Torre del Lago, 65° Festival Puccini 2019: “La fanciulla del west”

Torre del Lago (LU), Gran Teatro “Giacomo Puccini”– 65° Festival Puccini
“LA FANCIULLA DEL WEST”
Scene liriche in quattro quadri su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini, dal dramma “The Girl of the Golden West” di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini
Minnie MARIA GULEGHINA
Jack Rance LUCA GRASSI
Dick Johnson ALEJANDRO ROY
Nick FABIO SERANI
Ashby IVAN MARINO
Sonora LUCA BRUNO
Trin ALBERTO PETRICCA
Sid ANDREA DEL CONTE
Harry MARCO VOLERI
Joe TIZIANO BARONTINI
Happy MICHELE PERRELLA
Bello FRANCESCO LOMBARDI
Larkens ANDREA DE CAMPO
Billy Jackrabbit ALESSANDRO CECCARINI
Wowkle ANNUNZIATA VESTRI
Jake Wallace DANIELE CAPUTO
Josè Castro MASSIMO SCHILLACI
Un postiglione MATTEO BAGNI
Orchestra della Toscana
Coro del Festival Puccini
Direttore Alberto Veronesi
Maestro del coro Roberto Ardigò
Regia, scene, costumi Renzo Giacchieri
Light designer 
Nino Napoletano
Nuovo allestimento Fondazione Festival Pucciniano
Torre del Lago, 12 luglio 2019
Si apre il Festival Puccini di quest’anno con una produzione nel pieno segno della tradizione, ma con un titolo del repertorio ancora non così frequente, quale “La fanciulla del West”. Titolo magnifico e degnissimo (quale non lo è, tra le dodici opere pucciniane?), ma certamente più difficile, rispetto alla maggior parte delle altre composizioni del Maestro, per varie ragioni: la prima è la travagliata gestazione del libretto, che Puccini costantemente contestava e rimaneggiava, e dell’opera più in generale (siamo tra il 1908 e il 1910, gli anni dell’affaire Doria Manfredi, la cameriera adolescente per il suicidio della quale si intentò causa ai coniugi Puccini, con tanto di condanna per la moglie del compositore); la seconda è l’ambientazione americana, gusto di presa non facile sul pubblico italiano di ieri e di oggi; la terza è senz’altro per la struttura musicale dell’opera, “wagneriana” si suole dire: un continuum sinfonico splendidamente orchestrato che evita quasi totalmente arie, romanze o “numeri chiusi” per costruire una vera narrazione musicale, una partitura della scena e non su di essa; la quarta – e ci fermiamo qui – è l’assoluta predominanza della figura maschile, in un’opera che paradossalmente tutti chiamamano “Fanciulla”, compreso Puccini (che era solito riferirsi ad essa come “la mia girl”): personaggi maschili – con l’esclusione solo della protagonista e della serva Wowkle, forse la parte secondaria più risicata e meno riuscita dell’intera produzione pucciniana – ma anche coro unicamente maschile, che, se non ben gestito e motivato, rischia di annoiare nemmeno troppo alla lunga. Il pubblico, nell’ampia cavea del Gran Teatro, inizia borbottando proprio la scelta del titolo; e, in fin dei conti rimane fedele alla sua critica fino al termine dell’esecuzione, dove gli applausi sono numerosi, ma non quanto ci si aspetterebbe, e le chiamate poche. Certo è da ascrivere a questo tiepido successo anche la performance di Maria Guleghina, che debutta nel ruolo di Minnie proprio qui, dopo averlo anelato per anni. L’appuntamento tra il personaggio e l’interprete è, tuttavia, stato rimandato davvero per troppo, e forse la ragione di questo ritardo è che non ci fossero nemmeno le prerogative perché questo incontro avvenisse: fatto sta che chiunque in sala ha potuto assistere a un’interpretazione sottotono da parte del soprano ucraino. La voce appare decisamente stanca: opaca nella zona centrale, poco  controllata in acuto. Ciò va a scapito della linea di canto e i  pochi guizzi “veristi” non bastano a costruire un personaggio che anche dal punto vista scenico appare innaturale: tutta uno sbracciarsi inutile, un goffo ostentare naturalezza – talvolta sembra smarrita in scena, sulla quale si aggira di continuo, soprattutto nel primo atto. L’interprete, che aveva fatto anche di una certa fisicità prorompente la sua cifra, in passato, oggi sembra stanca e imbarazzata, trascurata proprio sul piano della consapevolezza corporea. Non c’è dubbio che ad evidenziare questa resa sia anche la regia di Renzo Giacchieri: se da un punto di vista scenografico e costumistico Giacchieri si mantiene sul piano della rassicurante tradizione – regalandoci boiserie costante, tronchi d’alberi giganteschi, fogge western e atmosfere à la Jack London –, francamente inspiegabili sono certe scelte registiche, soprattutto riguardo ai personaggi principali. Il primo atto vede un’organizzazione scenica disomogenea, spesso incastrata nell’angolo a sinistra, almeno fino all’arrivo di Dick; nel duetto d’amore Minnie-Dick del secondo atto sfioriamo quasi il ridicolo, con una sistematica spoliazione di qualsiasi seduzione. La scena del bacio è addirittura imbarazzante, con Minnie che prende la rincorsa dall’altro capo del palco per “assalire” Dick. Meglio il terzo atto, se non fosse per il pallone gigante arancione che sorge sul finale, a mo’ di sole, che spezza – ancora una volta – la credibilità del sentimento tra i protagonisti, fino a quel momento ben costruita in quella scena. Il pubblico ridacchia, nemmeno troppo a denti stretti, e si chiede le ragioni di certe scelte paradossali – senza ottenere risposte, giacché quest’anno sembra che si sia voluto fare a meno dei programmi di sala. Sul piano canoro, Alejandro Roy è un Dick Johnson complessivamente riuscito: la voce è piena e pastosa, il registro acuto solido, l’interprete è però monocorde, poco attento a colorare maggiormente il fraseggio. Il Jack Rance di Luca Grassi non ci è sembrato molto a fuoco: la linea di canto del baritono emiliano è corretta, il fraseggio non molto scavato ma rifugge almeno a inutili gigionismi vecchio stile. Gli altri numerosissimi interpreti, al contrario, regalano esecuzioni più che corrette: tra di loro spiccano senz’altro Fabio Serani (Nick), che mostra una vocalità sana e morbida, linea di canto omogenea, fraseggio convincente, Luca Bruno (Sonora), interprete esuberante, dal bel timbro  e buona presenza scenica, e Daniele Caputo (Jack Wallace) protagonista di un momento breve quanto intenso, ben fraseggiato. Una nota di apprezzamento anche per Annunziata Vestri, che, alle prese con un personaggio non certo di spicco come Wowkle, sa conferirle carattere grazie a una voce ricca e piena. Il coro, da parte sua, si mette in mostra con facilità in un’opera certo non avara di parti di insieme: sia nel primo che nel terzo atto si mostra coeso, incalzante e presente in scena. Anche la direzione d’orchestra del maestro Alberto Veronesi è stata condotta con un certo piglio, oltre che un gusto drammaturgico preciso: l’orchestra pareva più al servizio della scena che in simbiosi con essa. In alcuni punti, questo accompagnamento è parso adeguato (come il magistrale finale del secondo atto, con la partita a carte e la vittoria di Minnie), in altri forse un po’ troppo “permissivo” con gli interpreti; in ogni caso, un plauso al maestro per aver tenuto insieme al meglio l’orchestra e il cast, che, per lo meno nelle parti principali, si è mostrato la scelta meno felice della produzione. Foto La Bottega dell’Immagine