Bologna, Teatro Comunale: “West Side Story”

Bologna, Teatro Comunale, Stagione d’Opera 2017-18
WEST SIDE STORY
Musical da un’idea di Jerome Robbins, su libretto di Arthur Laurents e liriche di Stephen Sondheim, liberamente tratto da “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare.
Musica di Leonard Bernstein
Tony TIMOTHY PAGANI
Maria CATERINA GABRIELI
Riff  ALESSIO RUARO
Anita FRANCESCA CIAVAGLIA
Bernardo MASSIMILIANO CARULLI
Doc/Glad Hand DOMENICO NAPPI
Schrank ANDREA RODI
Krupke LUCA ASIOLI
Interpreti della Bernstein School of Musical Theater
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore 
 Timothy Brock
Direzione artistica e vocale Shawna Farrell
Regia Gianni Marras
Coreografie Gillian Elizabeth Bruce
Scene Giada Abiendi
Costumi Massimo Carlotto
Luci Daniele Naldi
Sound designer Tommaso Macchi
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna in collaborazione con BSMT Productions
Bologna, 15 luglio 2018
Seguendo una consolidata tradizione anglosassone, il Comunale di Bologna ha da qualche anno affiancato la produzione di musical a quella di opere liriche, e quest’anno è il turno di uno di quelli più celebri e amati dal pubblico: “West Side Story” di Bernstein, Laurents e Sondheim. Va detto subito che gli artisti di cui questa recensione parlerà sono allievi (probabilmente diplomandi) della “Bernstein school of musical Theater”, che da dieci anni propone, in collaborazione col Comunale, titoli importantissimi, quali “Evita” e “Les Misérables”, e si propone come un istituto d’eccellenza nel settore; tuttavia, figurare in una prestigiosa stagione come quella bolognese, non può esimere questi giovani artisti, e i professionisti che li preparano, dal vaglio della critica. Si può cominciare dicendo, senza se e senza ma, che questo “West Side Story” è estremamente entertaining, da un punto di vista visivo e musicale: la direzione di Timothy Brock è energica, ritmata e calibrata, con grande risalto degli ottoni e contemporaneamente grande senso d’insieme; la partitura di Bernstein semplicemente è perfetta, e un’orchestra come quella di Bologna certo non si risparmia, comunicando con grande coesione tutta la gamma emotiva che questa musica sa comunicare, dagli echi straussiani, ai lunghi piacevolissimi intermezzi jazz, dal pop più sfrenato e raffinato, fino ai bagliori del secondo Puccini in più di un numero. Questa è la prima grande fascinazione cui siamo soggiogati: una musica ben eseguita e magnificamente scritta, che ancora troppo raramente si ascolta suonata dal vivo e da un ensemble importante. La seconda è senza alcun dubbio la combinazione tra le coreografie di Gillian Elizabeth Bruce (che strizzano giustamente l’occhio a quelle del celebre film del ’61, pur proponendo grandi slanci di originalità) e le luci del bravo Daniele Naldi, light designer del Comunale: il corpo di ballo e i protagonisti comunicano un bel senso d’insieme, e, irrorati dai giusti effetti luminosi, sanno davvero conquistare l’occhio dello spettatore, fin dalla splendida rissa del Prologo, senza dimenticare anche “The Dance at the Gym” e la divertentissima “Gee, Officer Krupke”. La conquista, invece, dell’orecchio è certo meno riuscita: se complessivamente pregevole è la Maria di Caterina Gabrieli (anche se si evidenzia un registro acuto piuttosto teso e una certa mancanza di morbidezza nelle mezzevoci), non convincono il Tony di Timothy Pagani e il Riff di Alessio Ruaro, entrambi per delle vocalità tutto sommato limitate tecnicamente, non abbastanza sostenute, e delle interpretazioni non esaltanti per ritmo e intonazione, per quanto coinvolgenti sul piano emotivo. Una nota di merito va a Francesca Marsi, interprete della celebre “Somewhere”, dotata di una voce consistente e controllata; altro plauso alla direttrice vocale Shawna Farrell per i momenti di insieme, sempre ben armonizzati (come in “I feel pretty”) e sempre suggestivi (più di tutti il quintetto di “Tonight”, dove sembra davvero, sia per la cura vocale sia per l’importanza orchestrale, di stare assistendo a un’opera). Ma questo opera non è, nonostante la sede, nonostante l’orchestra: lo rivelano le vocalità “naturali” della maggior parte degli interpreti, ma soprattutto le non poche scene recitate previste dal librettista Arthur Laurents: spiace dover constatare che proprio l’aspetto della recitazione sia il meno compiuto, proponendoci quali apprezzabili interpreti la già citata Gabrieli e la brava Francesca Ciavaglia nel ruolo di Anita, che si rivela la migliore in scena, regalandoci momenti di grande forza, come nella celeberrima “America”, e anche vocalmente dimostra di saper sostenere la parte, negli apprezzabili duetti di “A boy like that” e “I have a love”. Il Tony di Timothy Pagani è invece privo di quel mordente che lo differenzia dal suo predecessere scespiriano (non dimentichiamo, infatti, che “West Side Story” è una rilettura, nemmeno troppo riuscita, di “Romeo e Giulietta”): dove ci si aspetterebbero spigoli e asprezze da ragazzo di strada, Pagani appare impacciato – un esempio lampante sono i momenti in cui Tony, quasi come lo Stanley di “Un tram che si chiama desiderio”, urla disperato i nomi di Maria e Chino, momenti nei quali Pagani invece sembra modulare, o comunque trattenere, le urla, perdendo l’intenzione e vanificando de facto le scene. Purtroppo molto stereotipati appaiano anche gli altri personaggi maschili, con la sola eccezione del Doc di Domenico Nappi e del Bernardo di Massimiliano Carulli: è evidente che l’intenzione generale non sia quella di approfondire le psicologie di ciascuno, ma di fornire visioni d’insieme talvolta troppo semplificate (i teppisti son cattivi, gli innamorati sono buoni, gli adulti sono saggi e così via). Sorge il dubbio se quest’approccio sia stato voluto o meno dal regista Gianni Marras (direttore dell’Ufficio Regia del Comunale), giacché risulta davvero il tassello più debole del variegato mosaico di talenti che un musical deve sapere tenere insieme. Le scene di Giada Abiendi e i costumi di Massimo Carlotto sono abbastanza convenzionali, e per questo di impatto immediato e facile fruizione, perfettamente armonizzati nella produzione, che si muove tutta sui binari sicuri della tradizione. In fin dei conti, dunque, uno spettacolo godibile, ricco di momenti coinvolgenti, ma ben lungi da quella compiutezza che occorrerebbe richiedere in Italia ai musical che calcano le scene dei teatri d’opera. Perché, se è vero che i puristi (cui chi scrive dichiaratamente non appartiene) tendono a storcere il naso nel vedere certi titoli in cartellone, è necessario che il musical in Italia sappia essere all’altezza del genere artistico da cui, ci piaccia o no, proviene (tramite il singspiel tedesco, l’opéra comique francese e i melodramas di Belasco). In questo solco sconfortante di sottovalutazione, non si può non citare anche lo straniante mix linguistico che, almeno in questa produzione, si propone al pubblico: scene in italiano, “numeri” in inglese. Non sarebbe stata meglio una coerenza linguistica, in nome di Laurents o in nome di una prospettiva più nostrana, nel quale inserire questo vivace genere teatrale? Foto Rocco Casaluci