“Elektra” di Strauss al Teatro alla Scala

Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera e di Balletto 2017-2018
“ELEKTRA”
Tragedia in un atto su libretto di Hugo von Hofmannsthal
Musica Richard Strauss
Klytämnestra WALTRAUD MEIER
Elektra RICARDA MERBETH
Chrysothemis REGINE HANGLER
Aegisth ROBERTO SACCÀ
Orest MICHAEL VOLLE
Der Pfleger des Orest FRANCK VAN HOVE
Die Aufseherin / Die Vertraute RENATE BEHLE
Ein junger Diener MICHAEL LAURENZ
Ein alter Diener ERNESTO PANARIELLO
Erste Magd BONITA HYMAN
Zweite Magd / Die Schleppträgerin JUDIT KUTASI
Dritte Magd VIOLETTA RADOMIRSKA
Vierte Magd ANNA SAMUIL
Funfte Magd ROBERTA ALEXANDER
Dienerinnen LUCIA ELLIS BERTINI, SILVIA MAPELLI, MARIA BLASI, ROMINA TOMASONI, MARIA MICCOLI, JULIA SAMSONOVA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Markus Stenz
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Regia Patrice Chéreau ripresa da Peter Mc Clintock
Scene Richard Peduzzi
Costumi Caroline De Vivaise
Luci Dominique Bruguière riprese da Marco Filibeck
Produzione Teatro alla Scala, in coproduzione con Festival d’Aix-en-Provence; Metropolitan Opera, New York; Finnish National Opera, Helsinki; Staatsoper Unter del Linden, Berlin; Gran Teatre del Liceu, Barcelona
Milano, 23 novembre 2018

Anche nella storia della Scala Elektra si caratterizza come opera che necessita di due personalità artistiche eccezionali: il soprano protagonista e il direttore d’orchestra; entrambi devono sorreggere le infinite ondulazioni di un poema sinfonico o le difficoltà di una parte vocale tra le più complicate di tutto il repertorio (in primo luogo perché il personaggio è sulla scena praticamente dall’inizio alla fine, senza un minuto di riposo). Edoardo Vitale e Salomea Krusceniski (nel 1909, prima rappresentazione in Italia), Ettore Panizza e Giulia Tess (1932), Dimitri Mitropoulos e Christel Goltz (1954), Giuseppe Sinopoli e Gabriele Schnaut (1984) sono solo alcune delle coppie formidabili che hanno segnato questa storia. Ugualmente affascinante era quella annunciata a conclusione dell’attuale stagione: Christoph von Dohnányi e Ricarda Merbeth. Purtroppo il Maestro Dohnányi, che da poco ha compiuto 89 anni, dopo la prima dello scorso 4 novembre non si è sentito bene ed è rientrato a Monaco per ricevere l’assistenza del suo medico. Markus Stenz, che in queste settimane dirige alla Scala la prima produzione assoluta di Fin de partie di Kurtág, ha accettato l’incarico di sostituire Dohnányi, ereditando così il suo prezioso lavoro di concertazione con orchestra e cantanti. L’esito di ogni recita è di qualità altissima, sia grazie all’impegno degli interpreti sia per la generale coerenza e chiarezza di intenti dello spettacolo, condivisa da direttore, regista e complessi. Calibrata nella misura delle sonorità, l’Orchestra del Teatro alla Scala non eccede in alcun effetto prevedibile; Stanz opta per la valorizzazione dei distinti colori, senza propendere per soluzioni ricorrenti, e persegue con ottimi risultati la resa sgranata di ogni disegno e motivo. Sul palcoscenico Ricarda Merbeth è un’Elektra eccellente: se all’inizio la voce risuona con un vibrato largo che distrae un poco l’ascolto, l’emissione migliora rapidamente, diventando stabile e massiccia nel grande monologo di invocazione del padre; la metà inferiore del registro non occulta qualche asperità, del resto funzionale al carattere del personaggio. Anche quando non canta, la Merbeth offre una recitazione rimarchevole, per esempio ascoltando e reagendo in termini emotivi alla confessione della madre; ma l’apice dell’intensità è nelle frasi di dialogo con Orest, durante la scena di riconoscimento del fratello. Un’ultima prova della duttilità della voce della Merbeth risplende nei toni insinuanti del duettino con Aegisth, in prossimità del finale, quando l’emissione richiama quella di un Mime in vesti femminili. Rispetto ad Elektra, la voce di Chrysothemis è più piccola e decisamente più lirica, a tratti quasi soave nella prova di Regine Hangler, dal porgere fresco e ingenuo. Per questo, il contrasto delle differenti temperature vocali risulta di grande effetto: calda e angosciosa quella della protagonista, più limpida e chiara, quasi libera di ogni dramma, quella della sorella (i cui acuti, però, non sono sempre irreprensibili). Ancora differente, vieppiù icastica, la voce della terza donna che compare sulla scena, una splendida Waltraud Meier nelle vesti regali di Klytämnestra: la sua emissione risuona schiacciata verso il basso, oscura, petrosa, causa e presagio di lutto. Da cantante straordinaria e perfetta conoscitrice dei vari ruoli dell’opera (interpretò per la prima volta Klytämnestra nel 2010), la Meier porge una regina profondamente umana: tutta la crudeltà e la freddezza sono sostituite da fragilità e paura. Michael Volle è un Oreste solenne e incisivo, la cui voce si proietta con grandezza, degna ipostasi paterna nel ruolo del vendicatore. Anche tutti gli altri comprimari, comunque, sono interpreti più che adeguati alle esigenze vocali della partitura: spiccano in particolare i tenori Michael Laurenz (un Servo giovane tutto esuberanza e zelo per i traditori) e Roberto Saccà (con tono volitivo e arrogante, un Aegisth perfetto). La celebre regia di Patrice Chéreau (nata per il Festival di Aix-en-Provence nel 2013, anno della morte del regista), ripresa da Peter Mc Clintock, si conferma perfetta nella meticolosa liturgia dei corpi sulla scena e nella naturalezza di ogni movimento, individuale o collettivo (anche l’ultima delle serve della reggia degli Atridi acquista una sua personalità; come per i personaggi principali, non c’è momento in cui la presentazione fisica ed emotiva di ogni carattere sia aleatoria). Il pubblico, dal canto suo, dopo l’ultimo trascendente accordo di danza e di morte, tentenna un attimo, poi libera un applauso sempre più marcato, festeggiando progressivamente tutti gli artisti, in particolare i tre soprani e il direttore d’orchestra. Le scene di Richard Peduzzi raffigurano una Micene che non ha nulla di oleografico, ciclopico o misterioso: niente mura massicce, niente Porta dei Leoni, monoliti, maschere di Agamennone, tombe a tholos o altre suppellettili archeologistiche di facile identificazione visiva; il palcoscenico apre su di un cortile contornato da alti muri color pastello, pochi gradini, panche e porte praticabili, in un ambiente luminoso che non suscita alcun sentimento di orrore. Ed è scelta perfetta, giacché la tragedia, il míasma che tutto contamina e ammorba, non ha origine nello spazio fisico, ma in quello mentale, nel cuore e nelle viscere dell’uomo. La danza finale di Elektra (quella “che non ha nome”, secondo il libretto: «ein namenloser Tanz») inanella una serie di movimenti scomposti, che soltanto in minima parte si armonizzano, come è tipico di chi ha perduto l’equilibrio mentale ma vorrebbe ancora ostentare quello fisico; eppure, questa stessa celebrazione, quasi goffa e primitiva, si impone come un macigno sulla piccolezza delle ancelle, accasciate a terra nella corte del palazzo. Il generale silenzio esprime al tempo stesso l’orrore di chi adesso ha paura e la felicità – anch’essa eccessiva e dunque sventurata, mortifera – di chi troppo si compiace della violenza inferta: «Wer glücklich ist wie wir, dem ziemt nur eins: schweigen und tanzen!», “Chi come noi è felice, deve solo / tacere e danzare!”.   Foto © Teatro alla Scala