Como, Teatro Sociale: “La Traviata”

Como, Arena del Teatro Sociale – Festival Como CittàDellaMusica 2019
LA TRAVIATA
Libretto di Francesco Maria Piave dal dramma La dame aux camelias di Alexandre Dumas figlio.
Musica
di Giuseppe Verdi
Violetta Valery SARAH TISBA
Flora Bervoix FRANCESCA DI SAURO
Annina FRANCESCA MARIA CUCUZZA
Alfredo  Germont ALESSANDRO FANTONI
Giorgio Germont MICHELE PATTI
Gastone GIACOMO LEONE
Barone Douphol LUCA VIANELLO
Marchese d’Obigny  FRANCESCO AURIEMMA
Dottor Grenvil  DAVIDE PROCACCINI
Giuseppe ERMES NIZZARDO
Un domestico di Flora/ Commissionario PAOLO MASSIMO TARGA
Ballerina di burlesque SOPHIE CHAMPAGNE
Orchestra 1813
Coro 200.Com
Direttore 
 Alessandro Palumbo
Maestri del Coro  Giuseppe Califano, Giorgio Martano, Mariagrazia Mercaldo, Alberto Maggiolo
Regia Andrea Bernard
Regia video Pierpaolo Moro
Scene Alberto Beltrame
Costumi Elena Beccaro
Luci Alessandro Carletti
Nuovo allestimento del Teatro Sociale di Como
Como, 27 giugno 2019
L’anno scorso il Sociale di Como aveva proposto, presso la sua Arena all’aperto, una formidabile resa di “Otello” di Verdi, senza dubbio discutibile, tanto quanto innovativa. Sulla via dell’innovazione si spinge anche “La Traviata“ di quest’anno, ma con risultati decisamente diversi: benché in entrambi i casi, infatti, le promesse fossero tante, quelle di questa “Traviata” sono state per la maggior parte disattese. La regia di Andrea Bernard, in primis, stravolge a tal punto l’assetto scenico da inficiare la fruizione musicale dell’opera: viene ricreato infatti un vero red carpet, su cui sfilano i cantanti, mentre vengono ripresi in presa diretta; Flora è una specie di giornalista di gossip pronta a intervistare tutti, e Violetta e il Barone arrivano su una macchina di lusso, scendendo tra una calca acclamante – composta dal coro e dal pubblico stesso, tenuto in piedi per tutto il primo atto. L’orchestra è in un angolo, dimenticata. I cantanti sono microfonati, ma qualcosa non funziona, e Violetta canta quasi tutto il primo atto ad apparecchio spento – per l’esclusivo godimento solo di chi le è appresso in quel momento, giacché lo spazio dell’Arena, è risaputo, non è deputato alla musica, quanto al parcheggio di autovetture. La sensazione è unicamente di disorientamento, fino al disagio e all’imbarazzo, per esempio su un “Libiamo nei lieti calici” tutto fuori tempo, a causa di un ritardo di segnale dell’impianto audio-video. Va meglio il secondo atto: otteniamo la grazia di sederci, il tappeto rosso scompare, viene creato un generico interno borghese su un palco al centro della platea, e si può godere meglio delle costruzioni scenico-drammaturgiche di Bernard, ma soprattutto dell’arte degli interpreti. Il terzo atto rimane strutturato nella stessa maniera (inspiegabili, dunque, i quasi trenta minuti anche del secondo intervallo), con un letto spartano circondato di colonnine dorate e cordon rouge, come nella migliore tradizione da passerella.Peccato che, tuttavia, la tematica della malattia venga elusa per tutto lo spettacolo, quindi l’effettivo senso di quel letto e degli spasimi di Violetta si perde – la domanda è spontanea: di cosa muore Violetta, se non le facciamo tirare manco un colpo di tosse? L’idea di base (né originale, né dagli esiti davvero felici) è che Violetta, dalla demi-mondaine del romanzo di Dumas, sia, oggigiorno, un po’ influencer, con ricorso anche a diverse schermate di Instagram proiettate alle sue spalle, e un po’ diva – sempre con le telecamere addosso, sempre avvolta in abiti splendidi (complimenti alla costumista Elena Beccaro), sempre infastidita nella sua condizione di vip. Lo spazio è gigantesco, e lo scenografo Alberto Beltrame dà giustamente fondo alla sua fantasia, inventando due palchi secondari, oltre al famoso tappeto rosso, salotti, banchetti e consimili. Tutto è troppo, e si perde di vista la ragione per cui dovremmo essere lì: l’opera, la recitazione sì, ma anche il canto; e la ragione per cui tutto ciò dovrebbe essere fatto: il pubblico. E qui sta l’aporia maggiore: la fruizione (oltre che per i frequenti inconvenienti tecnici) è compromessa dall’aspetto scenico-registico, più adatto al set di un film, che al teatro. L’idea che sembra serpeggiare è che il teatro non sia più interessante, e quindi ci buttiamo su una Traviata-evento, con continue proiezioni di presa diretta (che quindi non focalizzano lo spettatore sulla scena, ma sul grande videowall montato sopra di essa), ballerina di burlesque, selfie, sigari, coriandoli, palloncini: ci mancano solo lo champagne e il buffet offerto al pubblico e potremmo essere al vernissage di un importante atélier milanese. Questo, però, non dovrebbe – condizionale d’obbligo – essere un’esperienza mondana, ma culturale, teatrale e musicale. Buona parte del pubblico è, invece, quasi infastidita dalle lungaggini musicali scritte da un certo Giuseppe Verdi, così come è indifferente all’assenza dell’orchestra – che c’è, beninteso, ma non si vede, non si sente, è quasi ingiudicabile nel suo operato, e ci si dispiace con il Maestro Alessandro Palumbo, che, in alcuni punti, tenta praticamente l’impossibile, cioè tenere insieme i musicisti con i cantanti. Non è una bella sensazione, quella che si prova da amanti dell’opera: perché non ci si sente solamente quasi fuori posto, ma anche fuori dal tempo, fuori contesto. Eppure non siamo forse alla prima di un’opera? Sì e no: siamo alla prima di un evento che avrà tre repliche, durante il quale prenderemo parte ad un vero red carpet, con tanto di fan urlanti, fotografi, giornalisti che intervistano gli invitati in lingue diverse, lavoranti che corrono avanti e indietro, addetti stampa impazziti, bodyguard energumeni. Certo, arriverà la diva e canterà, ma facendolo firmerà autografi, poserà per fotografie, verrà intervistata. Poi, dal secondo atto, ci toccherà pure assistere alla parte teatrale; ma nel secondo quadro, via di nuovo di effetti speciali: mancano solo i fuochi d’artificio. Infine di nuovo teatro, ma per poco: lei muore tra le braccia di lui, emozionante, bellissimo, fine, applausi a cascate, di nuovo red carpet, “Dove andiamo a mangiare a quest’ora? Sarà tutto chiuso!”. Ecco: noi crediamo che l’opera non solo sia, ma debba essere più di questo, migliore di così; che chi va a vederla, vada per vedere il teatro, per ascoltare la musica e il canto. E allora ci scuserà l’organizzatore se non siamo troppo entusiasti di questi aspetti: sull’orchestra già si è detto; sulla regia anche: occorre tuttavia sottolineare una buona cura, quasi cinematografica, per l’appunto, per l’espressione dei volti, dei gesti, per i ritmi incalzanti; scene e costumi bellissimi ma talvolta fuori luogo (uno su tutti: l’abito troppo patinato, troppo hollywoodiano, di Violetta per il terzo atto, poco adatto ad una donna che ha dilapidato tutto il suo patrimonio per il suo amato); ci rimane la compagine canora. Sarah Tisba (Violetta) è giovane, è molto bella, è splendidamente interpretativa, ma vocalmente forse non sempre centrata per un ruolo di tanta difficoltà: buonissimi i suoi centri, ben proiettati gli acuti, ma non sempre l’intonazione e le agilità sono controllate a sufficienza; tuttavia il suo fascino e il suo temperamento la rendono indubbiamente la più amata dal pubblico. Michele Patti è un Giorgio Germont di ragguardevole qualità: il bel colore timbrico del baritono genovese viene prestato a una bella linea di canto, fornendo un’interpretazione senza dubbio convincente Colpisce in Patti soprattutto l’adeguatezza del fraseggio, vario al punto giusto, altamente espressivo. Prove positiva anche per Francesca di Sauro (Flora Bervoix) e Francesca Maria Cucuzza (Annina), entrambe vocalità ben strutturate; il Barone Duphol di Luca Vianello è molto presente dal punto di vista scenico, e pure si distingue per vocalità solida e sicura. L’Alfredo di Alessandro Fantoni appare come l’elemento che meno ha convinto del cast: scenicamente impacciato, vocalmente mostra delle fragilità nel registro acuto e una linea di canto complessivamente generica, sufficientemente corretta, senza brillare. Corrette le prove del resto del cast. Infine, non si può prescindere dal coro, che dovrebbe essere il vero protagonista di questa produzione: infatti il progetto estivo del Sociale è quello dei 200.com, cioè un coro di cittadini che volontariamente ogni anno si incontrano e si impegnano nella preparazione di un’opera da proporre alla città nei mesi estivi. Quest’anno il coro è addirittura di circa trecento componenti – in barba al loro nome – e gli viene richiesta un’interazione scenica onerosa, soprattutto nel primo atto di cui sopra, nel quale sono divisi a gruppetti di poche persone sparsi tra il pubblico. Trattandosi di non professionisti, non possiamo che apprezzare la loro estrema dedizione e il coinvolgimento che dimostrano chiaramente; il risultato canoro è, tuttavia, da considerarsi discontinuo, certamente penalizzato da una regia dagli esiti troppo opinabili.