“Attila” al Teatro alla Scala di Milano

Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera e Balletto 2018-2019
“ATTILA”
Dramma lirico in un prologo e tre atti su libretto di Temistocle Solera e Francesco Maria Piave
Musica Giuseppe Verdi
Attila ILDAR ABDRAZAKOV
Ezio GEORGE PETEAN
Odabella SAIOA HERNÁNDEZ
Foresto FABIO SARTORI
Uldino FRANCESCO PITTARI
Leone GIANLUCA BURATTO
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro dei cori Bruno Casoni
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Antonio Castro
Video D-Wok
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 21 dicembre 2018

Tra la denuncia di una «nuova trama», la nostalgia di «patria ed amante» perdute e la speranza in una «superna vendetta», l’Attila verdiano si chiude con un plateale tirannicidio che, evidentemente, accontenta la rilettura storiografica soltanto in parte. Ma la musica di Verdi vince sempre; oggi ancor più del solito, grazie anche all’edizione critica della partitura, a cura di Helen M. Greenwald, per la prima volta eseguita a Milano. Le inaugurazioni scaligere con un titolo verdiano diretto da Riccardo Chailly risalgono ormai al Sant’Ambrogio del 2006 (Aida), e ogni volta propongono letture e riflessioni musicali di altissimo livello. Dopo la Giovanna d’Arco del 2015, Attila rappresenta il secondo titolo di una “trilogia risorgimentale” (sono parole del direttore) culminante nel Macbeth. Questa singolare prospettiva storiografica di Chailly influisce nell’analisi della partitura, per esempio, con la sottolineatura delle convenzionalità ritmiche di marce e cori, senza il timore di tempi rallentati, con cui il direttore ottiene una forma più credibile e godibile. L’enfatico duetto del Prologo tra Ezio e Attila, «Tardo per gli anni e tremulo», è staccato con un tempo che favorisce la solennità del declamato. Gli archi e i loro disegni calligrafici sono sempre meravigliosi (quasi schubertiani nel quartetto finale), perché costante è la ricerca della trama e dei colori, anche al fine di accostare timbri e sonorità difformi. Nell’Attila si assiste certamente al «trionfo del cabalettismo» (Emilio Sala), ma nel concertato del finale I, per esempio, il ritmo marziale rappresenta prima la volontà, poi la disperazione di Attila: è il momento di umanità del protagonista, o di temporaneo annullamento della barbarie. Il III atto è invece un capolavoro di drammaturgia e senso della sintesi: l’aria iniziale di Foresto (non «Che non avrebbe il misero», bensì «Oh dolore! Ed io vivea», che Verdi scrisse per Napoleone Moriani, il tenore della prima scaligera del dicembre 1846) si amplia a duettino, poi terzetto poi quartetto finale con repentino assassinio del protagonista e chiusura del sipario. Il direttore analizza ed esalta tutte queste caratteristiche, trasformandosi nell’artista più acclamato di tutta la serata.
Il timbro signorile e la perfetta plausibilità del declamato sono forse i tratti vocali distintivi di Ildar Abdrazakov, un Attila eccellente, cantante e attore sicuro (anche nella difficile scena del I atto, in cui il personaggio muta bruscamente di atteggiamento). Le note basse si avvalgono di un’emissione corretta, anche se non sono sempre perfettamente sostenute; al contrario, gli acuti sono spettacolari nella cabaletta «Oltre quel limite», percorsa da variazioni e conclusa da lunghissima puntatura. L’ascoltatore apprezza un lavoro di grande approfondimento stilistico, connotato dalla dizione marcata (la R iniziale di parola si trasforma in un marchio di espressività). Per l’artista interpretare questo ruolo riveste un’importanza speciale: vedendo Samuel Ramey impersonare il re unno nella produzione scaligera del 1991, diretta da Riccardo Muti, decise infatti di diventare cantante lirico, e dagli Urali ha percorso il mondo, giungendo fino a quel teatro da cui tutto era incominciato …
Ottima Saioa Hernández come Odabella: esordisce con un «Allor che i forti corrono» stentoreo e ben controllato; la grana della voce ha consistenza pastosa ed omogenea, il timbro risuona con sicuro effetto. A parte qualche risonanza di gola o leggermente stridula nei passaggi di registro, la linea di canto è notevole, come nel tono epico della frase «Fammi ridar la spada» e nella successiva cabaletta, in cui il soprano sa alternare emissione forte e mezza voce; l’aria del I atto («Liberamente or piangi») è un capolavoro di intensità e di dolcezza. Al generale Ezio presta la voce il baritono George Petean, dal timbro chiaro e dalla dizione nitidissima: nella scena del II atto in cui è protagonista rivela un pregevole senso del cantabile e una piena padronanza del fiato; anch’egli conclude la cabaletta «È gettata la mia sorte» con una squillante puntatura. Attraverso il canto, il baritono nobilita molto un personaggio in realtà assai ambiguo e squallido. Nel confronto timbrico dei numeri finali del III atto (terzetto e quartetto) è la sua sonorità a spiccare sulle altre. Fabio Sartori fu Foresto alla Scala già nell’Attila del 2011, ma da quegli anni il tenore è certamente migliorato: attacca con inflessioni piuttosto scure, sgrana bene gli acuti, anche se tende a un’emissione sempre un po’ enfatica (non priva di singhiozzi ed effetti veristici), che lo allontana dalla nobiltà espressiva degli altri interpreti. Il suo momento migliore è proprio l’aria alternativa del III atto, con cui soddisfa pienamente le aspettative del pubblico. Solenne e ben timbrato (davvero «sua voce / parea vento in caverna!») il Leone di Gianluca Buratto, e corretto l’Uldino di Francesco Pittari. Strepitosa, in ogni suo registro, la prestazione del Coro del Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni.
Davide Livermore da molti anni propone regie sempre più interessanti e meditate, specialmente quando si tratta del repertorio italiano. L’allestimento di Attila si potrebbe definire con una sola parola: intelligente, perché comprende e fa comprendere i caratteri fondamentali del libretto e della musica. Un esercito straniero invade l’Italia, riducendola a macerie fumanti: sembra di essere negli anni Quaranta, le videoproiezioni richiamano alla memoria Roma città aperta o Germania anno zero, ma riaffiora anche l’elemento romano dei «fori cadenti». Il momento più spettacolare è senza dubbio la scena dell’incontro tra Leone e Attila, in cui la videoproiezione di D-Wok dell’affresco vaticano di Raffaello, nella Stanza di Eliodoro, si materializza in un tableau vivant che affianca costumi medioevali a casacche militari del XX secolo. È significativo che il regista adotti suggestioni culturali importanti, provengano dalla storia dell’arte o dal cinema (non è casuale che una delle regie più originali, raffinate e felici di Livermore sia l’ambientazione del Ciro in Babilonia in una sala di proiezioni degli Anni Venti, per il Rossini Opera Festival 2012). Magnifiche le scene del trio Giò Forma, al pari della fotografia e delle luci di Antonio Castro; tutto concorre al successo di un metodo coerente (la risposta del pubblico è semplicemente entusiastica), poiché la regia rintraccia una vicenda parallela a quella tardo-antica, con i suoi sedimenti nella memoria collettiva recente, riproducendola sul palcoscenico non come capriccio dell’immaginazione, bensì come momento della Storia. Appoggiarsi a questa risorsa fa onore al regista, prima di tutto perché si sostenta di un forte senso civico; il dramma della storia, specie quando si tenta di riviverla per trarne un insegnamento, spesso nasce dall’incapacità di distinguere i buoni dai malvagi.   Foto  Brescia & Amisano Teatro alla Scala