Piacenza, Teatro Municipale: “Serse”

Piacenza, Teatro Municipale – Stagione d’Opera 2018-19
SERSE
Opera in tre atti, su libretto anonimo da “Xerse” di Nicolò Minato, adattato da Silvio Stampiglia.
Musica di Georg Friedrich Händel
Serse ARIANNA VENDITTELLI
Arsamene MARINA DE LISO
Amastre DELPHINE GALOU
Romilda MONICA PICCININI
Atalanta FRANCESCA ASPROMONTE
Ariodate LUIGI DE DONATO
Elviro BIAGIO PIZZUTI
Orchestra Accademia Bizantina
Direttore
Ottavio Dantone
Regia Gabriele Vacis
Scene, Costumi e Luci Roberto Tarasco
Nuovo Allestimento, coproduzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Ravenna Manifestazioni
Piacenza, 12 aprile 2019
Il “Serse” in scena in questi mesi presso il circuito emiliano (e visto recentemente al Municipale di Piacenza) vanta una compagine musicale di tutto rispetto: è l’Accademia Bizantina, ensemble rodato, composto da ottimi strumentisti, che, sotto la bacchetta del Maestro Ottavio Dantone, sanno riproporre il repertorio barocco perfettamente in equilibrio tra ricostruzione filologica e gusto idealizzato contemporaneo. La conduzione di quest’opera, nello specifico, rasenta quasi la perfezione, con particolari attenzione agli accenti, alle sfumature patetiche, ai tempi della leggerezza. Anche il cast da buona prova di sé, A partire da Arianna Vendittelli, nella parte del protagonista, che sfoggia solida tecnica con una voce corposa, dagli acuti sicuri e pieni, e i centri sonori che consentono una piena intelligibilità dei recitativi. Anche dal punto di vista attorale, la Vendittelli si muove sicura, è presente al gioco scenico, partecipa con adeguata mimica e con coinvolgimento canoro. Accanto a lei, Francesca Aspromonte (Atalanta) si riconferma interprete barocca di talento: vellutata negli abbandoni lirici, incalzante e di carattere nei momenti più veementi, il giovane soprano mantiene sempre una linea di canto controllata, e sul piano scenico sviluppa a dovere uno dei personaggi più complessi della vicenda, a cavallo tra grottesco e tragedia. Buon controllo vocale anche per Monica Piccinini, soprano leggerissimo (ma dal colore morbidamente carezzevole), forse troppo per una parte dagli afflati marcatamente lirici come Romilda – nel terzo atto la voce risulta un po’ appannata e con qualche incertezza sull’emissione; anche il piano dell’attrice non è pienamente esplorato, rimanendo ancorata a espressività e gestualità di maniera, ancorché efficaci. Interprete di bel carattere e supportata da tecnica consolidata è senz’altro, invece, Marina De Liso, cantante sicura, mette al servizio di Artamene la sua esperienza di palco e la vocalità fresca, dal fraseggio puntuale ed incalzante. Riuscite, per quanto in ruoli di lato, anche le prove dei due interpreti maschili, Biagio Pizzuti (Elviro) e Luigi De Donato (Ariodate), entrambi contraddistinti da vocalità piene e ben controllate, chiari nella dizione, e molto coinvolti nella costruzione scenica – soprattutto Pizzuti, cui è affidata la parte più buffa, si distingue per espressività e vis comica. Infine, Delphine Galou, ci regala un’Amastre corretta per intonazione e per agilità, per quanto efficace più negli acuti che nei centri: pur regalando un’interpretazione più adatta alle sue corde, rispetto al “Rinaldo” lombardo dell’inverno passato, la voce della mezzosoprano francese mostra limiti di corpo vocale e di tessitura, specie nei non pochi passaggi gravi che il repertorio barocco riserva alle parti contraltili. Sul piano attorale, comunque, la Galou si spende con molto impegno, dando vita a un personaggio credibile, anche più di quanto il libretto le consenta. Questo, infatti, è uno degli aspetti più critici dell’intero spettacolo: “Serse“ è stata, sin dal suo debutto, e sostanzialmente rimane ancora oggi, un’opera discutibile sul piano della vicenda, giudicata, non a torto, poco centrata, convenzionale nel sentimentalismo (gli affair tra fratelli e sorelle, la disperazione di Amastre, l’amore paterno di Ariodate), superficiale dove avrebbe potuto sviluppare spunti più originali (il platano, l’inganno ordito ai danni di Serse, i momenti buffi). Il rischio, con quest’opera, e di portare in scena una lunga carrellata di arie e duetti privi di una vera architettura drammaturgica. In tal senso dovrebbe agire la regia, qui più che con altre opere: il maestro Gabriele Vacis, invece, sorprendentemente, sembra non accorgersi delle evidenti aporie librettistiche, e si limita a creare un contorno, un contenitore, peraltro piuttosto ordinario. La scena, infatti, ideata da Roberto Tarasco, si limita ai pochi metri di proscenio (in aiuto di qualche cantante meno proiettato vocalmente? il dubbio c’è), per lasciare la maggior parte del palco a una compagnia di danzatori, intenti per quasi tutto lo spettacolo a mettere in scena gli stati d’animo dei personaggi, distraendo di continuo, in questo modo, lo spettatore dai cantanti, e demansionando de facto questi ultimi da qualsivoglia responsabilità scenica – così i meno esperti si abbandonano a manierismi piuttosto marcati, quando non, semplicemente, stanno immobili, faccia al pubblico, a cantare i propri pezzi. Attrezzeria e costumi (sempre a cura di Tarasco, come le luci, cui invece va riconosciuta una compiutezza evocativa) non aiutano la confusione sul palco, risultando l’ennesima congerie di stili, oggetti, periodi storici, accostati quasi a caso, tutti apparentemente intesi a svilire la certo non immediata nobiltà che l’opera händeliana porta con sé; né riescono le sporadiche proiezioni di un platano, che in un travaso di didascalismo quasi documentarista indulgono lente su corteccia, fronde e frasche, a risvegliare il torpore del già non straripante pubblico, che giunge provato alla fine della recita, concedendo pochi deboli applausi a scena aperta. Pare dunque emergere un dato dalle esperienze barocche delle stagioni lombarda ed emiliana: occorre trovare modi diversi, forse più tradizionali, più teatrali e meno provocatori, per riproporre i capolavori del Sei e del Settecento, o si rischierà che il pubblico progressivamente si allontanerà dal genere, e questo fatichi ancor più a sopravvivere alle banalità e alle brutture dell’hic et nunc. Foto Anceschi