“Don Carlo” al Palau de les Arts di Valencia

Valencia, Palau de les Arts Reina Sofía, Temporada 2017-2018
“DON CARLO”
Opera in quattro atti su libretto originale francese di François Joseph Méry e Camille Du Locle, basato sul dramma Dom Karlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller; versione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini
Musica Giuseppe Verdi
Versione di Milano, 10 gennaio 1884 (Edizioni Ricordi, Milano)
Filippo II ALEXANDER VINOGRADOV
Don Carlo ANDREA CARÈ
Rodrigo PLÁCIDO DOMINGO
Il Grande Inquisitore MARCO SPOTTI
Un frate RUBÉN AMORETTI
Elisabetta di Valois MARÍA JOSÉ SIRI
La Principessa Eboli VIOLETA URMANA
Tebaldo KAREN GARDEAZABAL
Il Conte di Lerma / Un araldo reale MATHEUS POMPEU
Una voce dal cielo OLGA ZHARIKOVA
Deputati fiamminghi JAVIER GALÁN, MANUEL MAS, VALENTIN PETROVICI, PEDRO QUIRALTE, DAVID SÁNCHEZ, ARTURO ESPINOSA
Orquesta de la Comunidad Valenciana
Cor de la Generalitat Valenciana
Direttore Ramón Tebar
Maestro del Coro Francesc Perales
Regia, scene e luci Marco Arturo Marelli
Costumi Dagmar Niefind
Produzione Deutsche Oper Berlin (2011)
Valencia, 9 dicembre 2017 – 1a rappresentazione

Era certamente motivo di vanto e orgoglio per l’Italia il fatto che un artista come Davide Livermore fosse stato nominato sovrintendente di un complesso tanto spettacolare, moderno, internazionale come il Palau de les Arts di Valencia, il teatro d’opera più avveniristico di tutta la Spagna, progettato da Santiago Calatrava e collocato nel cuore della “Ciutat de les Arts i les Ciéncies”, tra giardini urbani curatissimi, viali di palme e buganvillee in piena fioritura anche a dicembre, lo spettacolare edificio dell’Agorá ancora in costruzione sullo sfondo e, dietro, le cupolette tentacolari di uno dei musei oceanografici più visitati d’Europa. Pochi giorni prima dell’inaugurazione della nuova stagione d’opera Livermore si è dimesso, e a Valencia già si parla di lui come exintendente del teatro. Le ragioni che le parti adducono sono ovviamente differenti: l’artista italiano denuncia le pesanti ingerenze che la Generalitat Valenciana accampa nei confronti della direzione artistica, al punto da voler decidere i titoli stessi da rappresentare; per contro, la deputazione culturale del locale governo si fa scudo con incompatibilità amministrative che non permetterebbero a Livermore di onorare pienamente il contratto con il Palau de les Arts. Di fatto, pare in via di definizione un nuovo bando per la ricerca del prossimo sovrintendente e direttore artistico, che dovrà garantire “un profilo valenciano, finalizzato al rilancio delle attività del Palau sul territorio”, come si legge nei sintetici comunicati della stampa iberica, in uno stile che non potrebbe essere più ministerial-cancelleresco.

Perché questa premessa tutta politica alla cronaca di un Don Carlo di ottimo livello musicale e di notevole successo? Per un motivo insieme complesso e preoccupante, dal momento che l’allestimento proveniente da Berlino potrebbe essere quello inaugurale dell’ultima stagione valenciana di richiamo e di cooperazione internazionale, alla quale seguiranno altre di carattere più nazionale (nella speranza che esso non si tramuti addirittura in provinciale). Anche questa è la declinazione artistica dell’onda di nazionalismo che sta attraversando alcune regioni iberiche, che si riflette immediatamente su scelte dirigenziali e programmatiche. E non sarà un caso che la polemica sia divampata nei mesi di cantiere della più spagnola e politica delle opere di Verdi, quella che presenta i protagonisti della leyenda negra, Felipe II e un ritratto anonimo (non vedente ma assai eloquente) dell’inquisitore Fernando de Valdés; insomma, una Spagna oppressiva e reazionaria, guidata da regnanti ossessionati dal sentimento religioso almeno quanto dall’egoismo del potere, perfettamente coincidente con quella che alcuni partiti politici estremisti si dilettano a raffigurare oggi agli occhi di un mondo esterrefatto. Il Don Carlo di Valencia, oltre tutto, aveva già attirato l’attenzione con la pubblicazione della locandina: a parte l’immarcescibile Plácido Domingo nelle vesti di un personaggio che gli è certamente più congeniale di molti altri baritoni verdiani che egli continua ad affrontare, il nome di Violeta Urmana non avrebbe potuto lasciare indifferente nessun ascoltatore. Anche l’allestimento dello svizzero Marco Arturo Marelli, a suo tempo molto apprezzato e prossimamente di nuovo in scena a Berlino (maggio 2018) costituiva motivo di attrazione. Furono annunciate contestazioni in occasione della prima, ma in realtà tutto si è svolto tranquillamente: quando il direttore Ramón Tebar (valenciano) raggiunge il podio, una voce femminile impone “un applauso per il Maestro Livermore”, e tutto il teatro risponde positivamente. Poi l’opera comincia e, finalmente, ci si può concentrare sulla musica.
Il suono della Orquesta de la Comunidad Valenciana è interessante: nitido, squillante, per lo più grandioso nelle sonorità, che il direttore gestisce in parallelo a una buona variazione delle dinamiche; ma Tebar è incapace di sostenere un piano o un pianissimo: quello che più sembra interessargli è lo scintillio del suono, che ottiene in scene corali come quella dell’alcazar di Madrid o dell’auto da fé (seppure non manchi qualche pesantezza passim). Peraltro, si impegna molto per accompagnare i cantanti, sia quelli che più abbisognano di tempi alquanto rallentati (Domingo e Urmana) sia quelli che tendono ad accelerarli (Carè, ma anche Vinogradov e Spotti nel duetto tra Filippo II e il Grande Inquisitore). Viceversa, non è sempre allineato il suono dell’orchestra con gli interventi del Cor de la Generalitat Valenciana, che offre pur sempre una buona prova.
Parlare delle performances vocali di Plácido Domingo, almeno da qualche anno a questa parte, si è tramutato in un momento d’imbarazzo; solitamente, come Alcide al bivio, il recensore deve scegliere tra due strade contrarie, o almeno incompatibili: quella del panegirico alla voce miracolosa, indefettibile, musicale per eccellenza, oppure quella del duplice rimpianto, di un tempo (e di un registro tenorile) che ovviamente non può ritornare, e di un’occasione adeguata che avesse posto degna conclusione a una carriera eccezionale. Chi segue le nostre cronache sa che abbiamo sempre optato per la seconda strada, sommessamente e senza esecrare l’attuale qualità vocale dell’artista (sebbene sul buon gusto delle varie scelte si potrebbe discorrere a lungo: la copertina dell’ultimo disco, Domingo. Verdi, contenente le più celebri arie per baritono, ritrae il cantante dalla barba prolissa con tuba, mantello nero e sciarpa bianca; è il calco esatto del ritratto verdiano di Boldini …). Ebbene, con il Don Carlo di Valencia il giudizio merita di essere più sfumato, in primo luogo perché Domingo si presenta sul palcoscenico meno affaticato del solito dopo un periodo di (relativo) riposo; in più, perché – come si diceva in apertura – il personaggio e la tessitura di Rodrigo gli si addicono molto meglio di Simon Boccanegra, Macbeth, Miller o Rigoletto. A chi ripensa inevitabilmente a quante volte il tenore abbia interpretato quest’opera nel ruolo appropriato, appunto quello del titolo, quando appare sulla scena Domingo fa tuttora l’effetto di un Don Carlo momentaneamente travestito da Rodrigo; poi, però, a parte qualche mancamento di fiato o affanno nel vibrato, la linea di canto è notevole, e la voce stessa risuona come la più bella dell’intera compagnia. Nei duetti con Elisabetta e con Eboli il porgere è di una finezza, in quello con Filippo di una signorilità e di una dignità, e in quelli con Carlo di una partecipazione emotiva davvero ammirevoli; il quadro della morte in carcere, da ultimo, è il momento che genera più commozione nel pubblico. Insomma, la prova che Domingo offre è per molti aspetti di buona qualità, non inferiore a quella che un grande baritono della sua età potrebbe concedere al culmine della carriera. Il tenore Andrea Carè porge un Don Carlo appassionato ed esuberante, vocalmente convincente ma un poco acerbo sul piano interpretativo. Alla base dell’impostazione c’è una voce generosa, di timbro genuino, ma alquanto spericolata, capace di proiettarsi bene nell’immenso spazio della Sala principal del Palau, seppure senza gradazioni (al contrario, si percepisce come una cesura tra l’emissione ordinaria e il passaggio al forte) e senza un fraseggio significativo. Tradisce appena un po’ di nervosismo in certi attacchi, ma complessivamente Carè si giova di una buona sicurezza, e ottiene l’apprezzamento del pubblico. Alexander Vinogradov sfoggia la voce più solida, sicura, tonante dell’intera compagnia: il suo Filippo II è severo e inesorabile, ma non spietato (al contrario, in quei tipici vezzi di quasi ogni basso russo che sono piccoli portamenti ascendenti o in certe esagerazioni della linea di canto appare persino conciliante). Eppure nella sua sicurezza risiede tutta la sofferenza del personaggio, come si intende bene dalla magistrale scena di apertura del III atto («Ella giammai m’amò»: senza dubbio il momento di più lungo applauso della recita, insieme alla morte di Rodrigo). Altra grande voce sulla scena è quella di Violeta Urmana, nella parte della Principessa Eboli; interprete eccezionale, perfetta conoscitrice della tessitura verdiana, il suo personaggio risulta pienamente convincente, sebbene la linea di canto non sia più spigliata come un tempo. Nella Canzone del velo, per esempio, l’agilità del trillo è un poco compromessa e la cadenza risulta un po’ troppo irrobustita rispetto allo stile leggero che il pezzo richiede; in più, la Urmana approfitta dell’arrivo della regina per fingere sorpresa e interrompere la cadenza conclusiva, appena iniziata, il che – sia detto senza mezzi termini – sortisce un brutto effetto di incompiutezza musicale. Il timbro della Urmana appare schiarito rispetto al passato, in modo tale che gli acuti risuonano generalmente come eccessivamente acuti, poiché privi dell’adeguato sostegno diaframmatico, mentre le note più basse sono a volte gridate anziché poste bene in maschera. María José Siri è un’Elisabetta vocalmente molto corretta, ma poco espressiva: la dizione insoddisfacente impedisce per esempio di cogliere il rapporto tra la parola scenica verdiana e una scelta interpretativa specifica. Nei duetti con i vari personaggi la sua prestazione va migliorando, fino alla grande aria solistica del IV atto, salutata da prolungati applausi. Buono il Grande Inquisitore di Marco Spotti, specialista della parte; buono anche il Tebaldo di Karen Ardeazabal, seppure timida nell’emissione; ottimo l’Araldo di Matheus Pompeu, impegnato anche come Conte di Lerma; vibrato largo nella voce del frate di Rubén Amoretti, comunque apprezzabile. La Voce dal cielo è incarnata nel personaggio d’una donna del popolo che stringe il suo neonato tra le braccia: Olga Zharikova avrebbe dovuto modulare il breve intervento con stile più soave e angelicato. Molto compatto il gruppo di voci maschili dei Deputati fiamminghi, capaci di presentarsi come un sol uomo, umile ma determinato. Lo spettacolo che Marco Arturo Marelli approntò per la Deutsche Oper di Berlin nel 2011 è tanto essenziale nella scenografia quanto dettagliato nei movimenti e nelle interrelazioni dei personaggi; la loro stessa presenza fisica, anche quando il libretto non la preveda, costituisce già un elemento interpretativo utile a comprendere quello che il testo lascia intendere implicitamente; per esempio, nel corso del duetto tra Filippo e Rodrigo del I atto si intravvedono due figure oscure sullo sfondo, che appaiono mentre il re mette in guardia il marchese dalle indagini dell’Inquisizione: sono ovviamente i sicari che poi lo uccideranno. O ancora: il III atto si apre con l’alcova di Filippo II, e non lo studio di El Escorial, in cui si vede una Elisabetta dormiente da un lato, e su quello opposto Eboli nel gesto di consegna dello scrigno dei gioielli della regina a Filippo, suo re e suo amante, come si apprende dal drammatico duetto femminile che seguirà tre scene più tardi. Marelli ha composto la struttura fondamentale del suo spettacolo con quattro grandi blocchi mobili di color grigio, che fungono da parete, piano praticabile, muro divisorio e barriera; in ogni caso si dispongono sempre ortogonalmente, sì ché gli interstizi illuminati dallo sfondo finiscono sempre per disegnare una croce. La luce che profila tale croce è azzurrognola quando in primo piano Filippo II siede su una panca, immerso nel polverio di altra luce, radente e aurea, che lo avvolge durante il duetto con Rodrigo. Oltre ai valori formali, il regista insiste anche su quelli simbolici: all’apparizione iniziale di Filippo ed Elisabetta nel chiostro di San Giusto, Carlo provocatoriamente restituisce alla matrigna il velo che ella aveva perduto, ma si rifiuta di baciare la mano a suo padre; dopo, quello stesso velo bianco diventa il riferimento dell’omonima «canzon saracina» nelle mani di Eboli, e nel quadro notturno è ancora lo stesso velo a proteggerla e determinare l’equivoco con Carlo. Il velo tessuto e istoriato si trasforma nella bandiera delle Fiandre che ciascun deputato dispiega orgogliosamente di fronte e ai piedi di Filippo nella scena dell’auto da fé: quello che era l’oggetto-simbolo della sfera erotico lo diviene ora del sofferto ambito politico. La luce (curata dallo stesso Marelli) fa capolino in diagonale, illumina i costumi semplici e funzionali di Dagmar Niefind insieme a leggeri vapori negli interni, provvede a enfatizzare gesti e posture, sì che alla fine appare evidente la cifra personale di quasi tutti i personaggi, una solitudine derivante dall’incapacità di comunicare. La chiara rappresentazione di tale incomunicabilità e delle sue tragiche conseguenze è il pregio maggiore della regia di Marelli, molto apprezzata dal pubblico di Valencia.   Foto Miguel Lorenzo © Palau de les Arts de Valencia