“Anna Bolena” alla Scala

Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’opera e di balletto 2016-2017
“ANNA BOLENA”
Tragedia lirica in due atti su libretto di Felice Romani
Musica Gaetano Donizetti
Enrico VIII CARLO COLOMBARA
Anna Bolena HIBLA GERZMAVA
Giovanna Seymour SONIA GANASSI
Lord Rochefort MATTIA DENTI
Lord Riccardo Percy PIERO PRETTI
Smeton MARTINA BELLI
Signor Hervey GIOVANNI SEBASTIANO SALA
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Ion Marin
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia Marie-Louise Bischofberger
Scene Eric Wonder
Costumi Kaspar Glarner
Luci Bertrand Couderc
Produzione Opéra National de Bordeaux
Milano, 4 aprile 2017

«O il tuo trionfo apprestisi, / o il tuo disastro estremo». La dicotomia di esito già suggerita dal libretto di Felice Romani sembra riflettersi sempre sulle recite scaligere di Anna Bolena. Nel Novecento, com’è noto, le edizioni furono praticamente due: quella celebre dell’aprile 1957 (ripresa nello stesso mese dell’anno successivo) e quella sciagurata del febbraio 1982, nata dall’infausta decisione di riproporre l’allestimento di Luchino Visconti e Nicola Benois di venticinque anni prima. Lo spettacolo importato oggi da Bordeaux costituisce dunque il primo apparato visivo “nuovo” alla Scala dal lontano 1957 (ma guai a chi azzardasse un confronto di qualunque tipo tra i due …); più complessa, ovviamente, la vicenda degli interpreti, anche se i trascorsi novecenteschi possono aiutare a comprendere quanto accaduto in questi giorni. Nel 1982 la prima del 14 febbraio fu annullata e differita di una settimana: Montserrat Caballé, indisposta, avrebbe dovuto essere sostituita da Ruth Falcon ma il pubblico non lo permise; la serata del 21 iniziò male, la Caballé fu ferma nel proposito di condurre a termine la recita, che si concluse ancora peggio. Dopo il clamoroso insuccesso della prima, le quattro repliche furono felicemente sostenute dalla giovanissima Cecilia Gasdia, fresca vincitrice del concorso Callas. Trentacinque anni più tardi la Scala decide di rimettere in scena la Bolena con una delle sue interpreti più apprezzate, Anna Netrebko. Ma da tempo si sa che la primadonna non verrà a Milano, e che il teatro ha dovuto provvedere alla sostituzione. Hibla Gerzmava è il soprano, di carriera quasi esclusivamente russa, che ha accettato l’impegnativa sfida: la perde alla prima del 31 marzo ma la vince, con apprezzabile successo, alla seconda recita. La cronaca di questa Anna Bolena dimostra ancora una volta l’utilità della dialettica tra prima e seconda rappresentazione, soprattutto ai fini di un giudizio più equilibrato e più meditato. Legittime, ma senza valore assoluto, sono state infatti le stroncature dello spettacolo comparse nei principali giornali italiani all’indomani del 31 marzo; la loro diffusione ha ingenerato un clima di forte prevenzione nei confronti della replica, tanto che nel corso dell’intera serata la freddezza del pubblico si mantiene costante (un gelo che rende di ironia tragica la prima battuta di Anna: «Sì taciturna e mesta / mai non vidi assemblea!» – Il trillare dei telefoni, poi, potrà vellicare la fantasia dei fautori del complottismo: un cellulare squilla esattamente quando Smeton canta «Ah! Parea che per incanto / rispondessi al mio soffrire», in I ix). Soltanto a partire dalla metà del II atto gli applausi si liberano un po’ più spontaneamente, a fronte di interpretazioni musicali di discreta o buona fattura. Alla fine che accade? Apprezzamento e applausi compatti per la protagonista; approvazione per gli altri (tranne che per il basso e per il mezzosoprano), aperto dissenso nei confronti del direttore d’orchestra. In effetti, il responsabile di tutte le criticità è Ion Marin: se anche la direzione e la concertazione fossero state impeccabili, la scelta di presentare l’opera scorciata e tagliata come si faceva negli anni Cinquanta avrebbe comunque destato fastidio e amarezza. È inutile, e quasi oltraggioso, che le locandine richiamino quale testo di riferimento l’edizione critica di Paolo Fabbri pubblicata da Fondazione Donizetti di Bergamo e Ricordi di Milano, se poi l’opera effettivamente eseguita sottrae ben più di mezzora di musica, mantenendo tutti i tagli della tradizione inaugurata da Gianandrea Gavazzeni; ed è paradossale che tale sconcio si proponga proprio alla Scala, assente il titolo da trentacinque anni, quando soltanto nel novembre 2015 il Teatro Donizetti di Bergamo ha riproposto Anna Bolena in forma integrale, rivelando la bellezza e la funzionalità di tutti i da capo, le riprese, le introduzioni orchestrali, grazie all’attenta e scrupolosa lettura di Corrado Rovaris. La mannaia di Marin, al contrario, tarpa le ali a ogni ambizione di granditas che anima la partitura: quel «sublime tragico» che Giuseppe Mazzini riconosceva all’opera nel saggio Filosofia della musica (1836) e quell’imponenza delle architetture che permette il confronto con titoli come Semiramide, Il crociato in Egitto, L’ultimo giorno di Pompei, tutte anteriori di pochi anni rispetto alla Bolena, crollano drasticamente in un’esecuzione che già trent’anni fa sarebbe stata considerata di impostazione obsoleta. Se l’ouverture è alquanto bandistica, nelle varie scene Marin ricerca sempre quelle stilizzazioni del discorso e dei caratteri musicali tipiche del Rossini serio, tralasciando però completamente gli empiti romantici e le dinamiche donizettiane, molto più rapide nel mutamento e nel capovolgimento; di conseguenza il trattamento degli archi è inadeguato, alcuni numeri che dovrebbero essere drammaturgicamente decisivi risultano scialbi, slentati, privi di accenti netti e senza nerbo (come, per esempio, il terzetto del II atto), mentre altri scorrono via assurdamente rapidi e pericolosi per i cantanti (come la cabaletta finale di Anna, «Coppia iniqua, l’estrema vendetta»). In altre parole – brutali ed efficaci – il direttore sembra impegnarsi in ogni modo per irritare il già fortemente prevenuto pubblico scaligero. Hibla Gerzmava possiede una voce corposa, dalle risonanze rotonde e morbide, anche se nel registro acuto la grana si sfrangia un poco, sbiancandosi; nella zona del passaggio emerge invece un vibrato cortissimo, a volte appena percepibile; dizione, intonazione e linea di canto risultano corrette, nonostante qualche stridore nel corso delle agilità, in particolare quelle del I atto. Rinfrancata dalla tolleranza del pubblico l’interprete reagisce meglio nel II, quando si sforza di modulare stili ed emissioni differenti, a seconda della situazione: nei momenti drammatici e violenti riesce più commovente che in quelli lirici e patetici, ma la grande scena della pazzia è del tutto credibile e persuasiva (dall’attacco perfetto di «Al dolce guidami / castel natio» fino all’esagitata cabaletta finale, pregevole anche per la capacità di legato delle varie frasi). Il tenore Piero Pretti ha voce piccola ma assai bella, e cura molto l’emissione e il dosaggio dei fiati, con un fraseggio attento, a volte anche ricercato. Tende ad aprire gli acuti, con un effetto di inadeguatezza che non sfugge al pubblico; nel corso del II atto la sua prestazione però migliora notevolmente, soprattutto nel duetto con Rochefort. Martina Belli interpreta il ruolo en travesti del paggio Smeton: oltre alla debolezza del registro basso, piuttosto tipica e prevedibile quando una voce di mezzosoprano affronta il repertorio contraltile, accusa qualche incertezza nei fiati, forse dovuta alla tensione; la sua prova è comunque apprezzabile, anche grazie alla plausibilità attoriale e all’impegno con cui si muove sulla scena. Deludente la prova di Sonia Ganassi, nella difficile parte di Giovanna Seymour: oltre ai consueti difetti di dizione e fraseggio, l’ascoltatore percepisce una generale stanchezza che compromette gran parte degli interventi (accumulandosi, specie nelle agilità del grande duetto del II atto). Anche la prova di Carlo Colombara, nelle vesti di Enrico VIII, è generalmente inadeguata; nonostante l’abilità e l’espressività con cui simula la buona accoglienza di Percy, sin dall’inizio la linea vocale è imprecisa nell’intonazione e poco curata nel fraseggio, a differenza del solito. La voce stessa, per di più, appare sbiancata e manca del timbro che ha reso celebre questo cantante; forse per un’indisposizione, nel terzetto del II atto è spesso obbligato a inflessioni parlate, fuori della maschera. Corretti il Rochefort di Mattia Denti e l’Hervey di Giovanni Sebastiano Sala (quest’ultimo è solista dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici della Scala). Molto buoni i cori maschile e femminile istruiti da Bruno Casoni. L’allestimento di Marie-Louise Bischofberger prevede una scena unica, formata da una cornice sbilenca collocata sullo sfondo, e da un unico elemento che ne occupa lo spazio anteriore: un gigantesco trono d’oro, all’inizio velato, poi scoperto da Enrico quale promessa nuziale per Giovanna, più tardi giaciglio della disperazione di Anna e infine, con repentina metamorfosi, scaletta del patibolo per la regina condannata a morte. L’atmosfera è di generale oscurità, squarciata soltanto da sporadiche luci sullo sfondo, con videoproiezioni di lontano gusto espressionista. Grigi e convenzionali anche i costumi di Kaspar Glarner, poco significativo l’impianto delle luci di Bertrand Couderc. A dire il vero una regia vera e propria non c’è, o meglio non si apprezza in termini di concreti risultati teatrali: la gestualità dei personaggi non appare troppo curata, e – peggio – i movimenti del coro sono del tutto aleatori (nel 1957 Franco Abbiati, recensendo lo spettacolo di Visconti sul «Corriere della Sera», poté dire della regia: «ha graduato le distanze e le prospettive, ha spostato gli schemi da gioco di scacchi e ha fatto, di ogni figura dei cori, un personaggio diverso. Tradizione, sì; ma non manierismo»). Le trovate di Bischofberger sono anche volgari: Enrico offre a Giovanna una flûte di champagne, producendo una di quelle cadute di stile da cinema peplum; nel quintetto della scena venatoria del I atto gli interpreti si tengono tutti per mano, come se già si presentassero alla ribalta finale per raccogliere gli applausi (metateatro spicciolo?); in ogni snodo drammatico di entrambi gli atti interviene una bimba, la figlia di Bolena, effettivamente evocata da Enrico («la sua figlia / ravvolge anch’essa nella sua ruina», II vii) ma non per questo obbligata a presenziare in quasi ogni numero; insomma, tanto manierismo e nessuna idea forte sui principali personaggi e sul loro tragico destino. Certamente Anna Bolena rappresenta un’opera molto difficile e impegnativa per qualsiasi grande teatro; se poi si prescinde dal rispetto del testo musicale, come accaduto in questo allestimento, la sfida rischia di essere persa in partenza. D’altra parte, la Bolena rappresentata per la prima volta il 26 dicembre 1830 al Teatro Carcano, non era nata appunto quale sfida nei confronti della stessa Scala? «Dal punto di vista economico, poi, era davvero il duello tra Davide e Golia: il Carcano non aveva dote alcuna, mentre la Scala e i suoi impresari potevano contare su una cospicua sovvenzione governativa», come scrive Paolo Fabbri nel bel saggio che correda il programma di sala (Una sfida alla Scala, p. 54). Già il 25 febbraio 1832, a ogni modo, l’opera si rappresentava anche nella sala di Piermarini, e sempre con Giuditta Pasta come interprete protagonista, inaugurandosi la serie di quattro edizioni ottocentesche; quelle novecentesche sarebbero state di meno, eppure a titolo diverso di prove archetipiche restano felicemente impresse nella memoria acustica di ognuno. Difficilmente si potrà dire lo stesso della prima ripresa del XXI secolo.   Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala