Torino, Teatro Regio: “Turandot”

Torino, Teatro Regio, stagione d’opera 2017-2018
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e quattro quadri di Giuseppe Adami e Renato Simoni dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi.
Musica di Giacomo Puccini
La principessa Turandot REBEKA LOKAR
Il principe ignoto (Calaf) JORGE DE LEÓN
Liù ERIKA GRIMALDI
Timur IN-SUNG-SIM
L’imperatore Altoum ANTONELLO CERON
Ping MARCO FILIPPO ROMANO
Pang LUCA CASALIN
Pong MIKELDI ATXALANDABASO
Un mandarino ROBERTO ABBONDANZA
Il principe di Persia JOSHUA SANDERS
Prima ancella SABRINA AMÈ
Seconda ancella MANUELA GIACOMINI
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Gianandrea Noseda
Regia, scene, costumi e luci Stefano Poda
Maestro dei cori Claudio Fenoglio
Nuova produzione Teatro Regio di Torino
Torino, 21 gennaio 2018  
La ricerca di nuove strade è il tratto distintivo di questa nuova “Turandot” torinese. Scelta giustificata dalla frequenza con cui il titolo – come tutti quelli del compositore lucchese – ritorna sul palcoscenico subalpino e che rende quasi necessaria la ricerca di nuove vie per evitare la facile routine. Protagonisti di questa scelta anticonvenzionale sono stati il regista Stefano Poda e il direttore Gianandrea Noseda.
Stefano Poda, autore di tutta la parte visiva, imprime con forza il proprio segno allo spettacolo nonostante le limitazioni scenografiche conseguenti all’incidente accaduto in una precedente recita. L’impianto risultava quindi ancor più essenziale, essendo costituita da una grande architettura bianca, astratta, di strutture rettilinee e veli con sul fondo tre grandi porte, tre come gli enigmi di Turandot o come le porte delle scene degli antichi teatri greci. In questa luce abbagliante si muovono i personaggi nei loro costumi atemporali tutti giocati sulla contrapposizione fra bianco e nero. Si riconosco molti stilemi del regista trentino, citazioni quasi puntali di quanto visto nei precedenti allestimenti torinesi di “Thais” e “Faust” – i figuranti seminudi intenti a movimenti ondulatori o circolari, i rilievi arcaicizzanti sul fondo, la totale assenza di arredi scenici solo evocati dal movimento dei mini-danzatori (per altro bravissimi nello svolgere un compito alquanto gravoso). Uno spettacolo totalmente anti-tradizionale ma di innegabile impatto visivo. Il vero problema – almeno nei primi due atti – era, come spesso in Poda, il sovraccarico quasi inestricabile di simboli da rendere spesso impossibile comprendere le ragioni delle singole scelte. Se, infatti, l’elemento più forte – l’infinito moltiplicarsi di Turandot – si chiarirà nel III atto come snodo di tutta la lettura psicanalitica del regista – e se il Pun Ti Pao donna con la sua lunga gonna rosso sangue che accompagna il Principe di Persia al supplizio si comprende nella ginecocrazia onirica dell’insieme, troppi altri elementi appaiono gettati come casualmente nella vicenda, spunti destinati a rimanere irrisolti come l’annullamento della differenza anagrafica fra i personaggi, le processioni di ancelle recanti oggetti il cui senso è destinato a non essere chiarito (come i caschi da pilota di F1 rivestiti di paillettes portati in processione attraverso il palcoscenico) mentre altre scelte risultavano fin troppo caricate con il funereo inizio del II atto con i ministri impegnati a mummificare i corpi dei pretendenti giustiziati. Il III atto non spiega tutti gli enigmi ma rende comprensibile il senso generale dello spettacolo che fino a quel momento era rimasto come sospeso nel dubbio. Tutto quanto vediamo è il prodotto della mente di Calaf, un sogno o una proiezione inconscia. Come dicono i ministri, Turandot non esiste o forse è pirandellianamente una, nessuna e centomila, specchio di se stessa, di Liù. Calaf appare come l’emblema della barriera da superare per sogno e veglia, fra reale e immaginario, limite personificato proiettato all’infinito dalla mente di Calaf. Liù incarnazione della necessità sacrificale connessa al superamento del limite diventa la protagonista assoluta. Nel momento del suicidio tutte le Turandot diventano proiezioni di Liù e sono loro a compiere il gesto estremo mentre la giovane schiava si erge radiosa nel mare nero delle Turandot estinte, solo dopo quel gesto mentre il coro canta l’ultimo addio che Calaf e Turandot – l’unica, vera Turandot rimasta dopo il crollo delle illusioni – possono finalmente incontrarsi prima che cali il sipario rendendo anche drammaturgicamente necessaria la scelta di interrompere qui l’opera. Scena di fortissima suggestione poetica a prescindere dal giudizio complessivo che si ognuno può dare dello spettacolo certamente destinato a suscitare reazioni contrastanti ma assolutamente meritorio di essere conosciuto.
Quasi altrettanto di rottura la direzione di Noseda che di “Turandot” fornisce una lettura di assoluta originalità. In tutte le sue letture pucciniane Noseda ha sempre evidenziato la modernità, lo sguardo verso il futuro del maestro e questo aspetto è qui portato alle estreme conseguenza. Noseda legge “Turandot” con gli occhi del Novecento; il suo è un Puccini filtrato con le lenti della modernità che evidenziano le comunanze non solo con Strauss ma con Stravinskij e Bartók, dove si fondono esaltazione quasi maniacale del dettaglio cameristico specie nei suoi aspetti timbrici e cromatici con esplosioni telluriche di debordante potenza. Una visione principalmente sinfonica e musicale in cui tendono in parte a perdersi un più stretto rapporto con il canto e un senso teatrale più complessivo prevalendo l’esaltazione rapsodica del momento. La validissima prova dell’orchestra e quella superlativa del coro permettono al direttore di dare piena compiutezza alla sua lettura della partitura, a suo modo divisiva, quanto la regia di Poda. Di fronte alla dimensione preponderante di direzione e regia, il cast passava quasi in secondo piano pur trattandosi di una compagnia nell’insieme più che soddisfacente. Rebeka Lokar è una Turandot più morbida e cantabile, meno glaciale virago di quanto voglia la tradizione. Voce ampia, estesa ma luminosa, con un’ottima emissione all’italiana e acuti ampi e sicuri ma capace anche di morbidezza e abbandono lirico e di un gioco dinamico molto ricco che offre una lettura molto convincente e che si cala pienamente nel taglio complessivo dello spettacolo.
Jorge De León è un Calaf robusto e sonoro, con acuti dotati di buon squillo e ottima proiezione vocale ma al contempo il timbro non è dei più seducenti e l’emissione mostra spesso un ricorso eccessivo al canto di gola mentre sul piano espressivo la sua lettura è rimasta in superficie senza scandagliare più profondamente l’intimità del personaggio come la natura psicanalitica dello spettacolo avrebbe suggerito. Scenicamente e vocalmente elegante la  Liù di Erika Grimaldi, interprete partecipe e sensibile capace di dare al personaggio accenti di autentica commozione che compensano un’emissione non sempre impeccabile e acuti in cui il suono tende a impoverirsi. Solida e fin troppo giovanile la vocalità di In-Sung Sim come Timur; perfettamente centrato il terzetto delle maschere composto da Marco Filippo Romano (Ping), il sempre inappuntabile Luca Casalin (Pang) e Mikeldi Atxalandabaso (Pong). Voce brunita e fortunatamente nessuna inflessione senile per l’Altoum di Antonello Ceron. Pienamente efficaci le parti di fianco.