Torino, Teatro Regio: “Agnese”

Torino, Stagione lirica 2018/19
“AGNESE
Dramma semiserio in due atti su libretto di Luigi Buonavoglia dalla commedia “Agnese di Fizendry”di Filippo Casari
Musica di Ferdinando Paër
Agnese MARIA REY-JOLY
Uberto MARKUS WERBA
Ernesto EDGARDO ROCHA
Don Pasquale FILIPPO MORACE
Don Girolamo ANDREA GIOVANNINI
Carlotta LUCIA CIRILLO
Vespina GIULIA DELLA PERUTA
Il custode dei pazzi FEDERICO BENETTI
La figlia di Agnese ESMERALDA BERTINI
Orchestra e coro del Teatro Regio
Direttore Diego Fasolis
Maestro del coro Andrea Secchi
Regia Leo Muscato
Scene Federica Parolini
Costumi Silvia Aymonino
Luci Alessandro Verazzi
Torino,  24 marzo 2019
Nella stagione fin troppo nazional-popolare del Teatro Regio sboccia, come fiore di primavera, “Agnese”. L’opera considerata ai tempi il capolavoro di Ferdinando Paër ha goduto di una notevole fortuna per tutta la prima metà del XIX secolo suscitando fra l’altra la sincera ammirazione di Chopin e Berlioz oltre all’interesse di Victor Hugo che giunse a ricordarla in“Les Misérables” per poi venire totalmente dimenticata. Riscoperta nel 2008 da Diego Fasolis in un’esecuzione concertante a Lugano l’opera ritrova ora – sempre sotto la bacchetta del maestro ticinese – anche la forma scenica. Cos’è ”Agnese”? Quali le ragioni dell’immensa fortuna e del lungo oblio? Possiamo dire che è una figlia autentica del proprio tempo, legato a un gusto – quello dell’opera semiseria e delle commedie larmoyant – che la nuova sensibilità romantica avrebbe visto come fumo negli occhi e che solo nella cultura post-moderna, più pronta alla contaminazione di genere, sta ritrovando un nuovo interesse. Inoltre si collega al centro di quella stagione – più o meno fra Mozart e Rossini – a lungo considerata come interlocutoria e di scarso interesse seppur di primaria importanza per comprendere i futuri sviluppi dell’opera sia italiana che francese almeno fino alla metà del secolo. Musicista cosmopolita per cultura ed esperienze il parmigiano Ferdinando Paër ha avuto un ruolo centrale nella vita culturale fra l’età napoleonica e la restaurazione sia come compositore sia come direttore del Théâtre-Italienne che sotto la sua guida conobbe una delle stagioni più felici. Protettore di Bellini, maestro di Gounod e in parte di Liszt ha segnato la storia musicale ben oltre la sua fama. Composta per la committenza del conte Fabio Scotti e destinata in origine a un’esecuzione privata, “Agnese” è poi opera ibrida non solo come genere ma come stile, dove il rigore formale del classicismo maturo si fonde con un bisogno di verità assolutamente rivoluzionario per i tempi. L’opera aveva sempre amato e sempre amerà il tema della follia nelle sue infinite possibilità espressive ma al riguardo il lavoro di Paër si spinge su un realismo rappresentativo che ha pochi confronti. La stessa ambientazione in un manicomio attesta la volontà di affrontare un tema attuale e presente nel dibattito del tempo, costituito da quella nuova concezione clinica e non solo assistenziale nei confronti della malattia mentale che era stata imposta dal dibattito illuminista e che ritroviamo pur nei toni buffi del contesto nel confronto fra lo scetticismo del direttore Don Pasquale e le speranze – in fine premiate – del moderno medico Don Girolamo. Il romanticismo inoltre ha amato le follie femminili come strumento di pura astrazione vocale, come apoteosi di quel virtuosismo espressivo che del belcanto italiano era l’essenza. Paër sceglie una via opposta: non solo la sua è una pazzia al maschile ma soprattutto cerca un realismo per l’epoca sconvolgente. Una vocalità essenziale fatta di motivi asciutti, di armonie imperfette, di riprese ossessive di frasi e di motivi a rendere palpabile lo smarrimento della mente. Una violenza mimetica che tanto turbò Stendhal. Non va scordato che Paër compose la parte di Uberto per se stesso, piegandola quindi a tutti i suoi intendimenti espressivi senza condizionamenti esterni. Le altri parti appaiono più convenzionali, più legate agli schemi del genere ma in tutta la partitura non si può che ammirare l’alto magistero del compositore. Per riproporre l’opera dopo così lungo tempo Fasolis ha puntato su un’esecuzione il più integrale possibile. Viene quindi eseguita la versione originale di Parma (1809) con in più i brani aggiunti per le riprese parigina del 1819 e del 1824 – arie aggiuntive di Agnese ed Ernesto e duetto fra i due – ma senza i tagli praticati in quell’occasione. Nel passare dal repertorio barocco a quello del primo Ottocento Fasolis mantiene tutta la sua brillantezza dinamica e teatrale, la sua ricchezza di colori e la sua attenzione ai dettagli – molto apprezzabile nel caso degli strumenti obbligati – offrendo una prestazione non solo filologicamente inappuntabile ma anche di grande freschezza teatrale.
Valida la compagnia di canto. Maria Rey-Joly è infatti un’ottima protagonista. Voce solida, robusta, ben timbrata su tutta la gamma e retta da ammirevoli qualità sul terreno della vocalità belcantista. Offre della protagonista un ritratto completo in cui se a essere privilegiata è giustamente la tinta patetica non manca di maggior accensione drammatica quando richiesto. La cantante sfoggia un ottimo controllo del fiato e del canto legato; gli acuti sono sicuri pur con qualche sonorità metallica mentre migliorabile sarebbe la pronuncia. Nell’insieme si è trattato di una prestazione che ha dato piena giustizia al ruolo. Passando dal repertorio tedesco a quello italiano Markus Werba conferma di essere fra i maggiori baritoni della sua generazione. La sua è una voce come sempre piena, ricca di armonici e di un colore molto bello ma ancor più degna di nota è l’intensità interpretativa, la capacità di cogliere tutte le sfaccettature di un personaggio complesso come il pazzo Uberto. In un ruolo decisamente più convenzionale Edgardo Rocha canta con eleganza il ruolo del marito traditore Ernesto in cui la vocalità del tenore settecentesco di mezzo carattere già evolve verso il tipo più scopertamente virtuosistico che sarà di Rossini. Bel timbro, piena sicurezza nel canto di coloratura, impeccabile musicalità. Parte di tipico basso-baritono buffo, il direttore del manicomio Don Pasquale è affrontato con esperienza e professionalità da Filippo Morace, vocalmente perfettamente a suo agio nella parte e capace di tratteggiare un personaggio di bonaria e affettuosa umanità, condito di un sentore di bonomia napoletana perfettamente in linea con la regia che per il suo ruolo – come anche per quello di Ernesto – sembra occhieggiare al teatro di Scarpetta. Raffinata interprete del repertorio barocco e classico Lucia Cirillo è penalizzata solo dalla brevità del ruolo di Carlotta; brava vocalmente – con tanto di variazioni acute al termine dell’arietta del II atto – e di irresistibile simpatia sul piano scenico la Vespina di Giulia della Peruta. Voce squillante e ottima dizione per l’illuminato medico Don Girolamo di Andrea Giovannini. Completavano il cast il basso Federico Benetti (il custode dei pazzi) e la piccola Esmeralda Bertini nel ruolo muto della figlia di Agnese.
Alle prese con il vero punto debole dell’opera – l’inconsistente libretto – Leo Muscato sceglie la strada della favola e quasi del cartone animato. Il tutto si svolge in un’enorme farmacia dove i personaggi – quasi piccoli folletti – si muovono fra le classiche scatole di latta dei medicinali inizio Novecento come fossero edifici e abitazioni. Alcune, aprendosi, mostrano essere state trasformate in autentiche abitazioni – minimondi secondo la definizione del regista – divenendo lo studio di Don Pasquale, la cella o la stanza da letto di Uberto.  Altre ancora, invece, piene di giganteschi barattoli di preparati medici, servono comunque come spazi d’interazione. I coloratissimi costumi richiamano una fine Ottocento rivista però nel gusto di un libro per l’infanzia non privo di squarci ironici – con il rovesciamento del coro in cui le donne interpretano i matti ricoverati e gli uomini improbabili suore infermiere direttamente uscite da “Le comte Ory”. Uno spettacolo leggero e godibile che ha consentito di superare le debolezze teatrali e di far risaltare al meglio la qualità musicale. Sala non gremita ma ottima presenza di pubblico considerando la particolarità del titolo e successo sincero per tutti gli interpreti.