Il doppio finale, o sia l’araba fenice (parte terza)

In occasione del 450esimo anniversario della nascita del compositore riproponiamo gli approfondimenti a cura del M° Stefano Aresi.
Dai ‘doppi finali’ alle edizioni anastatiche. Alcune considerazioni in merito alla tradizione de L’Orfeo
(parte sesta)
Eccessiva sensibilità femminile?
Veniamo ora alla giustificazione della ipotetica presenza di un doppio finale in scena basata sulle necessità proprie del pubblico della seconda rappresentazione mantovana, composto in larga parte dalle dame della città (1 marzo 1607). La versione di Striggio già messa in musica da Monteverdi sarebbe stata sostituita per fare largo al finale attualmente conosciuto onde non urtare la sensibilità delle signore in questione. Due domande nascono spontanee.
Anzitutto, quanto è probante e può essere provato il livello di suscettibilità emotiva delle abitanti di Mantova appartenenti al ceto nobiliare a cavallo tra XVI e XVII secolo? E poi: questo testo è davvero così truculento?
La poesia di Striggio, come attestata nei libretti stampati da Osanna, ha quattro principali fonti, estremamente note: Virgilio, Georgiche, libro IV; Ovidio, Metamorfosi, libri X e XI; Poliziano, La fabula di Orfeo; e, in modo lato, Rinuccini, L’Euridice (comunque in secondo piano). Quest’ultimo testo va’ escluso nel computo dei modelli adottati per il finale in quanto presenta in ogni caso una versione estranea sia alle altre fonti che a L’Orfeo stesso (sia come attestato in Amadino che in Osanna). Striggio, ribadiamo, per dar vita al finale attestato nei libretti ha avuto come ispiratori i passi qui sotto riportati:
Carmine dum tali silvas animosque ferarum
Threicius vates et saxa sequentia ducit,
ecce nurus Ciconum tectae lymphata ferinis
pectora velleribus tumuli de vertice cernunt
Orphea percussis sociantem carmina nervis.
e quibus una leves iactato crine per auras,
‘en,’ ait ‘en, hic est nostri contemptor!’ et hastam
vatis Apollinei vocalia misit in ora,
quae foliis praesuta notam sine vulnere fecit;
alterius telum lapis est, qui missus in ipso
aere concentu victus vocisque lyraeque est
ac veluti supplex pro tam furialibus ausis
ante pedes iacuit. sed enim temeraria crescunt
bella modusque abiit insanaque regnat Erinys;
cunctaque tela forent cantu mollita, sed ingens
clamor et infracto Berecyntia tibia cornu
tympanaque et plausus et Bacchei ululatus
obstrepuere sono citharae, tum denique saxa
non exauditi rubuerunt sanguine vatis.
ac primum attonitas etiamnum voce canentis
innumeras volucres anguesque agmenque ferarum
maenades Orphei titulum rapuere triumphi;
inde cruentatis vertuntur in Orphea dextris
et coeunt ut aves, si quando luce vagantem
noctis avem cernunt, structoque utrimque theatro
ceu matutina cervus periturus harena
praeda canum est, vatemque petunt et fronde virentes
coniciunt thyrsos non haec in munera factos.
hae glaebas, illae direptos arbore ramos,
pars torquent silices; neu desint tela furori,
forte boves presso subigebant vomere terram,
nec procul hinc multo fructum sudore parantes
dura lacertosi fodiebant arva coloni,
agmine qui viso fugiunt operisque relinquunt
arma sui, vacuosque iacent dispersa per agros
sarculaque rastrique graves longique ligones;
quae postquam rapuere ferae cornuque minaces
divulsere boves, ad vatis fata recurrunt
tendentemque manus et in illo tempore primum
inrita dicentem nec quicquam voce moventem
sacrilegae perimunt, perque os, pro Iuppiter! illud
auditum saxis intellectumque ferarum
sensibus in ventos anima exhalata recessit.

(Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, X 1-43)

Nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei.
Solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem
arvaque Riphaeis numquam viduata pruinis
lustrabat raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens; spretae Ciconum quo munere matres
inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi
discerptum latos iuvenem sparsere per agros.
Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum

gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
volveret, Eurydicen vox ipsa et frigida lingua
ah miseram Eurydicen! anima fugiente vocabat:
Eurydicen toto referebant flumine ripae.

(Publio Virgilio Marone, Georgiche, IV 527-516)

Una baccante

Ecco quel che l’amor nostro disprezza!
O, o, sorelle! O, o, diamoli morte!
Tu scaglia il tirso; e tu quel ramo spezza;
tu piglia o sasso o fuoco e gitta forte;
tu corri e quella pianta là scavezza.
O, o, facciam che pena el tristo porte!
O, o, caviangli il cor del petto fora!
Mora lo scelerato, mora! mora!
Torna la baccante con la testa di Orfeo e dice:
O, o! O, o! ort’è lo scelerato!
Euoè! Bacco, Bacco, i’ ti ringrazio!
Per tutto ‘l bosco l’abbiamo stracciato,
tal ch’ogni sterpo è del suo sangue sazio.
L’abbiamo a membro a membro lacerato
in molti pezzi con crudele strazio.
Or vadi e biasimi la teda legittima!
Euoè Bacco! accepta questa vittima!
Coro
Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!
Chi vuol bevere, chi vuol bevere,
venga a bevere, venga qui.
Voi ‘mbottate come pevere:
i’ vo’ bevere ancor mi!
Gli è del vino ancor per ti,
lascia bevere inprima a me.
Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!
Io ho voto già il mio corno:
damm’un po’ ‘l bottazzo qua!
Questo monte gira intorno,
e ‘l cervello a spasso va.
Ognun corra ‘n za e in là
come vede fare a me.
Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!
I’ mi moro già di sonno:
son io ebria, o sì o no?
Star più ritte in piè non ponno:
voi siate ebrie, ch’io lo so!
Ognun facci come io fo:
ognun succi come me!
Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!
Ognun cridi: Bacco, Bacco!
e pur cacci del vin giù.
Po’ co’ suoni faren fiacco:
bevi tu, e tu, e tu!
I’ non posso ballar più.
Ognun cridi: euoè!
Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!
(Angelo Poliziano, La favola di Orfeo, 363-412)

Sembra abbastanza chiaro il differente livello di presentazione di particolari sanguinari adottato dalle fonti, che inequivocabilmente, però, narrano lo smembramento di Orfeo. Così non è per Striggio. Basti leggere, infatti, proprio il libretto, subito dopo Questi i campi di Tracia (in corsivo i versi presenti anche in Amadino):

Orfeo
[…] Quinci non fia già mai che per vil femina
Amor con aureo strale il cor trafiggami.

Ma ecco stuol nemico
di donne amiche a l’ubbriaco nume;
sottrar mi voglio a l’odiosa vista,
ché fuggon gli occhi ciò che l’alma aborre.
Coro di Baccanti
Evohé padre Lieo Bessareo!
Te chiamiam con chiari accenti,
evohé, liete e ridenti;
te lodiam padre Leneo
hor ch’abbiam colmo il core
del tuo divin furore.
Baccante
Fuggito è pur da questa destra ultrice
l’empio nostro avversario, il trace Orfeo,
disprezzator de’ nostri pregi alteri.
Un’altra baccante
Non fuggirà, che grave
suol esser più quanto più tarda scende
sovra nocente capo ira celeste.
Due baccanti
Cantiam di Bacco intanto, e in vari modi
sua deità si benedica e lodi.
Coro di Baccanti
Evohé padre Lieo Bessareo!
Te chiamiam con chiari accenti,
evohé, liete e ridenti;
te lodiam padre Leneo
hor ch’abbiam colmo il core
del tuo divin furore.
Baccante
Tu pria trovasti la felice pianta
onde nasce il licore
che sgombra ogni dolore
et agli egri mortali
del sonno è padre e dolce oblio dei mali.
Coro di Baccanti
Evohé padre Lieo Bessareo!
Te chiamiam con chiari accenti,
evohé, liete e ridenti;
te lodiam padre Leneo
hor ch’abbiam colmo il core
del tuo divin furore.
Baccante
Te domator del lucido Oriente
vide di spoglie alteramente adorno
sopr’aureo carro il portator del giorno.
Baccante
Tu qual leon possente
con forte destra e con invitto core
spargesti et abbattesti
le gigantee falangi, et al furore
delle lor braccia ferreo fren ponesti
allor che l’empia guerra
mosse co’ suoi gran figli al Ciel la Terra.
Coro di Baccanti
Evohé padre Lieo Bessareo!
Te chiamiam con chiari accenti,
evohé, liete e ridenti;
te lodiam padre Leneo
hor ch’abbiam colmo il core
del tuo divin furore.
Baccante
Senza te l’alma dea che Cipro onora
fredda e insipida fora,
oh d’ogni uman piacer gran condimento
e d’ogni afflitto cor dolce contento!
Coro di Baccanti
Evohé padre Lieo Bessareo!
Te chiamiam con chiari accenti,
evohé, liete e ridenti;
te lodiam padre Leneo
hor ch’abbiam colmo il coredel tuo divin furore.
(
Alessandro Striggio il Giovane, La favola d’Orfeo, vv. 568-630)

Nessuno smembramento di ovidiana memoria. Nessun capo reciso portato in mostra al pubblico, come tanto piacque a Poliziano. Nessun messaggero (per ossequio alla tradizione classica) che entri in scena annunciando la fine di Orfeo. Solo un gruppo di baccanti ebbre che canta ipotizzando, prima o poi, una generica vendetta (in tre soli versi su una sessantina di quelli attribuiti loro) contro il protagonista del dramma, andatosene perché infastidito dalla sola vista delle donne (come d’altro lato logico per chiunque conosca la svolta omoerotica di Orfeo narrata dal mito).38
Il tanto “terribile” finale “bacchico” non è quindi per nulla “terribile” e non suona sinceramente sconveniente in modo particolare: sarebbe stato davvero necessario modificarlo onde non spaventare donne abituate a un vissuto quotidiano nel quale la cruda violenza fisica (anche nella applicazione della giustizia) non era affatto un elemento estraneo? Si ricordi semplicemente che il regno dei Gonzaga (nel ramo Gonzaga-Nevers) terminò a Mantova nel 1708, e nessuno dei signori succedutisi dal 1328 all’inizio del XVIII secolo, ad esempio, aveva mai eliminato dall’ordinamento giuridico locale (come ovvio nel panorama dell’epoca) la pena di morte, applicata anche con esecuzione capitale more publico; inoltre, in ogni chiesa della città un qualunque dipinto raffigurante un santo martire poteva offrire dettagli ben più truci e sanguinari di quelli offerti da quattro eventuali attrici intonanti un ritornello bacchico poeticamente scialbissimo, in un secolo in cui il concetto di mimesi era già abbondantemente applicata alla fruizione della pittura religiosa.39
(Fine terza parte)
38 La questione è sistematicamente analizzata in una ampia bibliografia specifica (sempre meno militante, con il trascorrere del tempo), nata a partire da DYNES (1978); Orpheus: The Metamorphosis of a Myth (1982); SEGAL (1988).
39 Si vedano almeno gli spunti riassunti in CALÌ (1991).

Per gentile concessione di Philomusica on-line