Torino: “Il trovatore” inaugura la stagione lirica del Teatro Regio

Torino, Teatro Regio, stagione d’opera 2018-2019
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro parti su libretto di Salvatore Cammarano dall’omonimo dramma di Antonio García-Gutiérrez.
Musica di Giuseppe Verdi
Leonora RACHEL WILLIS-SØRENSEN
Manrico DIEGO TORRE
Azucena ANNA MARIA CHIURI
Il Conte di Luna MASSIMO CAVALLETTI
Ferrando IN-SUNG SIM
Ines ASHLEY MILANESE
Ruiz PATRIZIO SAUDELLI
Un vecchio zingaro DESARET LIKA
Un messo LUIGI DELLA MONICA
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del coro Andrea Secchi
Regia Paul Curran
Scene e costumi Kevin Knight
Luci Bruno Poet
Allestimento Teatro Comunale di Bologna
Torino, 10 ottobre 2018 (inaugurazione della stagione d’opera)
Nel giorno del 205° compleanno di Verdi, il Teatro Regio di Torino ha inaugurato la propria nuova stagione d’opera nel nome del compositore di Busseto. Doveva essere Siberia di Giordano, secondo i progetti della passata gestione del teatro; poi, la scoperta di un buco di bilancio, le dimissioni del sovrintendente Walter Vergnano con conseguente decadenza del direttore artistico Gaston Fournier-Facio e l’allontanamento volontario del direttore musicale Gianandrea Noseda hanno completamente decapitato i vertici del Regio, e la nuova direzione, nelle persone di William Graziosi (sovrintendente) e Alessandro Galoppini (direttore artistico), ha ritenuto opportuno rimettere mano al cartellone, sostituendo la rarità con uno dei titoli più gettonati di questo periodo. Si tratta, quindi, di un Trovatore lastminute, organizzato in tarda primavera; e chiunque conosca le difficoltà vocali che questo titolo presenta può intuire come, all’azzardo di proporre un’opera sconosciuta, si sia sostituito l’azzardo di allestirne una celeberrima in condizioni di “emergenza”. Se nel primo caso ci si chiede quanti spettatori affluiscano al teatro, nel secondo ci si deve domandare quanto ne escano soddisfatti gli ascoltatori più esigenti. Diciamo subito che sarebbe sicuramente potuta andare molto peggio, anche se la perfezione è un’altra cosa. La regia di Paul Curran, nata al Comunale di Bologna, sceglie di spostare la vicenda all’epoca del Risorgimento e punta molto sull’effetto visivo delle inquadrature di taglio cinematografico che si formano sul palcoscenico, con costumi eleganti e scenografie semplici ma evocative. I movimenti registici, di taglio tradizionale, alternano scene azzeccate nel loro realismo (come quella in cui Leonora confonde il Conte con Manrico) ad altre che lasciano alcune perplessità, quali il confusionario miscuglio di monache e uomini armati nel finale II, o la forza fisica mostrata da Azucena nel III atto, laddove dovrebbe pregare di allentare la stretta delle corde che la tengono legata. La direzione di Pinchas Steinberg impone sicuramente un sigillo personale a questa produzione, nel bene così come nel male. Nel bene, perché riesce sempre a gestire con oculatezza il rapporto tra buca e palcoscenico, compatibilmente con i volumi vocali degli interpreti; solo di rado si percepisce qualche disequilibrio da perfezionare nelle recite. Ma soprattutto per un’altra ragione: alla presentazione dello spettacolo, il 3 ottobre, Steinberg aveva sottolineato l’importanza da lui data all’interpretazione della parola (la «parola scenica» di conio verdiano), per la quale richiede agli interpreti un’attenzione particolare, lavorando con loro al pianoforte. Ebbene, questa parola è emersa con particolare vividezza, anche da interpreti non madrelingua, e si può affermare che sia uno dei più significativi apporti esecutivi di questa produzione. Non si può però tacere che Steinberg abbia promosso, o almeno avallato, un’esecuzione ampiamente tagliata, in cui pressoché ogni possibile ripetizione è saltata. E spiace sapere – dalle recensioni di fidati colleghi – che lo stesso sia avvenuto a Firenze nelle scorse settimane, con un direttore altrettanto importante sul podio. Il ritorno a un Verdi “tagliato”, tanto più nel titolo in cui il compositore torna con rigore alle forme del melodramma belcantistico-romantico italiano, non è ciò che si può auspicare da un grande teatro. L’attenzione alla parola è risaltata in particolare nell’interpretazione di Rachel Willis-Sørensen, soprano americano chiamata a incarnare Leonora: così, le emozioni del personaggio, dalla trepidazione del primo atto alla risoluta dolcezza del quarto, si stagliano con nitore. Lo strumento è di timbro gradevole e l’intonazione curata, anche se qualche acuto manca del dovuto sostegno, e le agilità delle cabalette piacerebbero un po’ più incisive. Più che rodata è l’Azucena di Anna Maria Chiuri, al cui ingresso in scena si è percepito un innalzamento della temperatura emotiva della rappresentazione. Il mezzosoprano sa alternare le opportune tinte ombrose dei suoi racconti allucinati all’infinita dolcezza materna del confronto con Manrico – specie dove gli ricorda «quante cure» abbia impiegato per farlo guarire –, e ricorrere a scelte dinamiche oculate. Il tenore protagonista è Diego Torre, il quale, con il suo strumento di pasta opaca e timbro poco ammaliante, risulta decisamente più a proprio agio nei passi eroici che in quelli di grazia: più «Pira», insomma, che «Ah sì, ben mio». Massimo Cavalletti è un baritono di voce chiara, che valorizza la sensualità della figura del Conte di Luna, come emerge dagli ornamenti sinuosi del cantabile del secondo atto; ma latita un po’ nel mordente, dove ci si aspetterebbe una più forte impronta volitiva, come nell’attacco di «Per me ora fatale». Il primo quadro è brillato per l’eccellente coro maschile, dalle cupe note gravi – Coro che si è distinto in tutta la partitura, e specie nell’esprimere la personalità dei soldati nel III atto –, più che per la presenza di Ferrando (il basso In-Sung Sim). Tra le seconde parti merita una menzione il vecchio zingaro di Desaret Lika. Completavano professionalmente il cast: Ashley Milanese (Ines), Patrizio Saudelli (Ruiz), Luigi Della Monica (Un messo). Al termine dello spettacolo, applausi per tutti. Prima che l’opera avesse inizio, il sipario si è aperto su un gruppo di lavoratori del Regio, che hanno letto un comunicato nel quale hanno annunciato di rinunciare per senso di responsabilità allo sciopero che era stato ventilato, esprimendo al contempo la propria preoccupazione per la situazione in cui versa il teatro e le prospettive di “ristrutturazioni” dolorose per personale e pubblico. Infatti, il buco di bilancio strutturale del teatro si è recentemente ingrandito a causa del taglio del contributo FUS, e le promesse di aiuto dei politici paiono vincolate a “piani industriali di sviluppo” ancora da studiare, che dovrebbero risanare i bilanci per il futuro, ma che si teme possano mettere a rischio i posti di lavoro dei dipendenti e la qualità artistica del Regio. Il quadro, insomma, al momento non è roseo, e non basta sostituire Siberia con Il trovatore per far ripartire su binari sicuri la Fondazione. Foto Edoardo Piva