Venezia, Teatro La Fenice: “Semiramide” chiude la Stagione lirica 2017-2018

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 2017/2018
SEMIRAMIDE”
Melodramma tragico in due atti su libretto di Gaetano Rossi, dalla “Tragédie de Sémiramis” di Voltaire.
Musica di Gioachino Rossini
Semiramide JESSICA PRATT
Arsace TERESA IERVOLINO
Assur ALEX ESPOSITO
Idreno ENEA SCALA
Azema MARTA MARI
Oroe SIMON LIM
Mitrane ENRICO IVIGLIA
Nino FRANCESCO MILANESE
Orchestra e coro del Teatro La Fenice
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Cecilia Ligorio
Scene Nicolas Bovey
Costumi Marco Piemontese
Light designer Fabio Barettin
Movimenti coreografici Daisy Ransom Phillips
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice. Progetto Rossini nel 150° anniversario della morte
Venezia, 25 ottobre 2018
Gioachino Rossini è un Giano bifronte, che da una parte contempla il passato, facendosene sublime custode e interprete, dall’altra rivolge il proprio sguardo profetico verso il futuro, anticipando quelli che saranno i caratteri del melodramma romantico e costituendo, in particolare, un esempio imprescindibile per Donizetti, Bellini e Verdi. Tale è il Rossini che emerge in Semiramide. Ciò che colpisce immediatamente è la modernità, la raffinatezza dell’orchestrazione, diffusamente caratterizzata da un suono pieno e brillante e la forza drammatica di taluni personaggi – soprattutto quello di Assur –, che aprono decisamente ai successivi sviluppi del teatro musicale.  Semiramide è certamente influenzata dall’esperienza partenopea, ma guarda nello stesso tempo a un melodramma precedente a quel periodo, Tancredi. Nell’opera domina il belcanto, uno stile vocale, ampiamente collaudato, basato sull’artificio tecnico – ma non per questo ritenuto da Rossini inadeguato a corrispondere alle necessità drammatiche – con cui l’autore intende contrapporsi al detestato realismo romantico. Tuttavia, come si è dianzi accennato, non mancano le novità sul piano formale: così, ad esempio, il virtuosismo della parte di Idreno convive con la nuova espressività, intensamente drammatica di Assur. Ne deriva un’opera complessa, che richiede agli esecutori – compreso il coro, un impegno straordinario. Ci vuole, dunque, una buona dose di coraggio, unita alla disponibilità di artisti e maestranze di alto livello, per decidere di mettere in scena un simile spettacolo. Il Teatro La Fenice ci è riuscito. Altissimo, in generale, il livello dello spettacolo, che per una volta si basa su una concezione registica, essenziale ma non banale, che asseconda la drammaturgia senza prevaricazioni o forzature di sorta. La promettente regista Cecilia Ligorio – coadiuvata da Nicolas Bovey per le scene, da Marco Piemontese per i costumi, da Fabio Barettin per le luci e da Daisy Ransom Phillips per le coreografie – gioca su un contrasto elementare: quello tra luce e oscurità. Così la scena, nel primo atto, è dominata da una luminosità diffusa, che si riflette sui fondali dorati, sui garbati arredi floreali, sulla pietra bianca, di forma circolare, che indica l’entrata del sepolcro di Nino, sui personaggi con i loro misurati movimenti coreografici e i loro fantasiosi costumi, riconducibili a un eclettismo di forme senza tempo. Ma l’atmosfera apollinea si dissolve repentinamente all’apparizione dell’ombra di Nino, indossante una sorta di tuta e una corona nere vagamente lucide, che gli conferiscono l’aspetto inquietante di un alieno. In un’oscurità pressoché impenetrabile è immerso, invece, il secondo atto, dalla scena quasi completamente spoglia, dove anche i costumi sono in prevalenza neri, luttuosi e i personaggi sono preda di movimenti spesso eccessivi, incontrollati come le passioni che li determinano. Eccelsa la parte musicale dello spettacolo. Riccardo Frizza – confermatosi un direttore dal gesto incisivo e nello stesso tempo capace di esprimere una raffinata sensibilità – ci restituisce appieno i pregi di questo lavoro – elegante, originale e, insieme, aderente alla tradizione – proposto meritoriamente in versione integrale senza tagli. Nessun miglior omaggio poteva essere tributato al Pesarese nel centocinquantenario della morte, per la cui celebrazione è anche esposta nelle Sale Apollinee la partitura autografa dell’opera, autenticata, di suo pugno, da Rossini a Parigi nel 1864. Frizza ha staccato dei tempi diffusamente spediti senza mai perdere il senso della misura. Equilibrate sono risultate, in genere, anche le sue scelte dinamiche, il che ha permesso di dare adeguato rilievo alle voci. Unica eccezione forse la sonorità dei timpani talora veramente poderosa, come nel momento dell’apparizione dell’Ombra di Nino. Ineccepibile sempre l’orchestra, le cui varie sezioni si sono messe in luce per l’armoniosa brillantezza del suono. Eccellente il cast. Jessica Pratt, nel ruolo del titolo, si è confermata una grande belcantista – svettando negli acuti e brillando nei passaggi di coloratura, per quanto la parte – concepita da Rossini per una tessitura che si spinge anche nel registro medio-grave – non fosse del tutto calzante rispetto alla vocalità della Pratt, che ha tratteggiato una figura fragile, più che di una “Semiramìs lussuriosa”. Di spicco  Teresa Iervolino – nel ruolo en travesti di Arsace,  per l’eleganza del fraseggio, la lucentezza perlacea del timbro, l’omogeneità dei vari registri. La cantante ha galvanizzando il pubblico fin da “Eccomi alfine in Babilonia”, riuscendo a delineare un personaggio eroico e, nel contempo, inquieto ed imponendosi per il suo modo, impeccabile quanto espressivo, di affrontare le agilità. Autorevole, nella sua profonda tragicità, l’Assur di Alex Esposito, che cammina aiutandosi con un bastone – una necessità in seguito a una caduta, poi utilizzata dalla Ligorio, per conferire un tratto espressionistico al personaggio. Esposito ha sfoggiato una voce piena e ben timbrata, rivelandosi intensamente espressivo, dibattendosi tra ira e sensi di colpa, nei recitativi come nel canto, che assume spesso caratteri simili a quelli di un declamato drammatico. Si è segnalato, in particolare in “Deh… ti ferma… ti placa… perdona…”. Brilla anche l’Idreno di Enea Scala – un personaggio assente in Voltaire e quindi non funzionale al dramma – che indossava un improbabile costume rosso cupo, simile a quello di un ufficiale ai tempi di Napoleone III. Scala ha nelle sue due arie ha dimostrato estrema naturalezza nelle pirotecniche colorature come negli acuti e sopracuti. Una voce potente ha sfoggiato Simon Lim, un Oroe bendato come un Tiresia, che univa la solennità sacerdotale alla sofferenza di fronte all’abominio. Terrifica la voce (amplificata) dell’ottimo Francesco Milanese (Nino), che canta dietro le quinte. Molto bene si sono comportati anche Marta Mari (Azema) e Enrico Iviglia (Mitrane). Impeccabile ed espressivo il coro. Successo pieno e caloroso con ripetute chiamate e ovazioni per i ruoli principali. Foto Michele Crosera