Venezia, Teatro La Fenice: “Aida”

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 20018-2019
AIDA”
Opera in quattro atti,
Libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il re d’Egitto MATTIA DENTI
Amneris SILVIA BELTRAMI
Aida MONICA ZANETTIN
Radamès DIEGO CAVAZZIN
Ramfis SIMON LIM
Amonasro LUCA GRASSI
Gran sacerdotessa ROSANNA LO GRECO
Messaggero ANTONELLO CERON
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Mauro Bolognini, ripresa da Bepi Morassi
Scene Mario Ceroli
Costumi Aldo Buti
Light designer Fabio Barettin
Nuovo Balletto di Toscana
Coreografo Giovanni Di Cicco
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 22 maggio 2019
Fa il suo ritorno sul palcoscenico del Teatro La Fenice, dopo oltre trent’anni di assenza, Aida di Giuseppe Verdi, un titolo tra i più popolari del suo catalogo operistico. Si ritiene in genere che la composizione di quest’opera sia stata concepita in vista dei festeggiamenti per l’inaugurazione del Canale di Suez; in realtà – precisa, all’interno del Programma di Sala, uno storico esegeta verdiano come Marcello Conati – il canale fu inaugurato il 17 novembre 1869, cioè due anni prima rispetto alla data della “creazione” del capolavoro verdiano, che ebbe luogo al Teatro dell’Opera del Cairo il 24 novembre 1871. In ogni caso la genesi di Aida è legata alla spiccata passione verdiana del kedivé, ovvero il viceré d’Egitto, che pensò di invitare il sommo operista italiano a scrivere un’opera ambientata nell’antico Egitto. L’incarico di contattare il compositore fu affidato a Auguste Mariette, il famoso egittologo francese, che a sua volta si rivolse a Camille Du Locle – coautore con Méry del libretto di Don Carlos – uomo di fiducia di Verdi. Il librettista francese ottenne inizialmente un netto rifiuto, e fu solo la lettura dello “scenario” a convincere il bussetano ad accettare l’impresa. È probabile che Du Locle abbia steso l’intero piano dell’opera sulla base di un soggetto ideato da Mariette, mentre Antonio Ghislanzoni avrebbe avuto il solo compito della versificazione. Nella partitura si coglie l’influenza del grand-opéra, di cui condivide aspetti tipici, quali lo stretto intreccio fra la dimensione privata e quella politica, nonché la presenza di grandi scene di massa e di balletti. Tuttavia Aida si allontana dal modello francese, oltre che per il suo concentrarsi sul dramma individuale – l’ambientazione storica è decisamente vaga nell’opera: un Egitto inventato, come le melodie esotiche, esclusivamente create dalla fantasia dell’autore –, anche per la coerenza drammaturgica, per il ruolo necessario di ogni momento della rappresentazione, insomma per il suo rispecchiare pienamente la rigorosa concezione teatrale verdiana. Esemplare, in tal senso, è apparsa la visione registica, sottesa all’allestimento, ideato da Mauro Bolognini per la Fenice in occasione della storica produzione di Aida del 1978 – con le scene di Mario Ceroli e i costumi di Aldo Buti –, ora riproposto da Bepi Morassi. Riecheggiando la chiarezza, l’essenzialità quasi metafisica, che caratterizza la concezione di Adolphe Appia, pioniere del rinnovamento dello spazio scenico in senso antinaturalistico, la scena (fissa), costituita da pochi elementi tridimensionali, appare divisa – con simbologia facilmente intuibile – in uno spazio inferiore chiuso, opprimente, immerso nella penombra, e in un ampio spazio superiore, dove campeggia un’ampia scalinata, illuminato da una luce opportunamente diretta e variata – da Fabio Barettin –, a creare suggestive atmosfere. La concezione scenica, dunque, risulta in sintonia con il carattere diffusamente intimistico del lavoro verdiano – dominato dal dramma interiore della schiava etiope e dei personaggi a lei legati – senza amplificare (ma neanche sacrificare troppo) i suoi aspetti più spettacolari. Ancora a questa questa impostazione corrispondono i garbati costumi di Buti come le eleganti, essenziali coreografie di Giovanni Di Cicco. Anche la bacchetta di Riccardo Frizza contribuisce, in modo determinante, alla riuscita di questa produzione fenicea. Il maestro bresciano, in particolare, dà il giusto rilievo alle scene di massa e ai ruoli “politici”, la cui scrittura vocale, spesso basata su un innovativo declamato drammatico, gravita su un’unica nota, mentre è l’orchestra ad avere la parte più strutturata. Nello stesso tempo, riesce ad esprimere, senza abbandonarsi ad estenuazioni, che comprometterebbero la tensione drammatica – diffusamente assicurata da un gesto direttoriale energico e spedito –, il lirismo delle grandi melodie che, con il sostegno di raffinati interventi orchestrali di fondamentale pregnanza, caratterizzano il triangolo sentimentale Amneris-Aida-Radamès. L’unico appunto, che ci permettiamo di fare – siamo, ahimè, datati! – riguarda il “vezzo”, riscontrato anche in Frizza come, peraltro, in altri grandi direttori dei nostri tempi, di “stringere” drasticamente in corrispondenza di certe cadenze – come in quella che chiude il finale secondo – pur senza un’indicazione in tal senso dell’autore … Una gradita sorpresa ci hanno riservato, nel complesso, i cantanti del secondo cast. Monica Zanettin, nel ruolo eponimo, dimostra un ottimo controllo dei propri mezzi vocali, offrendo un personaggio nobilmente espressivo di laceranti conflitti interiori, che si dibatte tra l’amore per Radamès e l’attaccamento alla patria e alla famiglia, tra l’esteriore sottomissione al potere dei faraoni e il profondo desiderio di vederlo distrutto. In “Ritorna vincitor!… L’insana parola, o Numi, sperdete” si è apprezzato l’alternarsi di canto dispiegato e mezze voci a rendere questi insanabili contrasti, che si placano sfociando in una struggente invocazione ai Numi. Analoga padronanza tecnica, unita a finezza interpretativa, si è colta in “Qui Radames verra!… O cieli azzurri, o dolci aure native” dove, in un’atmosfera elegiaca, la nostalgia per la patria abbandonata per sempre si è intrecciata al rimpianto per il perduto amore. Ragguardevole sul piano vocale e interpretativo è apparso anche il Radamès di Diego Cavazzin, che ha saputo trovare gli accenti più adeguati in “Se quel guerrier io fossi!… Celeste Aida, forma divina”, in cui l’aspirazione alla gloria militare e il vagheggiamento dell’amata schiava etiope si fondono in un sogno radioso. Gli perdoniamo l’esecuzione, non proprio rispettosa delle intenzioni di Verdi, del conclusivo si bemolle acuto, che dovrebbe risuonare in pianissimo e “morendo”. Ma è prassi comune tra i tenori anche più applauditi intonarlo a voce piena. Credibile sul piano interpretativo l’Amneris – subdola e altera, infiammata dal desiderio di vendetta, ma anche capace di redimersi con un sincero pentimento – delineata da Silvia Beltrami, per quanto penalizzata da un’eccessiva vibrazione della voce. Pienamente nel personaggio di Amonasro è apparso Luca Grassi, che riesce ad evitare inopportune derive veristiche anche nel duetto del terzo atto con la figlia. Impeccabile la prestazione dell’ottimo Simon Lim (Ramfis), che ha sfoggiato il suo bel timbro rotondo. Si sono fatti onore anche Mattia Denti nei panni del Re d’Egitto, Antonello Ceron in quelli del messaggero e Rosanna lo Greco come Sacerdotessa. Ennesima prova positiva del coro, espressivo e stilisticamente adeguato. Grande successo, sancito dal calore degli applausi e di qualche acclamazione.