Il doppio finale, o sia l’araba fenice (parte seconda)

In occasione del 450esimo anniversario della nascita del compositore riproponiamo gli approfondimenti a cura del M° Stefano Aresi.
Dai ‘doppi finali’ alle edizioni anastatiche. Alcune considerazioni in merito alla tradizione de L’Orfeo
(parte quinta)
Funzione del libretto
Viene spontaneo chiedersi se la divergenza tra le due realtà testuali de L’Orfeo di Striggio (la poesia sottoposta alla musica e quella stampata da Osanna) non possa essere, in fondo, determinata dalla semplice importanza letteraria riconosciuta al testo drammatico. Questo aveva evidentemente per sua natura ragione di venir preservato così come originariamente concepito dal poeta (in aderenza ai testi da lui scelti come fonti); ma nel momento in cui esso veniva consegnato al musicista, poteva divenire oggetto di trasformazioni atte a soddisfare le finalità di un godimento scenico, le cui leggi erano ben diverse dalle norme di recezione di una lettura poetica in privato di una tragedia accademica concepita anzitutto in ossequio a regole e modelli non calati sulle assi di un palco.
Come escludere il fatto che il poeta aspirasse a creare una pseudo-tragedia (non intendendo con questo termine nulla di spregiativo) in cui il ricorso alle baccanti era riferimento palese ad antecedenti letterari chiari (Virgilio, Ovidio e la vulgata de La fabula di Orfeo di Poliziano) da cui non si poteva sfuggire? Ben diverso era il lavoro che spettava a Monteverdi (e di conseguenza, in parte, a Striggio) nel portare davanti a un pubblico quel dramma e dar vita ad uno spettacolo musicale destinato – agli occhi stessi dei suoi fautori – a non sopravvivere oltre quella messinscena (al contrario deltesto poetico): nessuno avrebbe immaginato sin dall’inizio la scelta di preservare in stampa quella musica. Monteverdi poteva pretendere modifiche al libretto, e di sicuro ne compì (o ne fece compiere) anche solo a livello di tagli, notevoli: le divergenze tra le stampe Amadino e i libretti di Osanna vanno ben oltre la mera questione dell’ultima scena, poiché un semplice confronto mostra un sostanziale e corposo sfrondamento dei cori conclusivi dei primi tre atti.
Monteverdi e, come diremmo oggi, il suo staff (comprensivo di Striggio) avevano una serie di esigenze proprie del mestiere dell’organizzatore di spettacoli che un accademico poteva non sentire come prioritarie nel consegnare alle stampe la propria favola, ma con cui doveva scendere a compromessi nel momento in cui, per una sera, si fosse deciso di farla vivere tangibilmente davanti a un colto pubblico (che, comunque, avrebbe conservato la propria copia conforme alla prima volontà del poeta).
Amadino è una stampa commemorativa… o no?
Visto quanto sostenuto sinora all’interno di questo saggio, la domanda può sembrare meramente retorica: certo, Amadino 1609 ha valore commemorativo di un preciso evento.34 Infatti, se anche non fosse chiaro allo studioso il messaggio sotteso alle indicazioni offerte dal frontespizio, e se pure non apparisse inequivocabile la natura della dedica di Monteverdi, resta da chiedersi almeno perché mai si sia scelto, a questa altezza cronologica, di dare ai torchi – con gran dispendio di denaro – un lavoro tanto complesso e di tal fatta, quantomeno ponendosi in relazione ai più famosi precedenti (le due Euridice fiorentine e gli intermedi de La Pellegrina, ad esempio).
In essi artisti e committenti operarono in stamperia con l’intento di fissare uno specifico evento spettacolare (musicale e scenico) o una specifica visione dello stesso, un evento concettualmente irripetibile al di fuori del proprio contesto originale, ad imperitura memoria del proprio della propria grandezza. Il tentativo di “fotografare” la realtà della rappresentazione mantovana del febbraio 1607 (una realtà, ricordiamolo, complessa, coerente e originale) ha anch’essa per palese fine l’intento di dare lustro al nome di Francesco
Gonzaga. Ciò avviene non solo ricordandone il legame con Monteverdi e la sua musica, ma anche (e soprattutto, se dobbiamo dare ragione al fondamentale apporto alla storia delle ricezione dell’arte quattro-cinquecentesca dato dalla critica di origine marxista)35 offrendo all’acquirente della partitura le dimensioni del costo sostenuto dal principe in quella occasione tramite elementi utili a comprendere l’investimento monetario operato dalla corte.
In tal senso appare fondamentale preservare le rubriche che descrivono i dettagli in merito agli organici strumentali, ricchi e vari: una caratteristica tipica del genere rinascimentale degli intermedii, simbolo palese delle possibilità mecenatistiche del principe oltre che riflesso di una serie di valori estetici.
Proprio queste indicazioni sono ritenute – di fatto – coerenti tra loro36 e al tutto credibili come descrittive della realtà storica de L’Orfeo mantovano. Perché dunque, se dobbiamo dare credito, ad esempio, a tutte le rubriche di Amadino 1609 non dovremmo ritenere il testimone affidabile laddove racconta l’ingresso di Apollo («Apollo descende in una nuvola cantando»)?
Perché, in sostanza, Amadino 1609 rappresenterebbe effettivamente «al gran teatro dell’Universo» (nelle note parole del compositore) la «favola in musica da Claudio Monteverdi rappresentata in Mantova l’anno 1607»37 per le prime 92 pagine e poi, improvvisamente, si renderebbe infedele per le ultime 8, che in nulla differiscono né dal punto di vista bibliografico, né da quello tipografico, né da quello dell’usus scribendi della musica, del testo poetico e delle rubriche rispetto alle precedenti? Che senso avrebbe il coerente ricordo a
imperitura memoria di uno specifico evento nella sua completezza tranne che nella scena finale? Nessuno.
Per gentile concessione di Philomusica on-line
35 Per meglio comprendere le questioni proprie dei rapporti di committenza (seppure in seno al solo fiorire del Rinascimento fiorentino) ci si riferisca all’esemplare WACKERNAGEL (1994). Per una introduzione alla parabola dell’apporto marxista alla storia dell’arte: Marxism and the History of Art 2006.
36 Alcune soluzioni alle apparenti incoerenze negli organici strumentali sono state appianate in ARESI (2007). Purtroppo devo segnalare la presenza di un elevato numero di grossolani errori di traduzione dalla versione italiana consegnata all’editore a quella francese distribuita nelle librerie, pubblicata senza possibilità di correzione di bozze da parte degli autori.
37 Cfr. nota 2.