Martina Franca, 45a edizione del Festival della Valle d’Itria 2019: “Il matrimonio segreto” di Cimarosa

Martina Franca, 45a edizione del Festival della Valle d’Itria 2019
IL MATRIMONIO SEGRETO”
Dramma giocoso in due atti, libretto di Giovanni Bertati.
Musica di Domenico Cimarosa
Versione di Michele Spotti, Pier Luigi Pizzi e Carmen Santoro (2019)
Edizione critica a cura di Franco Donatoni (Casa Ricordi, Milano)
Signor Geronimo MARCO FILIPPO ROMANO
Elisetta MARIA LAURA IACOBELLIS
Carolina BENEDETTA TORRE
Fidalma ANA VICTORIA PITTS
Conte Robinson VITTORIO PRATO
Paolino ALASDAIR KENT
Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari
Direttore Michele Spotti
Maestro al cembalo Vincenzo Rana
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Luci, regista assistente Massimo Gasparon
Martina Franca, 31 luglio 2019
Ritorno col botto, quello di Pier Luigi Pizzi al Festival della Valle d’Itria. Chiamato a curare regia, scenografia e costumi del giocoso Matrimonio segreto di Domenico Cimarosa e della tragica Ecuba di Nicola Manfroce, Pizzi elabora un unico spazio scenico, riempiendolo, arredandolo e illuminandolo a seconda delle esigenze drammaturgiche dei due testi e, soprattutto, della propria visione registica. Diamo qui conto della messinscena del primo titolo, salutata al debutto, lo scorso 16 luglio, da una calorosa accoglienza. Una grande scatola a forma di parallelepipedo disposto per lungo, chiusa sul fondo e ai lati, aperta sul davanti e sul “tetto”, suddivisa in tre moduli perfettamente simmetrici. Dove le pareti sono assenti ci si immagina una superficie trasparente, giacché quasi mai i personaggi varcano il perimetro della scatola. Sicché questa, a pensarci bene, finisce per somigliare pericolosamente a una gabbia, o a una teca da laboratorio, all’interno della quale il regista dispone i suoi personaggi, come uno scienziato fa con le sue cavie, per poi osservarne i comportamenti – complici le luci fisse e implacabili di Massimo Gasparon – con sguardo disincantato, ironico, a tratti persino spietato. Nelle sue linee sobrie e prevalentemente ortogonali, nei colori ridotti alla gamma primaria – la mente corre a Mondrian, ma anche all’architettura e al design funzionalisti – l’impianto scenografico esalta la visione distaccata e razionalista del regista, il quale mette in scena una lucida anatomia dei sentimenti umani. Tra le opere che tappezzano le pareti della casa di Geronimo riconosciamo le tele di Burri e Fontana, rappresentanti di quell’arte italiana sempre più quotata nelle grandi case d’asta. Il parvenu smanioso di ascesa sociale è divenuto un mercante d’arte o meglio – ci par d’intendere, anche a giudicare dai colori vistosi del suo abbigliamento – un ignorante arricchitosi grazie al commercio di quadri e sculture à la page, le stesse che colleziona nella propria dimora senza in realtà capirle. Persino le figlie e la sorella sono esibite alla stregua di pregiati oggetti di arredamento, uno status che a quelle non sembra poi dispiacere più di tanto, almeno a giudicare dalla vanitosa disinvoltura con cui indossano i loro abiti ricercati ed estrosi (opera della raffinata Sartoria Latorre). In fondo, la lussuosa casa di Geronimo non è così male come prigione: e qui sta il punto essenziale di una (ri)lettura che riesce a recuperare l’acida critica sociale degli antecedenti inglesi del libretto di Bertati (la pittura satirica di Hogarth, poi riversata nella commedia da Colman e Garrick), al tempo stesso conferendo alla vicenda un senso di molle decadenza che ben si accorda con quel tanto di edonistico che esala dall’insistita, fluente melodiosità della partitura. Resterà deluso chi si aspetti di ritrovare il dinamismo scatenato che si è soliti associare al genere buffo. Qui ogni movimento è centellinato con parca misura. Nell’impostazione registica di Pizzi – dove all’elegante pulizia scenica fa riscontro una recitazione emendata delle “caccole” di una tradizione, grazie al cielo, sempre più lontana – i personaggi interagiscono soprattutto da seduti. Non è un caso che la scena, articolata in una sala da pranzo centrale e due salotti laterali, sia letteralmente disseminata di sedie, sgabelli e divani, a rendere evidente, oltre che col lusso dell’ambiente e dei costumi, il pigro girare su stessa di un’umanità che, a viver rinchiusa in quella prigione di lusso, si è disavvezzata persino a star in piedi. Il benessere assicurato dai soldi ha ormai assopito ogni desiderio di ribellione e di fuga, pertanto non sorprende che gli innamorati rimandino continuamente l’“evasione”, risolvendosi ad attuarla soltanto alla fine, e anche allora senza troppa convinzione. In fondo né Carolina né Paolino desiderano davvero abbandonare le comodità garantite dalla ricchezza di Geronimo. Persino l’eros, esibito sulla sinfonia nei corpi più o meno nudi dei due giovani intenti alle loro effusioni amorose, e palpitante sotto la scorza di rispettabile compostezza della zia Fidalma, dovrà soccombere di fronte alle ragioni della sicurezza economica. Al termine della girandola resteranno gli ovoidi di Castiglioni e i tagli nelle tele di Burri – simili a ferite dell’anima o ad aperture genitali, a seconda di come li si guardi – a denunciare una femminilità e un desiderio di maternità mai realmente sopiti, donando così rilievo inconsueto ai personaggi di Elisetta e, in misura anche maggiore, della “sconfitta” zia.I giovani cantanti rispondono alle idee del regista con ammirevole aderenza fisica e vocale. Domina la compagnia il Geronimo di Marco Filippo Romano: voce piena, bella e duttile al servizio di un fraseggio che è lucido mercurio e che fa tutt’uno con la nitida scolpitura della parola, senza neppure l’ombra delle esagerazioni della più vieta tradizione. Ne vien fuori un personaggio che, a dispetto del suo ottuso attaccamento ai soldi, possiede persino un certo charme. Bravo anche Vittorio Prato nei panni di un Conte Robinson meno irreprensibile di quanto vorrebbe far credere il libretto, spaccone e disposto anch’egli a sacrificare le ragioni del cuore a quelle del denaro (i centomila scudi della dote di Elisetta sono una ragione più che sufficiente per accettare di sposarla). Incantevole la coppia composta dalla Carolina di Benedetta Torre, timbro di madreperla, fraseggio chiaroscurato, carisma da vendere, e dal Paolino di Alasdair Kent, voce non debordante ma luminosa ed emessa con classe e intelligenza. Note liete anche per Elisetta, cui Maria Laura Iacobellis dona, con la voce, l’accento e la presenza scenica, la fisionomia di un’adolescente volitiva pronta a sfoderare una sensualità che non ha poi molto da invidiare a quella della sorella, mentre la Fidalma di Ana Victoria Pitts, timbro corposo e figura avvenente, lascia trapelare una femminilità tutt’altro che inoffensiva. L’ottima orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari è diretta dal ventiseienne Michele Spotti, cui si deve una concertazione di grande trasparenza ed elasticità, capace di valorizzare la raffinata strumentazione di Cimarosa e assecondare tanto le inflessioni più malinconiche quanto i momenti di maggiore vitalismo senza che mai ne scapiti il ritmo del racconto. Foto Lapolla