“Street scene” di Kurt Weill al Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2017-2018
“STREET SCENE”
American Opera in due atti su libretto di Elmer Rice, basato sull’omonimo dramma teatrale di Elmer Rice e Langston Hughes
Musica Kurt Weill
Frank Maurrant PAULO SZOT
Anna Maurrant PATRICIA RACETTE
Rose Maurrant MARY BEVAN
Willie Maurrant MATTEO ARTUÑEDO
Abraham Kaplan GEOFFREY DOLTON
Sam Kaplan JOEL PRIETO
Shirley Kaplan VERÓNICA POLO
George Jones GERARDO BULLON
Emma Jones LUCY SCHAUFER
Mae Jones / First nanny SARAH-MARIE MAXWELL
Vincent Jones JAVIER RAMOS
Greta Fiorentino JENI BERN
Lippo Fiorentino MICHAEL J. SCOTT
Carl Olsen SCOTT WILDE
Olga Olsen HARRIET WILLIAMS
Daniel Buchanan TYLER CLARKE
Henry Davis ERIC GREENE
Mrs. Davis IRENE CAJA
Mrs. Hildebrand MONTSE GABRIEL
Jennie Hildebrand MARTA FONTANALS-SIMMONS
Charlie Hildebrand DIEGO POCH
Mary Hildebrand CLARA BARRIOS
Harry Easter RICHARD BURKHARD
Dick McGann DOMINIC LAMB
Steve Sankey KWENYA CARREIRA
Second nanny LAUREL DOUGALL
Oficial Murphy JONATHAN D. MELLOR
Doctor Wilson ÁNGEL BURGOS
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Pequeños y Jóvenes Cantores de la JORCAM
Direttore Tim Murray
Maestro del Coro Andrés Máspero
Maestro del Coro di voci bianche Ana González
Regia John Fulljames
Scene e costumi Dick Bird
Luci James Farncomb
Coreografia Arthur Pita
Nuova produzione del Teatro Real di Madrid, in coproduzione con Opéra di Montecarlo e Oper Köln
Madrid, 18 febbraio 2018

I primi accordi di Street scene appaiono sempre come una provocazione, addirittura uno sberleffo nei confronti delle stridenti sperimentazioni coeve dell’Europa, da cui Kurt Weill si tenne molto lontano (non avrebbe potuto agire diversamente, scrivendo per Broadway e per il teatro commerciale americano degli anni Quaranta). In realtà, quando quegli accordi ritornano nel momento esatto dell’omicidio, a metà del II atto, l’ascoltatore comprende che l’istantanea epigrafe musicale d’apertura non è affatto una citazione o una parodia, subito sostituita da ritmi e cadenze tipiche del musical e del jazz; al contrario, quel breve messaggio costituisce la chiave interpretativa di tutto il congegno teatrale, una sorta di avvertimento sulla tragicità totale dell’esistenza e delle sue più squallide manifestazioni quotidiane. L’atmosfera di caldo soffocante, di animalesca tensione al pettegolezzo maligno, di insofferenza nei confronti degli altri esseri umani, non è altro che un preludio all’esplosione che segue, inevitabile come ogni vera catastrophé. Non c’è bisogno di cercare i nefasti germogli del tragico nel mondo degli eroi o dei personaggi storici: è sufficiente una qualunque strada urbana (346 Lower East Side, New York) con tutti i campioni di vita che essa rigurgita a ogni ora del giorno e della notte per rappresentare il dramma dell’incapacità di comunicazione, di conflitto e di tensione al male, che si trova alla base di ogni sviluppo destinato alle peggiori conclusioni.
Lo spettacolo di Madrid è molto ben costruito, sebbene la qualità risulti differenziata a seconda dei piani: quello scenico funziona perfettamente grazie all’immobilità e alla coerenza; quello attoriale è più che adeguato grazie alle capacità e all’esperienza dell’intera compagnia; da ultimo, quello musicale è a sua volta ripartito tra un’orchestra che risponde bene alle equilibrate richieste del direttore, Tim Murray, e un gruppo di cantanti che non sempre risolve le difficoltà tecniche in modo inappuntabile. Detto altrimenti, tutti gli interpreti dei personaggi principali sono ottimi attori-cantanti, o attori-ballerini-cantanti, più che cantanti-attori. È naturale che le esigenze espressive del musical siano preponderanti in Street scene; non va dimenticato, però, che la scrittura vocale di Weill non si allontana troppo da quanto richiesto a un cantante in un’opera pucciniana, e in particolare in questa partitura. Anzi, si potrebbe aggiungere che proprio con una scrittura vocale accurata il compositore abbia tentato di sopperire la mancanza di azione che caratterizza tutto il lunghissimo I atto: un susseguirsi di presentazioni dei differenti caratteri e gruppi di personaggi, senza che vi sia alcuna azione, esattamente come accade in un’opera del primo Settecento. Non si tratta, ovviamente, di un difetto del libretto, giacché la presentazione è indispensabile alla comprensione dei rapporti interni di un piccolo mondo; Weill, comunque, si comporta come un operista nell’accezione ottocentesca: riserva a tutti i caratteri una pagina musicale, un’elaborazione individuale o corale (come il magnifico sestetto dedicato all’elemento simbolico americano dell’ice cream), richiedendo di conseguenza virtuosismo e tecnica di canto impeccabile. Non è una sorpresa, pertanto, che l’interprete vocale più convincente sia la Rose di Mary Bevan, un soprano inglese educato dalla scuola mozartiana e dal belcanto. Anche la protagonista dell’opera, la Signora Anna Maurrant, madre di Rose, è interpretata molto bene da Patricia Racette, soprano statunitense che si concentra nello sfogo drammatico (ma che non sempre evita le conseguenze dello sforzo fisico, come l’eccessivo vibrato o la non perfetta tenuta del suono). Voce incisiva quella del baritono brasiliano Paulo Szot, nella parte del marito scorbutico e assassino Frank Maurrant. Abbastanza carezzevole l’Henry Davis di Eric Greene, baritono americano abituato a ruoli wagneriani o verdiani, e dunque capace di dosare l’emissione con efficacia. Il Lippo Fiorentino di Street scene è un po’ il corrispondente americano del Tenore italiano del Rosenkavalier, una macchietta caricaturale dell’italiano emigrato (pretenzioso nel vestire, volgare nei modi galanti, sempre intento a regalare gelati e, naturalmente, cantare); il Teatro Real ha scritturato due cantanti spagnoli molto celebri e amati come José Manuel Zapata e Vicente Ombuena per interpretarne il ruolo; purtroppo, nella recita di cui si dà conto, è intervenuto il sostituto Michael J. Scott, non all’altezza della pur breve parte. Il tenero e timido innamorato di Rose, Sam Kaplan, è affidato al tenore madrileno Joel Prieto (annunciato indisposto per bronchite), che si disimpegna in maniera corretta. Del resto della numerosissima compagnia vocale si può dire che ognuno abbia contribuito positivamente o negativamente all’esecuzione in maniera marcata; per colpa dell’innecessaria amplificazione, infatti, ogni difetto anche piccolo si ingigantisce e si impone all’ascolto con evidenza (è vero che nella tradizione di Broadway i dialoghi parlati sono potenziati con la tecnica del discreet microphoning; l’osservazione si riferisce però ai numeri di canto con accompagnamento strumentale, la cui amplificazione, in un teatro piccolo come il Real, è più che altro nociva).
Rappresentare l’inesorabilità della tragedia all’interno di un mondo apparentemente libero e civilizzato è l’obbiettivo del regista inglese John Fulljames: la scena unica prevista dal libretto è dunque una gigantesca struttura metallica elevata su tre piani, ferrigna, opprimente, lurida e labirintica come un luogo di tortura dei peggiori incubi. Dalle sue porte entrano ed escono, dalle scale salgono e scendono senza sosta tutti i personaggi del dramma, come in un formicaio in cui si concentrino tutti i nervosismi individuali fino al parossismo collettivo. Soltanto per pochi minuti la mole massiccia del caseggiato si separa nel mezzo, lasciando intravvedere le luci dei grattacielo sullo sfondo: accade quando i due adolescenti, Rose e Sam, si confidano sentimenti e illusioni in un’oasi di tenerezza accompagnata dalla danza. Ma ben presto la struttura si richiude su se stessa, come per stritolare chi vi abita o condannarlo alla prigione senza fine. L’immobilità dell’impianto scenico è ben equilibrata dagli incessanti movimenti di personaggi, figuranti, comparse e cori: il regista riesce nel non facile lavoro di differenziarli, anche grazie ai costumi – cenciosi ma del tutto credibili e funzionali – di Dick Bird.
Con le opere del periodo statunitense di Weill affiora ogni volta la questione su quale tipo di America suggerire; nella versione di Fulljames nessun elemento fa pensare allo scintillante mondo del musical e meno ancora alla incrollabile fede nel “sogno americano”; allignano per contro l’ipocrisia e l’aggressività di un sistema sociale che il tedesco Weill aveva potuto analizzare da un punto di vista al tempo stesso problematico e privilegiato: quello dello straniero (in occasione di un’esecuzione di Street scene al Teatro Regio di Torino nel dicembre 1995 il direttore d’orchestra John Mauceri disse che la musica stessa di Weill resta “straniero-americana”; ed era una sottolineatura positiva della sua peculiarità e originalità). Per di più, il regista si compiace di insistere su qualche particolare sgradevole, come il sangue versato nel tombino dopo il parto della Signora Buchanan e dopo l’uccisione degli adulteri. La guerra era ormai finita nel 1946, quando l’opera andò in scena per la prima volta allo Schubert Theatre di Filadelfia; ma il testo di Elmer Rice, costruito con una struttura ad anello di compiuta semplicità, non concedeva davvero nessuna illusione; alla fine, nella strada della famiglia Maurrant tutto ritorna uguale all’inizio: il clima afoso, i rumori del traffico, le voci del proletariato cittadino non attendono altro che una nuova e incomprensibile tragedia.   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid