Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: “Rigoletto”

Teatro del Maggio Musicale FiorentinoStagione 2018-2019
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Il Duca di Mantova IVÀN AYÒN RIVAS
Rigoletto YNGVE SØBERG
Gilda GESSICA NUCCIO
Sparafucile GIORGIO GIUSEPPINI
Maddalena MARINA OGII
Giovanna GIADA FRASCONI
Il Conte di Monterone CARLO CIGNI
Il Cavaliere Marullo MIN KIM
Matteo Borsa GYUSEOK JO
Il Conte di Ceprano ADRIANO GRAMIGNI
La Contessa di Ceprano MARTA PLUDA
Un usciere VITO LUCIANO ROBERTI
Un paggio COSTANZA FONTANA
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Fabio Luisi
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Francesco Micheli
Regista collaboratore Benedetto Sicca
Scene Federica Parolini
Costumi Alessio Rosati
Luci Daniele Naldi
Firenze, 26 settembre 2018
Prosegue con Rigoletto la trilogia popolare verdiana in programma questo autunno al Teatro del Maggio. Il progetto prevede l’andata in scena dei tre titoli Il Trovatore – Rigoletto – La Traviata in rapida successione, alternati nelle repliche, affidati al medesimo staff registico e alla direzione di Fabio Luisi, Direttore musicale del teatro cittadino.
A sottolineare l’italianità di Verdi e il lavoro svolto dalle sue opere nel “fare gli italiani”, Francesco Micheli ha deciso di aprire ogni rappresentazione mostrando una bandiera tricolore composta da tre grandi schermi luminosi, dei quali poi uno solo rimane in scena e accompagna il corso della recita suggerendo con il suo colore il carattere, l’ambiente materiale e morale in cui si sviluppa la vicenda.
Il colore di Rigoletto è il verde, il verde della rabbia e della vendetta, il verde delle acque del Mincio che allargandosi in palude cinge la città di Mantova e fa da teatro agli eventi sanguinosi del terzo atto.
Un altro elemento simbolico, oltre al colore verde, è usato senza parsimonia: la maschera della finzione e dell’inganno.
I cortigiani usano una maschera per compiacere al sovrano e quando se la sfilano ne hanno un’altra disegnata sul volto, a rimarcare il fatto che il loro servilismo ha cancellato qualsiasi identità; Rigoletto indossa una maschera quando è a corte, perché anch’egli deve risultare gradito per mantenere il suo ruolo sociale; Gilda indossa una maschera per apparire la figlia casta e innocente che il padre desidera e occultare il suo sentimento colpevole. Tutti i personaggi simulano, Sparafucile nasconde lo spadino del sicario in un mazzo di rose che lo fa apparire un venditore di fiori; di sua sorella Maddalena è ovvia la doppiezza nella seduzione mortale. Persino Giovanna è raffigurata in maniera sgradevolmente ipocrita, apparentemente perfetta nel suo ruolo di custode della virtù di Gilda, in realtà venduta al Duca.
È una sottolineatura intelligente, che mette in luce un aspetto importante, ma il ricorso al simbolo è a tratti troppo insistito, è un continuo armeggiare con le maschere, un mettere e togliere che si trasforma in un tic e perde forza espressiva: Rigoletto in alcune scene ne porta addirittura due, inspiegabilmente sui gomiti, e nel finale, mentre Gilda sta spirando, lui si distrae, ancora una volta per dedicarsi alle maschere, toglierle, gettarle, e tirarne fuori una per la figlia, da indossare proprio nell’istante della morte. L’unico personaggio libero dalle finzioni è il Duca, che, forte del suo potere, può dare sfogo ad ogni capriccio con entusiasmo fanciullesco, curiosamente assecondato dalla Duchessa, spesso presente in scena e solo blandamente infastidita dalle scappatelle del marito, che alla fine torna sempre tra le sue braccia. Le scene di Federica Parolini, come già nel Trovatore, sono scarne ed efficaci, quasi totalmente costituite da pannelli che irradiano luce di diversi colori, montati su strutture metalliche continuamente mosse per il palcoscenico a ricostruire in maniera essenziale gli interni. Di fondamentale importanza in tale concezione è l’illuminazione di Daniele Naldi. Non si imprimono particolarmente nella memoria i costumi atemporali, ma anche un po’ anonimi, di Alessio Rosati.
Fabio Luisi concerta e dirige con finezza e personalità, con la consueta libertà agogica e dinamiche ampie fino al massimo turgore senza mai un’ombra di volgarità o di eccesso; particolarmente notevole è l’accompagnamento al canto nella scelta dei tempi e nel fraseggio che respira insieme all’interprete con grande sintonia e comunione di intenti. Bellissime ad esempio sono le varie sezioni della scena Gilda-Rigoletto, l’intensità di “Deh, non parlare al misero” così asciutto e ripulito dai luoghi comuni, la precisione e la morbidezza sonora del successivo duettino “Quanto dolor”, la libertà coniugata alla sobrietà, in poche parole la giustezza di fraseggio, in “Veglia o donna”; allo stesso modo, magico è il finale di “Caro nome” anche grazie all’apporto felpato del Coro, pieno di elettricità il guizzare degli archi, sempre con suono di assoluta pulizia, in “Cortigiani, vil razza dannata” e così via.
In una lettura così finemente calibrata stupiscono alcune sbavature nel Preludio, e qualche uscita dai binari della quadratura nel concertato “Ah sempre tu spingi” da parte del Coro, altrove impeccabile.
Nel cast vocale spicca l’emissione morbida e levigatissima di Jessica Nuccio nei panni di una Gilda di grande delicatezza, dal timbro adolescenziale, ma dalla notevole proiezione, capace di smorzature e pianissimi aerei, legato perfetto e perfetta intonazione. Il bagaglio tecnico è del tutto adeguato anche alla parte virtuosistica del ruolo. La sua è un’interpretazione misurata che si estrinseca tutta dentro le note e prende vita nella bellezza canora.
Sul versante opposto si colloca il Rigoletto di Ingve Søber, dal canto non impeccabile, specie nella salita, ma dallo strumento imponente e dalla forte personalità; se il timbro non è sopraffino, con qualche opacità e qualche inflessione nasale, l’interprete è sempre potente, anche scenicamente, il fraseggio è accorato e vario, la dizione ottima, il gusto molto equilibrato; si tratta in definitiva di un protagonista molto interessante, sorprendentemente maturo, trattandosi del debutto nel ruolo.
Piuttosto spettacolare vocalmente è il Duca di Ivàn Ayòn Rivas, per il timbro interessante, pieno e ombreggiato e per la spavalderia e lo squillo del registro acuto, uniti al brio scenico; peccato che il suono, anziché galleggiare sul fiato, sia spinto, cosicché nei tentativi di cantare piano perda l’appoggio, mettendo a rischio anche l’intonazione, come succede nel duetto con Gilda, che però viene concluso senza problemi con un facile e squillante re bemolle non scritto, ma di tradizione.
Giorgio Giuseppini è uno Sparafucile dal timbro più chiaro di quello di Rigoletto, ma il suo canto è sicuro e incisivo, le discese al grave sufficientemente sonore, il personaggio che ne emerge è roccioso e temibile. Maddalena ha la presenza scenica seducente di Marina Ogii, ma voce che stenta a correre per la sala e di ciò risente l’equilibrio sonoro del Quartetto “Bella figlia dell’amore”.Carlo Cigni è un Monterone autorevole; molto interessante, anche nella recitazione, è la Giovanna di Giada Frasconi. Tutte adeguate risultano le parti minori. L’apprezzamento del pubblico è evidente, Jessica Nuccio raccoglie applausi e ovazioni in quantità, ma tutto il terzetto dei protagonisti è festeggiato affettuosamente insieme al direttore. Foto Pietro Paolini-TerraProject-Contrasto.