Il doppio finale, o sia l’araba fenice (quinta e ultima parte)

In occasione del 450esimo anniversario della nascita del compositore riproponiamo gli approfondimenti a cura del M° Stefano Aresi.
Dai ‘doppi finali’ alle edizioni anastatiche. Alcune considerazioni in merito alla tradizione de L’Orfeo
(parte ottava)
Una visione aristotelica del dramma?

L’inatteso arrivo di Apollo in scena può trovare ulteriore giustificazione nell’ambito di una lettura in chiave aristotelica (o, meglio, in quella che all’epoca si credeva essere la visione aristotelica della tragedia) dell’intera favola, argomentazione certo non incongruente con la formazione filosoficoletteraria dei membri dell’Accademia degli Invaghiti e i dibattiti da loro intrapresi.
Una interpretazione de L’Orfeo in tal senso è stata data in modo convincente in più sedi da Stefano La Via:43 secondo lo studioso l’arrivo di Apollo sulle scene svolge il ruolo di perfetta peripezia (in senso tecnico) atta allo scioglimento dei nodi del dramma con un credibile (nell’ambito del mito, ovviamente) rivolgimento di uno stato di cose, sorprendente ed improvviso.
Il coro finale, aggiungiamo, fornisce all’ascoltatore, con i propri ultimi quattro versi, una morale dal sapore classico ma perfettamente in linea con gli atteggiamenti cristiani propri dell’epoca controriformistica («così grazie in ciel impetra / chi qua giù provò l’inferno /e chi semina fra doglie / d’ogni grazia il frutto coglie»), una adesione all’anima di un’epoca che sottolinea l’avvenuta peripezia e che nel finale “bacchico” era carente.
Poesia, musica, spazio
A sostegno della tesi di una originalità primigenia del finale “bacchico” è stata talora addotta una palese divergenza stilistica e qualitativa dei versi relativi alla scena apollinea. Nessuno, in bibliografia, dimostra realmente in cosa consisterebbe l’inferiore qualità dei versi, talora attribuiti – senza alcuna giustificazione – a paternità differenti rispetto a quella di Striggio. Nel finale “apollineo” non vi è alcuna dismetria, alcuna accentuazione metrica inadatta, alcuna scelta lessicale inferiore a quelle presenti nel resto del testo.44
A ciò si aggiunga brevemente anche la questione spaziale relativa alla presunta impossibilità del posizionamento in sala di una macchina scenica atta far discendere Apollo da una nube al proprio arrivo (così come scritto in partitura) sulla indubitabilmente angusta scena (angusta ma contenuta in uno spazio che è stato valutato dai ricercatori, a seconda delle ipotesi sostenute, con una lunghezza compresa tra i 17 e i 30 metri, e un fronte di circa 10).
Non riprenderò qui le questioni relative alle ipotesi di collocazione fisica all’interno del palazzo Ducale di Mantova della prima esecuzione de L’Orfeo; sarebbero opportuni, tuttavia, prima di sostenere questioni relative ad una presunta “impossibilità” tecnica dell’evento, approfonditi studi sulla scenotecnica presso la corte gonzaghesca, oltre che numerose valutazioni in merito al divario tra il livello di attesa visivo del pubblico dell’epoca e la nostra fantasia ricostruttiva, al fine di poter stabilire non tanto le dimensioni di una macchina
scenica standard presso la corte mantovana, quanto piuttosto l’effettivo risultato richiesto.
Valenza simbolica di Apollo, dio del sole
Come ogni prodotto artistico rinascimentale che si rispetti, anche L’Orfeo di Monteverdi/Striggio è sovraccarico di riferimenti simbolici e metaforici ben chiari al pubblico culturalmente iniziato cui era rivolto. La non-percezione della complessa rete intertestuale del libretto determina di fatto una noncomprensione di una serie di punti salienti; oltretutto la mancanza della parte visiva (costumi, atteggiamento attoriale, eventuali scene, coreografie dei balletti) rende ovviamente parziale la nostra comprensione di uno spettacolo che sappiamo curato in ogni dettaglio.
Tra gli elementi maggiormente ricorrenti all’interno del testo poetico così come riportato in Amadino 1609 vi sono costanti riferimenti al sole: le prime parole pronunciate da Orfeo sono rivolte ad Apollo, «Rosa del ciel, vita del mondo e degna / prole di lui che l’universo affrena, / sol, che tutto circondi e ‘l tutto miri / dagli stellanti giri». Bisogna poi tener di conto l’abbondante e suggestivo uso di metafore o iperboli descrittive basate sul concetto della luce solare presenti in tutte le scene pastorali (il sole che ammira le carole di ninfe
e pastori, il sole che dopo il Verno ignudo dispiega più chiaro i rai lucenti, Euridice vista come il sole che bea le selve e le piaggie, Febo che saetta dardi dal cielo), mentre, per contrasto, le scene infernali sono ricche di continui riferimenti all’assenza del sole (i regni tenebrosi ove raggio di sol giammai non giunse, le beate luci di Euridice invocate in quanto sarebbero le uniche a riportare ad Orfeo il giorno, la vicenda di Proserpina narrata come la perdita
del sole, Euridice che ri-morendo perde la possibilità di goder di luce, ecc.); si sprecano chiaramente, in questo contesto, gli aggettivi classificanti l’oscurità di ciò che circonda il protagonista nella sua discesa agli Inferi (tenebroso, cieco, ombroso).
Credo tuttavia che si debba optare per un maggiore livello di approfondimento della questione. Ricordiamo anzitutto che L’Orfeo venne dato alle scene per una occasione specifica: una (relativamente) riservata riunione speciale dell’Accademia degli Invaghiti, la cui impresa presentava il motto «nil pulchrius» riferito ad una insegna raffigurante l’aquila col volto affisso al sole. È questo un tema iconologico tutt’altro che estraneo al mondo gonzaghesco, così come evidentissimo nel caso dell’insegna di Curzio Gonzaga, segnalato ed
approfondito in tempi recentissimi da Marco Mangani.45
Se visto nel contesto della prima rappresentazione de L’Orfeo, quindi, l’arrivo in scena di Apollo (dio del sole e patrono dei poeti che giunge sulla terra per assumere in Cielo il poeta per eccellenza) si carica di significati tali da apparire, ancora una volta, tutto fuorché un ripiego.
Che il finale “originale” sia quello apollineo diviene perciò un sospetto forte oltremodo. Forte almeno quanto il fatto che, con ogni probabilità, esso fu l’unico mai uscito dalla penna di Monteverdi.
(Fine)
Stefano Aresi, dottore di ricerca, presiede il comitato scientifico di Accademia Bizantina. Ha collaborato come consulente per noti ensemble barocchi (La Venexiana, Il
Giardino Armonico, Ensemble 415, L’Arpeggiata, ecc.) e ha pubblicato per ETS, SIdM, Ediciones Singulares, Bärenreiter, Laaber-Verlag

GB Opera ringrazia Stefano Aresi e la  prof.ssa Maria Caraci Vela che a nome di Philomusica on-line
ci hanno permesso la pubblicazione di questo saggio.

43
Si veda soprattutto LA VIA (2002).
44 Se poi dovessimo optare per una scelta tra differenti versioni che incoraggi l’oggettiva qualità dei versi, personalmente preferirei evitare quella “bacchica”, quantomeno per la presenza di espressioni verbali quali l’invocazione a Bacco «Oh d’ogni uman piacer gran condimento!».
45 MANGANI, M. (in corso di stampa).

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