Giacomo Puccini 160: “La Bohème” (1896)

A 160 anni dalla nascita
Dopo il successo di Manon Lescaut non fu subito facile per Puccini trovare un nuovo soggetto. Constatando il felice esito di Cavalleria rusticana di Mascagni, Ricordi gli suggerì di ricavare un libretto da un’altra novella di Verga, La lupa, facente parte della medesima raccolta, Vita dei campi. Il compositore, coinvolto, in un primo momento, da questo soggetto, andò a trovare a Catania Verga che stava già lavorando alla stesura del libretto e, nel frattempo, oltre a fare alcune foto di località tipiche, cercò di conoscere la musica popolare siciliana. Pur essendosi avvicinato a questo soggetto con grande serietà, egli vi rinunziò perché distolto dal giudizio fortemente critico della contessa Blandine Gravina, figlia di Cosima Liszt e del direttore d’orchestra Hans von Bülow, alla quale aveva raccontato la trama del libretto sulla nave durante il viaggio di ritorno. Non possiamo sapere se le parole della contessa abbiano influito sulla decisione del compositore, ma è certo che subito dopo il suo ritorno a Torre del Lago egli scrisse a Ricordi il 13 luglio 1894 una lettera nella quale, oltre ad enumerare i difetti de La Lupa, acccennava alla sua volontà di dedicarsi alla composizione de La Bohème.
L’editore si mostrò contrariato e, con un tono ironico misto a irritazione, rispose con una lettera del 18 luglio 1894, dalla quale si evince che ancora non era stata fatta una scelta definitiva sulla Bohème:
“Non mi meraviglia la sua decisione, ma mi rattrista assai, assai. Ecco ancora molti mesi perduti, infruttuosi; né vedo una decisione forte, risoluta in lei anche per la Bohème…. Mi permetta però, caro Doge, che colla solita mia franchezza le osservi come abbia aspettato tardi ad accorgersi dell’eccesso di dialoghi nella Lupa dopo cioè aver cominciato a musicarla, dopo che i giornali persino annunciavano prossima la comparsa di quest’opera! Dopo il viaggio a Catania! Ma infine queste sono osservazioni ormai inutili… e auguro un biglietto per lei per un treno direttissimo che la conduca alla stazione di arrivo: La Bohème.
In realtà il treno direttissimo auspicato da Ricordi viaggiò con molta lentezza dal momento che Puccini lo aveva preso almeno un anno prima come si apprende da una sua lettera pubblicata dal «Corriere della Sera» il 21 marzo 1893:
“Egregio signor direttore,
Le sarò grato se Ella vorrà far posto nel Suo pregiato giornale a questa mia breve. La dichiarazione sul «Secolo» di ieri del Maestro Leoncavallo deve aver fatto comprendere al pubblico la mia completa buonafede: perché è certo che se il Maestro Leoncavallo, al quale da tempo sono legato da vivi sentimenti di amicizia, mi avesse confidato prima quello che improvvisamente mi ha fatto sapere l’altra sera, io non avrei allora pensato alla Bohème di Murger.
Ora – per ragioni facili a comprendersi – non sono più in tempo a voler essere cortese come vorrei all’amico e al musicista.
Del resto cosa importa al Maestro Leoncavallo di questo?
Egli musichi, io musicherò. La precedenza in arte non implica che si debba interpretare il medesimo soggetto con uguali intendimenti artistici. Tengo solo a far sapere che da circa due mesi, e cioè fino dalle prime rappresentazioni di Manon Lescaut a Torino, ho lavorato seriamente alla mia idea, e non ne ho fatto mistero con alcuno”.
Per comprendere quanto affermato da Puccini in questa lettera è necessario ricordare che il giorno prima «Il Secolo», il giornale vicino alla Casa Sonzogno alla quale era legato Leoncavallo, aveva annunciato che il compositore napoletano stava lavorando alla Bohème. Questo botta e risposta a mezzo stampa era stato preceduto da un incontro del tutto casuale tra i due compositori in un Caffè a Milano in occasione del quale sembra che Puccini abbia rivelato a Leoncavallo che stava lavorando alla Bohème suscitando l’indignazione del collega il quale gli avrebbe rinfacciato che l’anno precedente gli aveva sottoposto il suo libretto tratto dalle Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger, reclamando una forma di priorità sulla scelta del soggetto. Messa da parte la polemica con Leoncavallo, i tempi di composizione della Bohème non furono simili a quelli coperti da un treno direttissimo che, per restare nella metafora di Ricordi, si fermò in molte stazioni costituite dalle continue richieste di modifica fatte da Puccini ai suoi librettisti, Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, due letterati dalle caratteristiche diverse che si divisero i compiti. Il primo si occupò della stesura del canovaccio, mentre il secondo, fine drammaturgo oltre che poeta di talento, curò la versificazione del testo. Fu, tuttavia, sottoposto ad un labor limae il canovaccio originario che, fedele al romanzo di Mürger, presentava i quattro atti strutturati in modo diverso. Il canovaccio, ideato da Illica e strutturato in quattro atti e cinque scene, era molto più fedele alla trama del romanzo. Il primo atto era diviso in due scene, «La Soffitta» e «Il Quartiere Latino», divenuti due atti separati, il secondo era costituito dalla «Barriera d’Enfer» che occupa l’at-tuale terzo atto in sostituzione del vecchio, «Il cortile della casa di via Labruyère», mentre fu mantenuto il quarto, «La soffitta» ovvero «La morte di Mimì». Dopo un estenuante lavoro che causò molti problemi tra cui le dimissioni di Giacosa, prontamente respinte da Ricordi, l’opera, completata anche nell’orchestrazione il 10 dicembre 1895, come si apprende da quanto scritto sull’autografo della partitura, fu rappresentata il 1° febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino sotto la direzione di Arturo Toscanini con Evan Gorga (Rodolfo), Cesira Ferrani (Mimì), Tieste Wilmant (Marcello), Camilla Pasini (Musetta), Antonio Pini-Corsi (Schaunard) ottenendo un buon successo di pubblico, sebbene non paragonabile a quello di Manon Lescaut con la quale fu posta a confronto dalla critica non sempre tenera. Berta sulla «Gazzetta del Popolo» scrisse:
“Noi ci domandiamo che cosa spinse il Puccini sul pendìo deplorevole di questa Bohème. La domanda è amara e noi non l’avanziamo senza una punta di dolore, noi che abbiamo applaudito e applaudiremo sempre a Manon nella quale si rivela un compositore che sapeva sposare il magistero orchestrale alla più sana italianità di concezione. Maestro, voi siete giovine e forte, voi avete ingegno, cultura e fantasia come pochi hanno: oggi vi siete levato il capriccio di costringere il pubblico ad applaudirvi dove e quando avete voluto. Per una volta sta bene. Ma nell’avvenire tornate alle grandi e difficili battaglie dell’arte”.
Se cattivo profeta fu Carlo Bersezio, che su «La Stampa» scrisse: «come la Bohème non lascia grande impressione sull’animo degli auditori, non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico», diametralmente opposta fu la profezia, apparsa sul «Corriere della Sera», di Giovanni Pozza:
“L’opera avrà lunga fortuna sui teatri giacché, se suggerisce qualche apprezzamento critico, ha qualità da farla piacere tanto a quelli che amano nella musica aver soltanto diletto, come a quelli che hanno maggiori esigenze. Gli uni si compiaceranno di accennare qualche motivo geniale, gli altri di ricercar qualche tesoro di orchestrazione o di armonizzazione. Gli uni diranno che è musica bella, gli altri che è musica ben fatta.