Como, Arena del Teatro Sociale: “Otello”

Como, Arena del Teatro Sociale – Festival Como Città Della Musica 2018
OTELLO
Dramma lirico in quattro atti, libretto di Arrigo Boito, da William Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi
Otello FRANCESCO ANILE
Jago ANGELO VECCIA
Cassio ORESTE COSIMO
Roderigo NICO FRANCHINI
Lodovico SHI ZONG
Montano MASSIMILIANO MANDOZZI
Desdemona SARAH TISBA
Emilia CATERINA PIVA
Orchestra 1813
Coro 200.Com
Coro delle voci bianche del Teatro Sociale di Como
Direttore 
 Jacopo Rivani
Maestri del Coro  Giuseppe Califano, Giorgio Martano, Mariagrazia Mercaldo
Maestro del Coro delle voci bianche Lidia Basterretxea
Regia Silvia Paoli
Scene Federico Biancalani
Costumi Giulia Giannino
Luci Andrea Carletti
Nuovo allestimento del Teatro Sociale di Como
Como, 30 giugno 2018
Ci sono alcune premesse da fare circa l’“Otello” verdiano andato in scena a Como lo scorso fine settimana, premesse in merito al senso stesso di questa iniziativa: Como da sei anni sperimenta una formula coristica al di là dell’amatoriale, che vuole coinvolgere la cittadinanza di qualsiasi estrazione culturale e sociale, con l’intento di riportare la città al centro del teatro, più che il contrario. La ragione è presto servita: il teatro ha bisogno di pubblico nuovo, soprattutto per il futuro, e il reclutamento volontario del progetto 200.Com negli anni si è dimostrato, numeri alla mano, vincente sia per il presente, sia, si spera, per il futuro, considerato il crescente numero di giovani che vi prendono parte. Tutta l’iniziativa si articola su questo imperativo, cioè creare una performance della cittadinanza e per la cittadinanza, ma il pubblico d’opera comasco non è certo sprovveduto: quello che ci si aspetta dall’opera messa in scena è di livello medio-alto, non facilmente ci si accontenta di cantanti e produzioni di serie b. Per questo, probabilmente, si è optato, quest’estate, per un titolo impegnativo come “Otello” di Verdi, e, soprattutto, per una regista impegnata e impegnativa come Silvia Paoli: ci troviamo dunque di fronte a un’esperienza potenzialmente disastrosa, con un coro fieramente non professionista e un allestimento dalle pretese altissime. Invece, sorprendentemente, la strana coppia funziona: la Paoli sconvolge l’intero assetto dell’Arena del Sociale (un parcheggio, per il resto dell’anno) ponendo un palco lungo e stretto al centro, con due palchi secondari quadrati ai suoi lati, e col pubblico schierato da un lato e dall’altro dell’intera area. L’orchestra, purtroppo, viene relegata in fondo a un versante della platea, e questo inficia parzialmente la fruizione musicale (assieme ai rumori della città, giacché l’Arena si ubica in pieno centro, ma nei pressi di un’arteria trafficatissima), oltre che l’effettiva resa di coro e cantanti, che talvolta faticano a trovare il tempo giusto, nonostante i molti schermi piazzati tutt’attorno affinché vedano il direttore. Questa è un’altra premessa da cui occorre partire per recensire lo spettacolo: la dimensione musicale è quasi ingiudicabile, poiché fisicamente troppo distante e corrotta da altri suoni. Si può dire che il Maestro Jacopo Rivani diriga correttamente, che tenti in ogni modo di tenere le fila del discorso sinfonico e delle esecuzioni soliste, e che, almeno nel primo caso, paia riuscirci, ma non molto di più. D’altronde l’acustica di un parcheggio già di per sé non è delle migliori, figuriamoci con l’orchestra relegata in un angolo. Ma è evidente che questo sia tutto voluto, che persegua un intento preciso: portare la scena, la performance, al centro dell’opera. E in questo, Paoli, coadiuvata dalle scene di Federico Biancalani, dai costumi di Giulia Giannini e dalle luci di Andrea Carletti (tutt’e tre particolarmente riusciti), centra in toto il suo obiettivo: tutti i cantanti forniscono prove d’attore di livello, Francesco Anile e Sarah Tisba in modo particolare. Le immagini ricreate in scena sono potentissime, sia quelle che ritraggono Desdemona come una specie di icona sacra pop (con lampanti riferimenti a Pierre et Gilles), sia quelle con i mimi con inquietanti maschere equine (simboli abbastanza chiari di follia e irrazionalità), ma soprattutto quelle corali, nelle quali i 200.Com (instancabilmente diretti da Giuseppe Califano, Giorgio Martano e Mariagrazia Mercaldo) si scatenano, cantando, ballando, recitando a pochi centimetri dal pubblico, interagendo con esso (ad esempio su “Chi all’esca ha morso del ditirambo” il pubblico beve e canta coi rutilanti coristi), o spezzandogli il cuore (nel IV atto, quando, durante la Canzone del Salice, cinquanta coriste, vestite dei loro veri abiti da sposa, portano ai piedi del palco centrale delle scarpe rosse, simbolo della violenza sulle donne, tema dell’intero festival estivo, il cui ricavato, infatti, andrà ad ActionAid). La sensazione che si ha, a un certo punto, è che nemmeno si stia più cantando, in scena, poiché anche la scansione della parola da parte dei cantanti è chiarissima, di immediata comprensione, anche in assenza di sovratitoli: e qui capiamo che ciò cui stiamo assistendo non è esattamente un’opera lirica, non nell’accezione che comunemente intendiamo. Siamo di fronte a un teatro musicale diverso per grado di fruizione, ma anche per consapevolezza: quest’“Otello” parla un linguaggio nuovo e al contempo arcaico, dove le componenti del “recitar cantando” sono chiaramente distinte (recitazione-musica-poesia-mimo-danza-arti figurative), dove un figurante vale tanto quanto il protagonista, dove il direttore è più un maestro concertatore, che il grande burattinaio di orchestra e scena. Se l’opera in Italia è una cosa da ancien régime (come molti, anche tra le alte sfere, ritengono), da sabato è arrivata al cuore della contemporaneità, scevra di qualsivoglia pretesa e per questo cristallina nel suo valore culturale e sociale. Tuttavia, in questo contesto, le performance musicali dei cantanti non passano certo in secondo piano, si fondono indistricabilmente a quelle attorali, ma non vengono messe da parte, anzi: il cantante che si spende tutto in recitazione, ma vocalmente latita, apparirà ancora peggiore, poiché non avrà più gli schermi protettivi di un’orchestra imponente, di una mise-en-scène strabordante, di un’acustica che ne copra qualche difettuccio; un cantante che prende parte ad un simile progetto si mette in gioco del tutto, poiché canta a un metro dalla prima fila, e se ne sente ogni imperfezione, ogni tremolio: egli è nudo. Ecco allora che non possiamo non notare un certo affanno in Francesco Anile, specie nella zona acuta, ci offre un Otello non privo di vigore ma anche avaro di sfumature; Angelo Veccia, invece, che non avevamo apprezzato particolarmente nella “Tosca” parmense, qui si rivela a suo perfetto agio, mostrandoci uno Iago ben sostenuto, forse non precisissimo nei passaggi di registro, ma solido, intonato, e il pubblico gli riserva generosi applausi, apprezzandone anche le doti interpretative. Sarah Tisba, va detto, non parte benissimo da un punto di vista vocale, un po’ monocorde, ma col procedere della vicenda si rivela interprete espressiva in grado di aderire a ciò che il compositore chiede; forse ha ancora da consolidare la zona  centrale della voce, ma, considerata la sua giovane età, può assurgere a notevol risultati. Altrettanto giovane è Oreste Cosimo, un Cassio corretto, dal buon controllo tecnico; mentre si fa notare il bel timbro tenorile di  Nico Franchini: forse fin  troppo giovanilmente brillante per un personaggio come quale Roderigo, ma che comunque regala un’apprezzabile esecuzione; Valida, vocalmente e scenicamente, anche l’Emilia di Caterina Piva, che spicca, in modo particolare nel sestetto del III atto e nel finale. Meno interessanti il Lodovico e il Montano di Shi Zong e Massimiliano Mandozzi, giovani forse ancora vocalmente acerbi, e per questo più incerti. Passate le tre ore buone di questo “Otello”, il rimpianto per un’orchestra più “dentro” a questo spettacolo, per un suono più chiaro e coinvolgente, c’è, è inutile negarlo, e non viene certo compensato dalla cura e dall’ingegnosità dell’allestimento; ma c’è anche una soddisfazione nuova, ed è quella di aver preso parte a una performance radicalmente diversa dal solito, evidentemente più contaminata e più a contatto col pubblico. È questo il futuro dell’opera? In parte, si spera. E, in parte, si spera che questo rinnovamento possa riportare anche l’orchestra al centro della scena, senza fare passi indietro verso regie manierate e polverose. Di recente, Quirino Principe, mi ha ricordato la devastante potenza eversiva della musica: se dobbiamo portare avanti una rivoluzione, non mi pare il caso di relegare in fondo al cassetto un’arma così potente. Foto Carlo Pozzoni