“La giara” e “Cavalleria rusticana” (Cast alternativo) al Teatro Regio di Torino

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera e di balletto 2018-2019
“LA GIARA”
Creazione in atto unico liberamente ispirata all’omonima novella di Luigi Pirandello
Musica Alfredo Casella
Tenore Francesco Anile
Regia, coreografia, scene e luci Roberto Zappalà
Drammaturgia Nello Calabrò
Costumi Veronica Cornacchini, Roberto Zappalà
Compagnia Zappalà Danza
Nuova Commissione del Teatro Regio
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Melodramma in un atto su libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci
Musica Pietro Mascagni
Santuzza CRISTINA MELIS
Turiddu FRANCESCO ANILE
Alfio GËZIM MYSHKETA
Lucia MICHELA BREGANTIN
Lola CLARISSA LEONARDI
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Andrea Secchi
Regia Gabriele Lavia
Scene e costumi Paolo Ventura
Luci Andrea Anfossi
Nuovo allestimento del Teatro Regio
Torino, 13 giugno 2019
È originale e stimolante il dittico siciliano che il Teatro Regio di Torino propone nella fase conclusiva della stagione 2018-2019. “5a tappa del progetto re-mapping Sicily” e al tempo stesso nuovo momento di riscoperta della musica di Casella, esso associa due soggetti che, per obbiettivi artistici e tecniche di rappresentazione, hanno ben pochi elementi in comune, ma la cui fruizione si concatena bene grazie all’ambientazione e alla pretesa rappresentazione di episodi della vita rurale e popolare. Il dittico unisce inoltre due frutti degli investimenti del Regio, giacché La giara è l’esito di una nuova commissione alla Compagnia Zappalà Danza, mentre a Cavalleria rusticana si è riservata una nuova produzione, affidata alla regia di Gabriele Lavia.Le novità più appariscenti si ravvisano nella prima parte, giacché l’argomento pirandelliano della Giara e la minuziosa mimesi musicale, del libretto e della partitura di Casella, scompaiono del tutto, sostituiti da un’azione coreografica tanto pimpante quanto astratta. Il lavoro di Roberto Zappalà si spiega come una reinterpretazione drammaturgica di Nello Calabrò, che definisce La giara «un luogo anti-panico». A partire da qui l’artista inanella una serie impressionante di corrispondenze simboliche, affinché lo spettatore si riprenda dallo smarrimento causato dalla totale mancanza di elementi narrativi. «Giara come pancia/bocca. Un segno doppio. […] La giara è una pancia, un interno che protegge e che ripara. La giara è il Mediterraneo, la Sicilia che accoglie. La giara come bocca, con i suoi danzatori/denti, è il cratere dell’Etna che periodicamente rigurgita le sue minacce di fuoco […]. Nella giara/pancia dove si immagazzina l’olio/liquido amniotico nasce il bambino, cioè la danza», e via metaforizzando, fino all’ultima sovrapposizione, tutta letteraria: «la giara è per zi’ Dima, per i danzatori e per tutti noi, come la Fortezza [sic] di Parma per Fabrizio del Dongo» (dal programma di sala, pp. 47-48). È ovvio che con tali premesse la concretezza esecutiva risulti del tutto spersonalizzata, fortunatamente esaltata dalla bravura degli undici danzatori in movimento dentro l’anello che li delimita, e anche dai magnifici costumi di Veronica Cornacchini e dello stesso Zappalà. Quanto all’impostazione coreografica, la rinuncia a raccontare la storia per come Pirandello l’aveva scritta e sceneggiata implica un problema nella risoluzione delle tante pagine musicali di Casella che, per ritmo, timbro o colore, hanno appunto come obbiettivo la rappresentazione di quanto accade nella vicenda originaria (i colpi che zi’ Dima assesta alla giara, il rumore del trapano, la rottura finale dell’otre). Zappalà non ignora tutto questo, ma – poiché prescinde da qualunque forma pantomimica – fa sì che i danzatori imitino la musica con movenze stilizzate, ossia ricorrano all’imitazione di un’imitazione … (Platone avrebbe manifestato qualche perplessità, ma evidentemente le impalcature simboliche e psicoanalitiche oggi risultano molto più appassionanti di qualunque vecchio concetto estetico). L’Orchestra del Teatro Regio, diretta da Andrea Battistoni, fa risuonare con brio e adeguata pluralità di colori le pagine di danza, ed è merito del direttore accentuare le molte consonanze della scrittura con lo Stravinsky più neoclassico. Il momento di più alta suggestione è la canzone della fanciulla rapita dai pirati («’Nta villi e valli e ’nta voscura funni», pubblicata dall’etnomusicologo Alberto Favara nella silloge di Canti della terra e del mare di Sicilia, 1883), intonata dal tenore Francesco Anile dietro le quinte, mentre le luci suggeriscono un quadro notturno. Il pubblico di Torino, pur in una serata di affluenza piuttosto scarsa (sebbene si tratti della prima rappresentazione con la seconda compagnia vocale), dimostra di apprezzare moltissimo il balletto con le musiche di Casella e la sgargiante traduzione scenica della Compagnia Zappalà Danza.Leggere le dichiarazioni di Gabriele Lavia su questa sua terza versione di Cavalleria rusticana riporta lo spettatore su un altro pianeta dell’universo del teatro musicale: «Sono partito dalla volontà di creare uno spazio inquietante, vuoto, scomodo, che in qualche modo corrispondesse a quello che nella mia mente è il mondo di oggi. […] La mia volontà è raccontare la vicenda senza aggiungere nulla.Ho cercato di fare un passo indietro, il regista non deve apparire, deve applicare la stéresis greca cioè la privazione» («La Stampa – Torino», 12 giugno, p. 54). La nera lava dell’Etna, ormai solidificata, e un tappeto di fiori rossi creano un contrasto di colori che determina la scena unica per il dramma verista. In essa sfilano la processione della mattina di Pasqua, il carretto di compare Alfio, gli avventori dell’osteria, insomma tutti quegli ingredienti nazional-popolari di cui di cui gran parte del melodramma italiano non si sarebbe più liberato (a dispetto degli sforzi di raffinamento della generazione di Casella, Malipiero, Pizzetti e Respighi). Anche Battistoni si compiace delle cadenze popolari e paesane delle più celebri pagine di Cavalleria rusticana, comunque all’interno di uno studio accurato dei tempi (sempre molto equilibrati), delle sonorità (opportunamente contenute) e degli accenti (a dimostrazione, ancora una volta, di quanto sia complicata l’agogica di Mascagni). L’intermezzo orchestrale brilla per la sua delicatezza; anche il quartetto vocale brilla, ma a luci alterne. Il migliore è di gran lunga il tenore Francesco Anile, un Turiddu dall’impostazione e dall’emissione molto corrette, con una linea di canto dallo stile piacevolmente antico; molto buono il baritono Gëzim Myshketa nel ruolo di Alfio; buona la Lola del mezzosoprano Clarissa Leonardi; l’altro mezzosoprano è Cristina Melis, la cui Santuzza all’inizio appare penalizzata da un registro difforme e da una voce con pochi armonici, salvo riprendersi e dare il meglio della sua prestazione nella romanza «Voi lo sapete, o mamma». Molto pregevole la prova del Coro del Teatro Regio, istruito da Andrea Secchi. Al termine, il pubblico tributa sentiti e prolungati applausi a tutti gli interpreti, ma certamente anche alla musica, confermando l’affezione perenne per il melodramma archetipico della scuola verista.   Foto Teatro Regio di Torino