Venezia, Teatro Malibran: “Il sogno di Scipione”

Venezia, Teatro Malibran, Stagione – Lirica e Balletto – 2018-2019 della Fondazione Teatro La Fenice IL SOGNO DI SCIPIONE”
Azione teatrale in un atto kv 12, Libretto di Pietro Metastasio dal “Somnium Scipionis” di Ciceron. Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Scipione VALENTINO BUZZA
Costanza FRANCESCA BONCOMPAGNI
Fortuna BERNARDA BOBRO
Publio, avo adottivo di Scipione EMANUELE D’AGUANNO
Emilio, padre di Scipione LUCA CERVONI
Licenza RUI HOSHINA
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Federico Maria Sardelli
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Tutor di regia Elena Barbalich
Scene e Costumi Accademia di Belle Arti di Venezia
Scene Francesco Cocco
Costumi Davide Tonolli
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Venezi. Progetto “Atelier della Fenice al Teatro Malibran”
Venezia, 8 febbraio 2019
Il sogno di Scipione di Wolfgang Amadeus Mozart si rappresenta per la prima volta a Venezia sul palcoscenico del Teatro Malibran. La “serenata” – composta tra il 1771 e il 1772 inizialmente per l’arcivescovo di Salisburgo Sigismund von Schrattenbach e poi, sopraggiunta la morte di quest’ultimo, riutilizzata per celebrare l’insediamento del nuovo arcivescovo Hyeronymus von Colloredo nella primavera del ‘72 – viene proposta in un nuovo allestimento, realizzato – nell’ambito del progetto Atelier della Fenice al Teatro Malibran – con la collaborazione dell’Accademia di Belle Arti di Venezia e di un folto gruppo di suoi studenti, sotto il coordinamento, quale tutor di regia, di Elena Barbalich, con il sostegno dalla Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship.
È, dunque, un Mozart appena sedicenne quello che mise in musica l’azione teatrale, che Pietro Metastasio – pseudonimo grecizzante dell’àrcade Pietro Trapassi – aveva tratto, intorno al 1735, dal Somnium Scipionis di Cicerone per la musica di Luca Antonio Predieri. Tutti sanno quanto sia stato straordinario e precoce il genio del Salisburghese, eppure di fronte a questo lavoro non si può non rimanere stupefatti, considerandone la freschezza, l’inventiva, la profonda adesione al testo metastasiano, di cui amplifica l’intrinseca, proverbiale musicalità, così come dà piena espressione a quella concettosa e icastica “poesia degli affetti”, che caratterizza i melodrammi del celeberrimo poeta-abate. Insomma già si intravede chiaramente, nella partitura del compositore adolescente, quella che sarà l’arte del Mozart più celebrato. Colpisce in particolare il fatto che le arie – la cui indubbia difficoltà tecnica rimanda al virtuosismo del melodramma tardo-barocco –, siano sempre funzionali ad implicite esigenze di tipo teatrale, per non parlare della carica espressiva della scrittura sinfonica, in cui si coniugano brillantezza ed eleganza, come di quella relativa ai due cori e ai vari recitativi accompagnati. Inevitabile, dunque, che la riproposizione del lavoro sia avvenuta, in anni abbastanza recenti, prevalentemente in forma scenica come appunto è questa al Malibran.
Suggestivo, per quanto – a nostro avviso – un tantino cervellotico, è risultato lo spettacolo sul piano visivo. Vi prevale – in base al titolo stesso del dramma – una dimensione onirica, surreale, nella quale, peraltro, il protagonista, più che uno spirito eletto, che coltiva la filosofia per cercare di incarnare la figura del sovrano ideale – secondo l’impostazione ciceroniana –, appare né più né meno che un qualsiasi uomo politico, che sogna il potere, circondato, e verosimilmente blandito, da una massa di persone, che crea appositamente per lui questo sogno. L’ambientazione contemporanea, con la presenza di oggetti e figure mitologiche desunte dalla cultura classica, non può non ricordare la retorica di certi regimi totalitari del Novecento. Si deve a Francesco Cocco – lo studente vincitore del concorso bandito ad hoc – la multiforme ed evocativa scenografia di plastica, di sapore vagamente fantascientifico, che rende tutto molto evanescente, con il teatro visibile in trasparenza. Anche i costumi sono stati ideati, con fantasia e buon gusto, nonché efficacia dal punto di vista simbolico, da un altro studente vincitore di concorso, Davide Tonolli: dalle essenziali vesti delle due dee, Fortuna e Costanza, ai sontuosi paramenti, indossati da Scipione, a simboleggiare il potere, da lui conseguito. Ma ben presto tale potere, insieme ai suoi simboli, passerà ad un altro, poiché esso esisterà sempre a prescindere dall’uomo che temporaneamente lo possiede: questo il senso generale di questa messinscena, che ha anche molto della finzione barocca, in particolare nel momento in cui il protagonista crede di contemplare l’armonia delle sfere celesti.
Assolutamente condivisibile l’impostazione seguita dal direttore, Federico Maria Sardelli – fondatore dell’orchestra Barocca Modo antiquo –, che all’attività direttoriale alterna quella di compositore, flautista e disegnatore. Il maestro livornese – assecondato egregiamente dall’orchestra – ha, infatti, saputo far emergere la teatralità insita in questa partitura, ricca di contrasti e sfumature, in cui si coglie una marcata caratterizzazione dei personaggi: dalla pacata Costanza alla quasi ferina Fortuna, all’amletico Scipione. Positiva è risultata la prova offerta dai cantanti, che si sono, in generale, cimentati dimostrando encomiabile professionalità – oltre che con la densa espressività dei recitativi accompagnati – con arie, la cui ragguardevole bellezza estetica è pari alle difficoltà esecutive, per quanto non siano risultati tutti sempre ineccepibili negli ardui passaggi d’agilità. Per quanto riguarda i tre ruoli tenorili, Valentino Buzza, nei panni di un titubante Scipione (l’Emiliano), ha cantato con nitido fraseggio e timbro omogeneamente cristallino, in particolare nelle due arie, “Risolver non osa” e “Di che sei l’arbitra”. Analoga la performace di Emanuele D’Aguanno, che ha dato vita a un energico Publio, segnalandosi in “Se vuoi che te raccolgano” e “Quercia annosa”, e quella di Luca Cervoni nella parte di Emilio nell’estraniante “Voi colaggiù ridete”. Quanto ai tre soprani, Francesca Boncompagni (una suadente Costanza) si è fatta apprezzare nelle colorature che connotano le sue due arie, “Ciglio, che al sol si gira” e “Biancheggia in mar lo scoglio” (la classica aria di paragone), mentre Bernarda Bobro ha tratteggiato una Fortuna aggressiva e contrastata in “Lieve sono al par del vento” e “A chi serena io miro”. Si è fatta onore anche Rui Hoshina nella conclusiva Aria della Licenza, “Ah perchè cercar degg’io”, che rivela l’intento encomiastico sotteso al libretto metastasiano. Preciso ed espressivo il coro nei suoi due interventi: “Germe di cento Eroi” e “Cento volte con lieto sembiante”. Grande successo per gli interpreti musicali come per i responsabili degli aspetti visivi dello spettacolo.