“La Bohème” al Teatro dell’Opera di Roma

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2017/2018
“LA BOHEME”
Scene liriche in quattro quadri su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa da Scènes de la vie de bohème di Henri Murger e Théodore Barrière.
Musica di Giacomo Puccini
Mimì  VITTORIA YEO
Rodolfo  IVAN AYON-RIVAS
Marcello ALESSANDRO LUONGO
Shaunard  ENRICO MARABELLI
Colline  GABRIELE SAGONA
Musetta  VALENTINA NAFORNITA
Benoit  MATTEO PEIRONE
Parpignol GIORDANO MASSARO
Alcindoro MATTEO PEIRONE
Sergente dei doganieri DANIELE MASSIMI
Doganiere FRANCESCO LUCCIONI
Venditore ambulante LEONARDO TRINCIARELLI
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione degli Allievi della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Pietro Rizzo
Maestro del CoroRoberto Gabbiani
Regia Alex Ollè (La Fura dels Baus)
Scene Alfons Flores
Costumi Lluc Castells
Luci Urs Schonebaum
Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Regio di Torino
Roma, 22 giugno 2018
Ultimo titolo operistico della stagione in corso al teatro dell’Opera di Roma prima della pausa estiva con gli spettacoli a Caracalla, questa Boheme di Puccini nata in coproduzione con il Teatro Regio di Torino. L’idea registica alla base di questa lettura sembra essere quella di collocare la vicenda in una inaccessibile, orrida periferia di una anonima e oscura metropoli, una sorta di Gotham City in formato ridotto nei cui vicoli prosperano, la miseria, il degrado, le malattie e la volgarità senza redenzione di una società multietnica, massificata fino al punto di giungere ad apparire priva di ogni connotazione sociale. In questo contesto di indubbia attualità ma anche estremamente a senso unico rispetto alla ricchezza del mondo che si cela e viene sapientemente evocato dalle parole o dai sottintesi contenuti nel testo, dalla musica e nelle numerose indicazioni presenti in partitura, viene posta la vicenda di questi giovani e, in una prospettiva più ampia, il tema della gioventù perduta. Senza voler entrare troppo nel merito del percorso di lettura pensato dal regista Alex Ollè, lo spettacolo nell’insieme risulta monocorde e a tratti il conflitto tra il testo, oltretutto proiettato nei sopratitoli anche in inglese, e quanto avviene in scena, risulta stridente quando non involontariamente ridicolo, riconducendo il tutto nell’ambito delle assurdità operistiche della tanto aborrita tradizione. E così accade che per sacrificare la sedia si tenti di bruciarne una  di metallo, Colline vuol fare la conoscenza per la prima volta di un barbitonsore del quale non sembra avere alcun bisogno, Parpignol a dicembre a Parigi non ha giocattoli, non sia mai la tromba ed il cavallino, ma palloncini e ciambelle gonfiabili come se stesse a Rimini, i carabinieri controllano panieri che non esistono, le lattivendole ormai prive di lavoro perché la vendita del latte sfuso è proibita da un pezzo per ragioni igienico sanitarie  si sono riciclate in un gruppo di pseudo-badanti ubriache in libera uscita, Musetta non riscalda nessun cordiale e nessuna fiamma sventola ma tanto per far qualcosa visto che parla, aggiusta gentilmente il plaid a Mimì e così via per quattro atti. Assolutamente spento poi il secondo quadro senza che sia stato trovato alcun movimento espressivo o originale per le masse o i personaggi. Le scene di un monotono grigio metallizzato, colore a nostro giudizio poco presente nella tavolozza della partitura, che riproducono questo vicolo senza cielo in cui però tutti per sfuggire al noto caldo di Parigi a dicembre sembrano possedere un condizionatore d’aria, piccolo lusso in cotanta miseria, in qualche punto mettono in difficoltà la proiezione delle voci o la possibilità per i cantanti di seguire il gesto del direttore. E così per esempio per non sbagliare, le battute di Marcello rivolte a Mimì al tavolo del Caffè Momus nel secondo atto finiscono per essere rivolte al pubblico e al direttore. I movimenti dei vari personaggi infine sembrano avere più la costruita disinvolta spontaneità della commedia musicale, con quell’immediatezza quasi cinematografica certamente gradevole ma buona un po’ per esser risolta da qualsiasi cast e che certo non sembra essere frutto di un lavoro di ricerca e di riflessione con gli interpreti. Lascia francamente sorpresi  come non ci si avveda di quanto tutto questo conduca da un punto di vista culturale in modo silenzioso ma inesorabile esattamente verso quellamassificazione priva di identità e connotazione quali che siano, che caratterizzano proprio quelle periferie che sembra si sia tentato di denunciare in modo sia pure maldestro e inopportuno. Il teatro d’opera ha delle precise esigenze tecniche e non tutte le partiture si prestano per essere piegate ad ogni trovata espressiva. Se si avverte una così incontenibile vis creativa o ci si sente animati  da motivazioni sociali o culturali anche apprezzabili così cogenti, forse sarebbe più costruttivo assumersi  la responsabilità di produrre opere nuove affrontando a viso aperto il giudizio di pubblico e critica, smettendo questo sterile e parassitario gioco alla demolizione mistificato in avanguardia, progresso, cultura, trasgressione, genialità creativa e quant’altro a seconda delle occasioni e dei contesti. Rigida e povera di colori la direzione di Pietro Rizzo, più percussiva che cantabile e concepita per grandi contrasti sia nella scelta dei tempi che dei volumi sonori ora assolutamente eccessivi e tali da coprire le voci, ora al limite dell’udibile senza una apparente progettualità e con un effetto complessivo di grande monotonia. Buona la prova del coro diretto da Roberto Gabbiani. Ottima la coppia degli interpreti dei ruoli di Rodolfo e Mimì. Il giovane tenore Ivan Ayon Rivas ha delineato un ritratto del poetino parigino sentito e credibile, onorando tutti gli appuntamenti vocali attesi con sicurezza e sincera partecipazione e grazie ad una non comune e rifinita capacità espressiva anche nel canto di conversazione. Il soprano Vittoria Yeo nonostante qualche iniziale difficoltà a trovare una intesa ritmica con il direttore, ha offerto una interpretazione della gaia fioraia di Parigi tutta giocata sui colori della voce e su una eccellente musicalità con intensità, misura e gusto sempre sorvegliato e scevro dagli eccessi veristici di tradizione. Risolto validamente ma più sul piano della recitazione e della fisicità che non della vocalità il personaggio di Musetta affidato a Valentina Nafornita la quale canta indubbiamente  bene ma con un timbro forse per natura poco adatto alla parte. Convincente pure il Marcello di Alessandro Luongo, anche esso tuttavia risolto più sul versante dell’agilità e della prestanza fisica che non su quello squisitamente vocale. Corretti lo Schaunard di Enrico Marabelli e  il Colline di Gabriele Sagona penalizzato suo malgrado nonostante un timbro vocale piacevole da una brutta direzione di “vecchia zimarra”. Autorevole e appropriato è apparso Matteo Peirone nella caratterizzazione di un singolare Benoit di borgata e di un Alcindoro reso viceversa un pò incolore dalla regia. Funzionali e musicalmente corretti gli interpreti dei restanti  ruoli minori. Applausi di cortesia a scena aperta nel corso della serata ed alla fine un caloroso applauso all’indirizzo di Mimì e Rodolfo per la loro indubbia bravura e perché il finale di Boheme riesce a commuovere comunque e sempre. Foto Yasuko Kageyama