Bologna, Teatro Comunale: “Die Entführung aus dem Serail”

Bologna, Teatro Comunale, Stagione d’opera 2017
“DIE ENTFÜHRUNG AUS DEM SERAIL”
Singspiel in tre atti su libretto di Christoph Friedrich Bretznev, rielaborato da Johann Gottlieb Stephanie il giovane. Adattamento dei dialoghi di Martin Kušej e Albert Ostermaier.
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Selim KARL-HEINZ MACEK
Konstanze
CORNELIA GÖTZ
Blonde
JULIA BAUER
Belmonte
BERNARD BERCHTOLD
Pedrillo
JOHANNES CHUM
Osmin
MIKA KARES
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Nikolaj Znaider
Regia Martin Kušej
Scene  Annette Murschetz
Costumi Heide Kastler
Luci Reinhard Traub
Produzione del Teatro Comunale di Bologna con il Festival d’Aix-en-Provence e il Musikfest Bremen
Bologna, 22 gennaio 2017
A voler cambiare titolo, potremmo rinominarlo Il ratto asserragliato, dacché la produzione del Singspiel mozartiano ha luogo in un teatro blindatissimo, poliziotti a ogni ingresso, metal detector alla mano. D’altronde era noto da giorni: il Comunale bolognese ospita l’allestimento di Martin Kušej, già visto ad Aix-en-Provence, niente esotismi da favola, ad accogliere la vicenda un deserto mediorientale all’alba del Novecento, epoca in cui certi nodi attuali (sgretolarsi del colonialismo, lotta per il petrolio, aspri conflitti di religione) erano già venuti abbondantemente al pettine. Cambi di cast, livelli di sicurezza alle stelle. Se la materia scotta è anche per i dialoghi riscritti da Albert Ostermaier, che creano attorno alla musica mozartiana (lasciata completamente intatta) una drammaturgia affine all’originale, ma con profonde cadute in più cupo abisso. A rischio di spoiler, impossibile non narrare qualche frammento d’azione. Al bando i toni leggeri o fiabeschi, perché tutto sa di crudo realismo: Osmin è feroce, sprezzante, mai tonto. Gli Europei sono oggetto di tortura: Pedrillo è semisepolto nella sabbia, le truppe del Pascià si fanno foto con gli ostaggi di fronte a nera bandiera mentre il coro  (in buca, quindi invisibile) intona il suo primo gaio intervento a stridente contrasto. Il sentimento sgorga quando una Konstanze inquieta intona “Traurigkeit” alla luce di un fuoco notturno o quando le si presenta in ginocchio un Selim sanguinante nel fisico e nell’animo, quasi ad accusarla d’essere causa di quelle “torture d’ogni sorta” evocate nell’ultima mirabolante aria del primo soprano. Nel terz’atto si mescolano le carte: la fuga riesce, ma gli amanti errano nel deserto soli perduti abbandonati come Manon. Fra i silenzi dell’agonia si leva (bel colpo di teatro) la serenata di Pedrillo, sorta di miraggio in musica incalzato da pizzicati febbrili come il delirio dei fuggiaschi. E se in Mozart/Bretzner vince infine il perdono di un pascià illuminato alla maniera di Giuseppe II, qui sarà un Islam feroce e poco conciliante ad aver la meglio. Una compagnia quasi tutta madrelingua esalta la densa rilettura, tutti recitano assai bene (ottimo Karl-Heinz Macek nel ruolo di Selim) e sfoderano canto forse non emozionante per dovizia di mezzi, ma piuttosto efficiente. Vedi il tenace Belmonte di Bernard Berchtold che avrà pure acuti ora duretti ora nasalotti e timbro fin troppo chiaro, ma infila le tre arie tenorili senza tagli e con invidiabile tenuta, mostrandoci un personaggio debole più che eroico. Più intensa, ma anche lei più patetica che drammatica, la Konstanze di Cornelia Götz, che screzia e frammenta il fraseggio, pur non sfoggiando grande proiezione o sovracuti immacolati. Pedrillo e Konstanze hanno onesti alfieri in Johannes Chum e Julia Bauer, più spigliati e squillanti dei colleghi ma con qualche suonaccio di troppo. Mika Kares funziona meglio qui che come Sarastro (lo ricordiamo nella Zauberflöte dell’anno scorso) e anche se certe note ipergravi pensate per il primo Osmin proprio non le ha, ha buona proiezione e bel timbro. Intanto in buca Nikolaj Znaider tesse intorno alla compagnia di canto un Ratto più attento al bel suono che al fraseggio storicamente informato. L’esotico non è mai orgiastico o selvaggio: la banda turca suona lucida e filante più che barbara, timbro prezioso fra i tanti di una tavolozza strumentale levigata. L’Orchestra del Comunale risponde elastica, mette in risalto acciaccature e ribattuti col legno, incanta con soavissime espressive note lunghe del primo oboe. Smagliante patina orchestrale sotto la cui lucida superficie il giovane talentuoso violinista danese passato alla bacchetta sa scavare: basti il Quartetto che chiude il second’atto, staccato nell’Andantino centrale a tempo disteso e pulsazioni gentili, perfetto per schiudere un incanto introspettivo che prelude ai concertati dapontiani o addirittura al Quartetto del Fidelio, tanto si fa denso d’inesprimibili significati.
Ratto forse non rivoluzionario ma per nulla scontato, esperienza d’ascolto e visione impegnativa, tempo sospeso dalla prima nota all’ultima. Certo pubblico tace d’un silenzio sospetto: più catatonico che assorto a contemplare i dissidi fra amanti fedeli e fra Oriente e Occidente, qui più vivi che mai.