Milano, Teatro alla Scala:”Chovanscina”

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2018/19
CHOVANŠČINA
Dramma in musica in cinque atti di Modest Petrovič Musorgskij
Musica di Modest Petrovič Musorgskij
Ivan Chovanskij MIKHAIL PETRENKO
Andrej Chovanskij SERGEY SKOROKHODOV
Vasilij Golicyn EVGENY AKIMOV
Šaklovityi ALEXEY MARKOV
Dosifej STANISLAV TROFIMOV
Marfa EKATERINA SEMENCHUK
Susanna IRINA VASHCHENKO
Scrivano MAXIM PASTER
Emma EVGENIA MURAVEVA
Pastore luterano MAHARRAN HUSEYNOV
Varsonof’ev LASHA SESITASHVILI
Kuz’ka/Strešnev SERGEY ABABKIN
Primo strelec EUGENIO DI LIETO
Secondo Strelec GIORGI LOMISELI
Un uomo di fiducia del principe Golicyn CHANG WANG
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Valery Gergiev
Regia Mario Martone
Scene Margherita Palli
Costumi Ursula Patzak
Video designer Umberto Saraceni
Coreografia Daniela Schiavone
Milano, Teatro alla Scala, 3 marzo 2019
Chovanščina” torna alla Scala dove mancava dal 1998 e vi torna con un’edizione destinata a rimanere negli annali del teatro. Merito primo degli altissimi risultati ottenuti spetta a Valery Gergiev che alla guida dell’orchestra scaligera fornisce una prestazione sontuosa. Prima è, però, opportuno fornire qualche dettaglio filologico considerando la complessità delle vicende editoriali di “Chovanščina” successive alla prematura morte di Musorgskij quando la partitura era ancora ben lungi dall’essere completata. Gergiev utilizza la versione preparata nel 1959 da Šostakovič a partire dal lavoro di revisione critica condotto dal 1930 al 1939 da Pavel Lamm integrata con il frammento del dialogo fra Golicyn e il pastore luterano espunto dalla versione definitiva del libretto e rinvenuto solo nel 1946. La versione Šostakovič è eseguita nella sua integralità senza recuperare l’originaria orchestrazione musorgskijana per i due brani in cui si conserva; anzi uno di questi – la canzone di Kuz’ka – viene espunto risultando uno dei due soli tagli praticati. L’altro riguarda il finale con la scelta di chiudere con gli ultimi accordi dell’amen intonato in coro dai raskol’niki, quindi senza il tema rasserenato dell’alba sulla Moscova proposto da Šostakovič e senza neppure la sospensione estatica della trenodia funebre composta da Stravinskij nel 1913 per l’allestimento parigino di Djagilev. Così l’opera si conclude su un nero abisso che nulla addolcisce e che è perfettamente in linea con la regia di Martone di cui si dirà in seguito.
Rispetto alla registrazione pietroburghese degli anni 90 – di cui lo spettacolo scaligero del 1998 era diretta prosecuzione – la lettura di Gergiev si è fatta ancor più intensa, profonda, scavata. Il direttore ha superato qualunque concessione all’effetto per concentrare il tutto in un fondo di cupa essenzialità. Fin dal preludio le varie anime della lettura di Gergiev emergono pianamente: una bellezza sonora sconvolgente ma sempre velata da un fondo di profonda malinconia, dove colori cinerei, spenti, polverosi si stendono come funebri veli su tutto finché il rintoccare delle campane fa percepire l’implacabilità del destino da cui tutti verranno schiacciati. Gergiev usa l’orchestra come una grande tavolozza pittorica, spande pennellate di suono, dense ampie come nei dipinti di Repin ma all’improvviso sembra contorcerle nei tragici stridori di un Nikolaj Gé, altro geniale e incompreso visionario della Russia di quegli anni. Gergiev fa convivere l’imponenza del grande affresco con una cura assoluta per ogni dettaglio, per ogni colore, per ogni possibilità espressiva. Il gioco ritmico e dinamico è ricchissimo e mai fine a se stesso; prevalgono, infatti, ritmiche ampie, rallentate, avvolte in un sordo dolore dell’anima – come nelle scene di Marfa o nell’epico lirismo della grande aria di Šaklovityi – e tali da rendere ancor più marcato lo scatto violento delle accensioni drammatiche tra cui l’incedere del grande terzetto del II atto caratterizzato da una ritmica sempre più pesante, forzata e marziale. Questa è forse la pagina più autenticamente politica di tutto il teatro d’opera con l’orchestra capace di rendere fisicamente presente il destino di lutti che in quel momento si sta cominciando a formare. Nelle grandi scene d’insieme, inoltre, l’imponenza delle architetture sonore non è mai ricerca di effetti spettacolari ma bisogno di una cantabilità epica come unico mezzo possibile per raccontare il destino ineluttabile non solo del popolo russo ma dell’intera umanità. L’orchestra della Scala in autentico stato di grazia è, nelle mani di Gergiev, malleabile strumento per dar vita alla propria personalissima lettura dell’opera e se possibile ancor superiore è stata la prestazione del coro. Sulla compagine guidata da un maestro assoluto come Bruno Casoni non manca mai occasione di esprimere le lodi ma qui si è andati oltre anche l’altissima qualità abituale. Una prova titanica, soggiogante per qualità del canto e intensità dell’espressione, di una qualità stilistica e idiomatica semplicemente perfetta. Per il popolo, unico, vero protagonista dell’opera, è persino impossibile immaginare incarnazione più grandiosa. Perfettamente in linea con la visione di Gergiev è la regia di Mario Martone (con scene di Margherita Palli e costumi di Ursula Patzak). Così come nessuna concessione al folklorismo russo è fatta nella direzione allo stesso modo ogni elemento di tal fatta sparisce dalla regia. La vicenda è trasposta dalla Russia secentesca a un futuro post-bellico e post nucleare, dominato da città ridotte a cumuli di rovine, popolato da un’umanità degradata che si aggira fra carcasse di veicoli ed edifici fatiscenti. In un immaginario da fantascienza post-atomica declinato di suggestioni russe (come non pensare alle immagini delle macerie di Stalingrado o al degrado dei tanti palazzi della nobiltà russa dopo le collettivizzazioni post-rivoluzionarie nei palazzi un tempo sontuosi e ormai fatiscenti in cui ancora abitano i potenti!) in cui le vicende narrate acquisiscono una totale universalità, Martone riesce nella difficile quadratura del cerchio di proporre una regia apparentemente lontanissima dalla realtà dell’opera ma assolutamente coerente allo spirito più profondo della stessa. Martone non si fa portavoce di sovrastrutture interpretative ma racconta una storia e la racconta con una forza visiva ed emozionale cui è difficile rimanere indifferenti. La visione è molto cinematografica sia per la qualità degli effetti tridimensionali e prospettici della scenografia, sia per la cura rivolta alla recitazione. La narrazione è tradizionale, non ci sono forzature allo sviluppo e al senso della storia; poche e perfettamente coerenti le scelte più innovative come l’apparire, negli snodi fondamentali della vicenda, della zarina Sof’ja accompagnata dagli zarevič fanciulli che assistono come lontane, imperturbabili, divinità ai miseri destini degli umani o la scena delle persiane dove gli squalidi spogliarelli con cui si trastulla Chovanskij evolvono progressivamente in un incubo shakespeariano che dà forma ai fantasmi interiori del boiardo, sorta di Macbeth schiacciato dalla sua stessa brama di potere. Il crepuscolo dell’antica Russia diventa nel finale il crepuscolo dell’intera umanità con un grande meteorite infuocato che invade il palcoscenico ardendo in un’apocalisse senza palingenesi i raskol’niki e con loro l’intera terra al di lò del quale non resta che l’abisso in perfetta linea con la scelta di Gergiev di escludere il tono consolatorio sotteso ai vari finali.
La compagnia di canto non è esente da qualche pecca ma nell’insieme ben s’inserisce nel taglio complessivo dello spettacolo. Mikhail Petrenko (Ivan Chovanskij) ha timbro poco seducente ed emissione spesso problematica ma la scrittura di Musorgskij concede qualche cosa sul piano dell’ortodossia vocale se a compensarla ci sono le qualità di interprete che Petrenko dimostra di possedere pienamente. Il suo è un Chovanskij duro, brutale, ferino nelle reazioni di furore ma anche capace di grande dolcezza nell’ultimo addio agli strel’cy. Voce invece bellissima e morbida, Stanislav Trofimov, che affronta Dosifej con un canto di autorevole dolcezza, si tramuta quasi in un profeta biblico capace di piegare a umana dolcezza il rigore di una fede rigorosa. Sergey Skorokhodov è un Andrej Chovanskij ottimamente cantato e dal rilevante materiale vocale, solo un po’ carente sul piano della personalità. Alexey Markov affronta Šaklovityi con una splendida voce di baritono drammatico, ampia e timbratissima su tutta la gamma. Alle prese con il personaggio forse più sfaccettato e complesso dell’intera opera, Markov riesce a rendere le infinite sfumature della lunga mano dello zar dalla durezza con cui tratta lo scrivano al sincero dolore per i destini della Russia. I molti anni di carriera non hanno intaccato la splendida voce da tenore di grazia di Evgeny Akimov, arricchita da un fraseggio mercuriale capace di rendere al meglio tutte le sfaccettature e le nevrosi di Golycin. Ekaterina Semenchuk è una Marfa forse non così sontuosa come timbro ma di rara intensità espressiva, tutta rivolta su un canto intimo, sofferto, doloroso, in cui anche le accensioni di passionalità si velano di nostalgia. La voce non è grande ma l’emissione è ottima così come è impeccabile la musicalità. Lusso fin eccessivo, Evgenia Muraveva, astro nascente della scena russa, nel breve ruolo di Emma, riesce a far intendere la robustezza della vocalità e il forte temperamento drammatico. Vocalmente solida e con il giusto parossismo espressivo la Susanna di Irina Vashchenko solo troppo giovane e bella per il ruolo. Maxim Paster è uno scrivano dalla voce chiara e insinuante. Ottime le numerose parti di fianco affidate agli allievi dell’Accademia scaligera.