“Aida” al Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2017-2018
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni, basato su di un argomento di Auguste Mariette e Camille du Locle.
Musica Giuseppe Verdi
Il Re SOLOMAN HOWARD
Amneris VIOLETA URMANA
Aida LIUDMYLA MONASTYRSKA
Radamès GREGORY KUNDE
Ramfis ROBERTO TAGLIAVINI
Amonasro GABRIELE VIVIANI
Sacerdotessa SANDRA PASTRANA
Messaggero FABIÁN LARA
Coro y Orquesta Titular del Teatro Real
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia, scene e costumi Hugo de Ana
Luci Vinicio Cheli
Coreografia Leda Lojodice
Nuova produzione del Teatro Real, in coproduzione con la Lyric Opera di Chicago e il Teatro Municipal di Santiago de Chile, basata sulla produzione originale del Teatro Real del 1998
Madrid, 16 marzo 2018

In una stagione celebrativa come quella per il bicentenario del Teatro Real di Madrid non poteva mancare un’Aida (originalmente incorniciata tra Street scene di Weill e Gloriana di Britten), che oltre tutto richiamasse la storia più recente del teatro; si tratta infatti della versione rinnovata dell’Aida che nel 1998 Hugo de Ana allestì per la stagione di riapertura del Real dopo molti anni di restauro. Ora – assicura lo stesso regista – di quella produzione resta soprattutto il profilo stilistico, ma lo spettacolo è del tutto diverso; senza dubbio il ripensamento e le nuove riflessioni insistono sulla differenziazione dei quadri, delle situazioni e delle ambientazioni, ancor più che sui caratteri individuali. La direzione del Real ha investito molto anche nelle voci: tre compagnie si alternano per disimpegnare le diciassette recite previste. Il primo cast raggruppa nomi illustri, ben collaudati e pluripremiati, tutti specialisti della loro parte; ma l’esito propriamente musicale, seppure in un clima di grande successo, resta inferiore a quello visivo. Gli artefici dell’esecuzione, direttore d’orchestra e regista, paiono confermare un giudizio gravido di conseguenze pratiche: che Aida sia l’opera ottocentesca par excellence, monumentale, fastosa, fiabesca e guerriera, raggrumata attorno a qualunque iconografia che – più o meno plausibilmente – possa richiamare l’antico Egitto (e non importa di quale dinastia: l’importante è che la vista dello spettatore induca a pensare «all’epoca della potenza dei Faraoni», come avverte Ghislanzoni in apertura di libretto). Abbracciata questa causa, non ci si meraviglia che l’apparato scenografico sia tutto un fluire di oggetti, sempre più ingombranti, fino al secondo quadro del II atto, quando devono vedersi «i carri di guerra, le insegne, i vasi sacri, le statue degli Dei» (ancora il librettista, in una didascalia della scena del trionfo). Il regista vi aggiunge una foresta di lance, scudi, archi e frecce ad accompagnare ciascun momento corale; in cui sfilano guerrieri nubiani, arcieri sciti, schiavi etiopi, sacerdoti egizi, gruppi di donne e uomini del popolo; un’abbondante profusione di glutei e seni colorati si riversa su palcoscenico, all’ombra di obelischi e di piramidi.
Nicola Luisotti si impegna per porgere un suono orchestrale massiccio e imponente, sebbene non sempre riesca a mantenere i necessari equilibri; nella scena del trionfo, per esempio, qualche sfasatura tra orchestra e coro guasta un po’ l’effetto complessivo. I tempi sono per lo più pacati, salvo qualche clausola accelerata troppo bruscamente; Luisotti tralascia, del resto, anche la possibilità di far percepire le differenze nell’impostazione sonora tra i primi due atti e i successivi: nelle atmosfere notturne del III, nella scena del giudizio e in quella finale della tumulazione dei due amanti, i volumi orchestrali restano sempre fragorosi, disattendendo molte delle indicazioni agogiche verdiane. In sintesi, la tromba e il timpano prevalgono quasi sempre sul violoncello e il flauto.
Vieppiù affezionato e impegnato nelle stagioni del Teatro Real, Gregoy Kunde è un Radamès pienamente affidabile sul piano vocale (a parte l’incipiente debolezza nell’emissione delle note basse). Il suo «Celeste Aida» procede con ritmo un po’ lento e con qualche armonico in meno rispetto al passato (questo fa sì che le sezioni del registro risultino più differenziate); la zona delle note acute, però, è sempre squillante e solida: con i suoi sessantaquattro anni appena compiuti, Kunde è ancora capace di smorzare in gola la puntatura finale della cavatina e di alleggerire il suono ogni qualvolta lo ritenga opportuno per l’interpretazione. Per l’appunto: il Radamès che egli profila non è né concitato né manierato; conserva quella stilizzazione tipica dei personaggi rossiniani a cui il tenore è sempre rimasto fedele, che tutto dicono con il canto e con il fraseggio (non c’è bisogno di altro, del resto, quando un grande cantante deve intonare parole come «Mortal giammai né Dio / arse d’amor al par del mio possente»). Anche Violeta Urmana sa alleggerire l’emissione e restituire un’Amneris efficace; il suo registro basso, però, accusa ormai i segni di un deterioramento che dovrebbe sconsigliarle di accettare ancora questo ruolo (ben diverso da quello della Principessa Eboli sostenuto a Valencia lo scorso dicembre). Decisamente deludente la Aida di Liudmyla Monastyrska, irriconoscibile rispetto a qualche anno fa: l’emissione è gridata, la linea di canto aggressiva, la dizione e il fraseggio assenti, il parlato ricorrente nel registro basso, nessuna grazia o capacità di sfumare il suono. L’impressione complessiva è che non le interessi per nulla il dramma del personaggio, visto che si limita a emettere fiati a tutta potenza, indipendentemente da qualunque risultato qualitativo. Tutta la scena di «Ritorna vincitor!» si chiude senza che neppure un applauso risuoni all’indirizzo della cantante. Antoine Gólea, nei suoi Entretiens avec Wieland Wagner, disse che l’amore di Aida per Radamès è puramente spirituale, e che questo determina la risposta di sacrificio e totale dedizione dell’eroe; ebbene, ad ascoltare questa interprete dell’opera forse non si sarebbe giunti a una conclusione tanto sublime. Se nell’acuto la Urmana tende al grido, la Monastyrska tende all’effetto truccato della filatura di voce, emessa senza troppi riguardi di stile (sarà bene ripeterlo: del terzetto protagonista il solo a porgere un registro alto con onestà di mezzi e con tecnica soddisfacente è Kunde). Gabriele Viviani è un Amonasro dalla voce generosa, capace di accattivarsi la simpatia e l’apprezzamento del pubblico con una recitazione enfatica e con messe di voce tenute a lungo (prevedibile, ma sempre emozionante, la frase «dei faraoni tu sei la schiava», al culmine del duetto del III atto). Buono il Ramfis di Roberto Tagliavini e ottimo il Re di Soloman Howard, basso statunitense dalla cavata notevole e dalle risonanze pregevoli; professionali e corretti la Sacerdotessa di Sandra Pastrana e il Messaggero di Fabián Lara. Il Coro del Teatro Real preparato da Andrés Máspero si rivela sempre all’altezza della situazione, sebbene questa volta l’interazione con l’orchestra non sia sempre impeccabile.
Lo spettacolo di Hugo de Ana è complesso, non soltanto per quanto riguarda l’organizzazione scenografica e cinetica: da un lato tende a enfatizzare ogni momento con i mezzi più tipici (movimenti scenici, gioco di luci, grandi masse), dall’altro ambisce smaterializzare la monumentalità di Aida, esaltando la dimensione evocativa dei suoi svariati simboli per mezzo di videoproiezioni ed effetti di dissolvenza. A differenza di altri registi, forse costretti a cimentarsi con questo titolo, de Ana non ricerca alcun tipo di realismo, perché sa perfettamente che la dimensione realistica non potrebbe essere più lontana dall’opera di Verdi e dal libretto di Ghislanzoni; altrimenti, quale sarebbe la ragione sensata di porre al centro della scena del trionfo la gradinata di una piramide in rovina (che assomiglia molto più alla cavea di un teatro greco) e un faraone di Egitto arrampicato sulla metà dell’elevato? La finalità di tali scelte è puramente pratica, funzionale alla musica, giacché colloca il coro dei sacerdoti e le trombe soliste in alto, su più livelli della rampa praticabile, concedendo lo spazio del proscenio ai movimenti coreografici. A ogni cambio di scena o di prospettiva l’elemento della piramide, che riassume contemporaneamente monumentalità e morte, incombe come effetto di ombra o di luce; in occasione del terzetto del I atto, per esempio, l’atmosfera si oscura e il triangolo violaceo di una piramide rovesciata si profila sopra i protagonisti del dramma (l’insistenza sull’architettura e sulla sovrabbondanza di spazi pieni deriva ancora una volta dal libretto di Ghislanzoni: la didascalia che introduce il I atto prescrive «una colonnata con statue […] i tempii, i palazzi di Menfi e le Piramidi»). De Ana cura regia, scene e costumi, rivelandosi sempre molto attento in tema di vestiario: i contrasti di colore della scena del trionfo sono magnifici, e una delle ragioni principali del successo dei movimenti delle masse risiede appunto negli accostamenti cromatici; quando la grande piramide che fa da sfondo avanza rapidamente verso il pubblico e concentra tutti i figuranti in uno spazio ridotto e stratificato, il vivido rapporto tra i colori si impone in modo ancora più evidente. I momenti più deboli dello spettacolo sono quelli coreografici, perché incongrui rispetto all’idea rappresentativa con cui il regista lo ha rivestito. In una pièce che tanto ha da raccontare e da cui possono rampollare tante invenzioni (Zeffirelli creò nella sua ultima Aida addirittura un nuovo personaggio danzante …) i balletti di Leda Lojodice non sono sorretti da alcun intento narrativo e neppure affidati all’astrazione: sono puramente decorativi (o peggio ancora riempitivi). Nella scena della consacrazione di Radamès i figuranti iniziano a srotolare candide bende con cui si avvolgono il corpo, come per trasformarsi in mummie; nel II atto il gruppo maschile e quello femminile si affrontano con movenze alquanto triviali e un erotismo da discoteca, senza che si comprenda alcunché. Forse tale vuotezza di messaggio è la conseguenza di non aver scritturato una coppia di étoiles (come si fa abitualmente per riflettere anche sulla danza il dissidio amoroso dei personaggi principali) e aver affidato tutta l’espressività coreografica all’intero corpo di ballo. Comunque sia, Aida trionfa nel giudizio e nella reazione entusiasta del pubblico di Madrid; neppure questo deve stupire, dal momento che l’ineffabile perfezione del linguaggio musicale verdiano recupera e cancella qualunque défaillance delle altre forme di comunicazione.   Foto Javier del Real © Teatro Real