca e vibrante, curatissima negli elementi agogici e ritmici, perfetta nella valorizzazione espressiva dei recitativi di cui vengono fatte vibrare tutte le possibilità teatrali. L’orchestra del Regio non ha la naturalezza stilistica dei complessi specializzati e suona con strumenti moderni ma nelle esperte mani di Dantone riesce a piegarsi alle esigenze stilistiche proprie di questo repertorio fornendo una prova complessiva che non sfigurerebbe di fronte a compagini sicuramente più avvezze a queste prassi esecutive.
La compagnia di canto si è dimostrata prima di tutto perfettamente integrata in tutti i suoi elementi e capace di trasmettere un senso di gioia nel fare teatro e nel fare musica che prescinde dalle singole prestazioni individuali.
Splendido protagonista, Carlo Allemano conferma le ottime prestazioni discografiche qui recensite. Tenore dalla voce calda e brunita, con riflessi quasi baritonali, ampia e scultorea su tutta la gamma – da sentire l’autorevolezza sui recitativi – ottimamente impostata sul piano tecnico così da sgranare con precisione e facilità i più rapidi passaggi di coloratura. Allemano riesce a dare una specifica personalità ad un personaggio di suo molto convenzionale e non così ben definito fra autorità regale e momenti di ingenuità imbarazzante.
Personaggio invece originale e centratissimo è quello della principessa Statira che il frontespizio definisce “semplice”, termine fin riduttivo per definire un personaggio di un’ingenuità e di un candore spiazzanti, decisamente oltre il limite della dabbenaggine, cui sono affidati i momenti più comici del libretto. Sara Mingardo mostra un inatteso talento comico tratteggiando un personaggio irresistibile al riguardo mentre ben più prevedibili sono la qualità della resa musicale, la bellezza di una vocalità morbida e setosa, profondamente femminile nonostante le bruniture da autentico contralto, la tecnica esemplare e la perfetta conoscenza di questo repertorio.
Annunciata come indisposta Delphine Galou è un’Argene godibilissima; musicalmente precisa e puntuale, tecnicamente ben impostata – le difficoltà dell’aria di chiusura “Ferri, ceppi, sangue, morte” sono risolte con sicurezza –. Forse solo qualche flebilità di emissione ha tradito il non perfetto stato di salute. Scenicamente poi si è dimostrata esemplare nello sfruttare i tratti comici presenti anche nel suo personaggio, la sorella perfida ma brillante, i cui progetti sono sempre fatti crollare dalle ingenuità di Statira. Tutta risolta sul versante musicale la parte di Alinda cui Roberta Mameli presta la sua voce agile e luminosa e la sua facilità nelle fiorettature. Il suo amato è l’Oronte di Lucia Cirillo, efficace sia sul piano vocale che su quello scenico, seppur impacciata dal costume da operaio petrolifero che non ne facilitava i movimenti; altrettanto efficace il suo rivale Arpago cui Veronica Cangemi conferiva i giusti accenti marziali. Riccardo Novara è un ottimo Niceno, dal momento che puà contare su una bella voce di baritono chiaro solida e squillante, su una dizione nitida e precis e su valide doti nel canto di coloratura. Romina Tommasoni (Flora) e Cullen Gandy (L’ombra di Ciro e l’Oracolo di Apollo) hanno completato efficacemente il cast. Buona presenza di pubblico in sala e successo particolarmente caloroso per tutti gli interpreti.