Roma: “La Traviata” alle Terme di Caracalla

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2017/2018, Terme di Caracalla
“LA TRAVIATA”
Opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, da La Dame aux camelias di Alexandre Dumas figlio.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry VALENTINA VARRIALE**
Flora Bervoix  IRIDA DRAGOTI*
Annina  RAFAELA ALBUQUERQUE*
Alfredo Germont GIULIO PELLIGRA
Giorgio Germont  MARCELLO ROSIELLO
Gastone, Visconte di Létorières MURAT CAN GUVEM*
Il Barone Douphol ROBERTO ACCURSO
Il marchese D’Obigny DOMENICO COLAIANNI
Il Dottor Grenvil GRAZIANO DALLAVALLE
** diplomata progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra,Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Yves Abel
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Lorenzo Mariani
Scene  Alessandro Camera
Costumi Silvia Aymonino
Movimenti Coreografici Luciano Cannito
Luci Roberto Venturi
Video a cura di Fabio Iaquone, Luca Attili
Nuovo allestimento
Roma, 06 luglio 2018
Spettacolo inaugurale della stagione operistica estiva delle Terme di Caracalla questo nuovo allestimento de La traviata di Verdi, affidato alla direzione del maestro Yves Abel ed alla regia di Lorenzo Mariani. L’idea del regista è quella di ambientare la vicenda negli anni della dolce vita romana, con ampie citazioni cinematografiche ovviamente tratte dal film Fellini. Violetta diviene così una diva del cinema che deve ricevere un premio, assediata costantemente da paparazzi, la sua casa nel primo atto viene trasformata in via Veneto, il secondo atto anziché in campagna è collocato in una imprecisata località marina che sembrerebbe suggerire le mete del divertimento più in voga in quegli anni immortalate dal cinema coevo o forse, chissà, la spiaggia di Capocotta teatro di festini e del triste e mai chiarito delitto Montesi che tanto turbò l’opinione pubblica dell’Italia del dopoguerra. La festa a casa di Flora si svolge all’insegna del più spinto cattivo gusto con la padrona di casa in tenuta sado-maso e con Alfredo e il Barone che si sfidano a carte seduti a terra nonostante i numerosissimi tavolini di cui è riempita la scena. Nel finale secondo dopo varie corsette per il palcoscenico i protagonisti cantano abbracciati il concertato ingenerando in una parte del pubblico, evidentemente ignaro della vicenda e avvezzo ad affidarsi alle sole immagini, l’idea erronea  che la storia sia finita e una volta tanto anche bene, con una bella rappacificazione. Forse un involontario, inconscio antidoto a tanta disperata negatività. L’epilogo infine si svolge tra le rovine della scenografia del primo atto, con i paparazzi schierati a guisa di avvoltoi e con Violetta che riesce a stare molto in piedi e anche a salire per un attimo su una vespa per sognare di lasciare Parigi insieme al suo Alfredo nonostante l’imminenza della morte, probabilmente grazie all’endovenosa praticatagli dal dottore senza laccio emostatico, vero virtuosismo di tecnica sanitaria. Passando dal faceto al serio, se proprio non si riesce a resistere alla tentazione di trovare una collocazione temporale per forza diversa da quella prevista o di sovrapporre perfidamente alla trama altre vicende inventante di sana pianta e con un grado di compatibilità che va spesso ben oltre il plausibile, questa volta il parallelismo tra il mondo in cui si svolge la storia di Violetta ed Alfredo e gli anni ed il clima della dolce vita poteva anche presentare dei motivi di indubbio interesse. Quello che convince poco di questo spettacolo è la sostanziale scarsa capacità di emozionare, mantenendo il filo della narrazione sempre molto in superficie, diluendo la tensione drammatica a livelli omeopatici con azioni inutili, citazioni, passeggiate per la scena e trovate varie, talvolta per la verità anche gradevoli. Difficile cogliere l’intimo strazio contenuto nelle terribili parole che Violetta pronuncia nel duetto con Germont padre, mentre la si vede aggiustare gli asciugamani sui lettini da mare o chiudere l’ombrellone. Nel concertato che conclude il secondo atto per un istante si ha quasi l’impressione di doverla cercare tra le masse che affollano la scena. E anche la psichedelica scarica di flash dei paparazzi del finale sulla salma di Violetta, ruba la scena alla sintetica capacità espressiva della musica, togliendo alla protagonista ogni grandezza e possibilità di redenzione nella morte, forse in questo volendo costituire un ulteriore rimando alla assoluta mancanza di speranza espressa ne La Dolce Vita di Fellini. Certo La Traviata è un’opera che forse meno di altre si presta ad essere allestita in un grande teatro all’aperto  oppure può darsi che questa sia stata una scelta voluta visto il tipo di pubblico che in gran parte frequenta Caracalla e al quale è giustamente destinata la produzione. Però viene anche il lecito dubbio che una platea con una rispettabilissima poca familiarità per il mondo di Dumas, di Verdi e via dicendo, con buona probabilità  ignori anche la cinematografia di Federico Fellini. Belli e molto curati i costumi di Silvia Aymonino.
Yves Abel ha diretto l’orchestra con  estrema chiarezza nella concertazione, equilibrio formale ed un ritmo narrativo incalzante, sempre teso ma mai frettoloso. Difficile apprezzare appieno la tavolozza timbrica ed i colori voluti in una situazione all’aperto e di amplificazione del suono ma le intenzioni sono apparse molto belle e dense di significato e di poesia.  Soprattutto notevole è stata la capacità di accompagnare e sostenere sempre il canto. Ottima la prova del coro diretto da Roberto Gabbiani. E veniamo agli interpreti di questa serata romana. Protagonista è stata Valentina Varriale, dalla voce gradevole sia pure con un registro acuto nell’insieme poco sonoro, diplomata dal progetto “Fabbrica” dell’Opera di Roma. Si avverte in lei una grande serietà nella preparazione di questo difficile ruolo, con una lodevole e estrema attenzione alla cura di ogni dettaglio ma con un’ancora insufficiente capacità di trovare quella sintesi che consente di raggiungere appieno la verità e la profondità espressive. Superato indenne lo scoglio delle agilità del primo atto, per volume troppo esiguo non riesce ad accendere l’atteso fuoco d’artificio dell’ ”Amami Alfredo”, ma nell’ultimo atto, forse grazie ad una scrittura più centrale, ha trovato accenti convincenti e veritieri ma lungi dal suscitare commozione, in gran parte anche grazie all’impostazione della regia. Alfredo era impersonato dal tenore Giulio Pelligra, che ha risolto la parte con qualche acuto ben emesso e un fraseggio sostanzialmente rigido e avaro di messe di voce e colori, ma nel complesso in modo corretto. Germont padre è stato il baritono Marcello Rosiello, dalla voce apparentemente chiara nel timbro ma morbida, omogenea e ricca di sfumature, sempre per quanto è concesso di apprezzare all’aperto e con l’amplificazione. Alcuni pianissimi erano al limite dell’udibile per evidenti ragioni ambientali ma ottima è apparsa la sintonia con le sonorità dell’orchestra e nel complesso più che notevoli sono sembrate la musicalità esibita e la evidente  padronanza del personaggio. Disordinata e generica è risultata  la vocalità di Irida Dragoti, interprete di Flora.  Tutti su un piano di generica mediocre correttezza gli interpreti degli altri ruoli, dei quali comunque talvolta era difficile cogliere gli interventi individuali nell’insieme dell’impianto registico. Alla fine lo spettacolo è stato accolto con favore dal pubblico che ha applaudito con entusiasmo, nonostante i lunghissimi intervalli previsti abbiano simpaticamente trasformato la sintesi verdiana de “La Traviata” in una piacevole serata dai tempi wagneriani.   Foto Yasuko Kageyama