Bologna, Teatro Comunale: “Luci mie traditrici” di Salvatore Sciarrino

Bologna, Teatro Comunale, Stagione Lirica 2016
“LUCI MIE TRADITRICI”
Opera in due atti su libretto di Salvatore Sciarrino da Il tradimento per l’onore di Giacinto Andrea Cicognini.
Musica di Salvatore Sciarrino
La Malaspina KATHARINA KAMMERLOHER
Il Malaspina OTTO KATZAMEIER
L’Ospite LENA HASELMANN
Servo CHRISTIAN OLDENBURG
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Marco Angius
Maestro del Coro di voci bianche Alhambra Superchi
Regia Jürgen Flimm
Scene Annette Murschetz
Luci Irene Selka
Coreografia Carola Tautz
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna in coproduzione con la Staatsoper unter den Linden di Berlino
Bologna,  17 giugno 2016      
È sempre bello tornare al Comunale di Bologna, uno dei pochissimi teatri lirici in Italia capaci di proporre una programmazione interessante, aggiornata e alternativa alle rimasticature del consueto repertorio. Eppure la ricetta è semplice: basta guardarsi attorno, nei cartelloni dei grandi teatri internazionali dove le novità non consistono esclusivamente in chi canterà nella solita Bohème o nell’ambientazione e i costumi dell’ennesima Traviata. Bologna in ciò continua una vecchia tradizione: fu la prima città italiana ad accogliere regolarmente le opere di Wagner, in un periodo di assoluta supremazia del melodramma italiano, e comunque a operare nel tempo delle scelte musicali spesso difficili e pioneristiche, sintomo di un pubblico evidentemente esigente e desideroso di uscire dall’asfittico provincialismo di troppi nostri teatri. Ovviamente prima di tutto bisogna comprendere che il teatro musicale non inizia e finisce con la pur grande stagione compresa tra i primi anni del XIX e del XX secolo e in secondo luogo cercare di ragionare su come potrebbe essere il teatro capace oggi di rispecchiare, come da sempre, il proprio pubblico. O i propri pubblici: senza innescare considerazioni infinite o entrare in giudizi di merito è interessante notare come il Comunale sia il primo ente lirico a inserire nella propria programmazione un avvicinamento al popolare mondo del musical, continuando a proporre comunque opere del grande teatro musicale contemporaneo oltre ai capolavori del passato.
Del grande repertorio contemporaneo fin dal 1998, anno della prima assoluta a Schwetzingen, Luci mie traditrici di Salvatore Sciarrino fa parte a pieno titolo, certamente per la qualità del testo, ovviamente per le numerose riprese (poche in Italia…) ma soprattutto per il dato di partenza che indaga sui molteplici e sottili legami tra parola e gesto musicale, tra espressione scenica e sonora, con l’indispensabile medium di una vocalità ripensata e mutevole. Scrivere per il teatro musicale contemporaneo non può prescindere da queste considerazioni ma, si badi bene, non se ne ha mai fatto a meno in qualunque epoca: è evidente che l’antica tragedia greca, il recitar cantando fiorentino, il belcantismo classico-romantico o la stagione del verismo rispondono a logiche ed esigenze assai differenti non solo dal punto di vista musicale ma prima di tutto storico-estetiche, sociali o magari, come in questo caso, psicologiche. In effetti la matrice testuale dell’opera, nonostante la derivazione da un dramma pubblicato nel 1664 e attribuito artatamente ad Andrea Cicognini, mette le sue radici nel teatro psico-analitico che dai primi anni del ‘900 si diffuse soprattutto in area mitteleuropea, sull’onda delle teorie di Freud e della sua scuola. Grazie a un abile prosciugamento dei versi antichi, operato dallo stesso compositore, il convenzionale dramma originale è trasformato in una tragedia allusiva e mentale, dove la tensione e l’importanza dell’attesa sono nettamente predominanti sull’azione vera e propria. I padri putativi, drammaturgicamente parlando, possono essere diversi: dall’ovvio Erwartung di Arnold Schönberg e soprattutto, viste le tematiche, al Pelléas et Mélisande di Claude Debussy, con cui le assonanze, come vedremo, non mancano anche sul piano della concezione musicale. Ma è doveroso citare almeno un’altra opera basata sulla tensione psicologica della coppia, la cui atmosfera sospesa e ambigua, al centro della drammaturgia, ha una situazione scenica e un’ambientazione storico sociale assai simili: Eine florentinische tragödie di Alexander von Zemlinsky, dove il testo originale di Oscar Wilde conduce la drammatica conclusione del triangolo amoroso a un esito sorprendente.
Sciarrino aveva concepito inizialmente l’opera come un omaggio alla grande e tragica personalità di Carlo Gesualdo principe di Venosa, la cui straordinaria figura di musicista, a torto o a ragione, è stata sempre accostata al fatto di sangue che lo vide protagonista nel 1590 quando, probabilmente dopo un’interessata delazione e sotto la spinta delle convenzioni dell’epoca, dovette uccidere la moglie e l’amante, sorpresi a letto dopo essere stati ingannati da una sua finta partenza. La vicenda, che vide coinvolte tre dei più importanti casati nobiliari di Napoli e d’Italia, fece ovviamente scalpore e diede origine a congetture, leggende, scritti e persino ballate popolari, di cui la fonte letteraria antica utilizzata in questo caso fa evidentemente parte. In effetti Sciarrino, che in seguito modificò l’idea originale, sembra costruire collateralmente alla vicenda storica: i protagonisti sono il duca e la duchessa Malaspina, lui esangue e innamorato e lei, desiderosa di un altro sogno ma ugualmente legata al consorte, è oggetto del desiderio segreto del Servo. Il fragile equilibrio è infranto dall’arrivo dell’Ospite che suscita il desiderio della duchessa e la vendicativa gelosia del Servo: sarà lui a denunciare al padrone la passione della moglie e dell’Ospite, azionando l’inevitabile meccanismo del delitto per l’onore. Un tormentato Malaspina (“…non ero disonorato se tacevi…” “…se tacevo ero traditore…”) dovrà eseguire la sentenza che tutti si aspettano da lui (“Lavatemi nel sangue. A Dio, a Dio, sempre vivrò in tormento”). Otto brevissime scene, divise in due atti senza soluzione di continuità, risolvono la narrazione in maniera estremamente sintetica, nella ormai comune unità drammaturgica data da un supporto cd in circa settanta minuti. Chiaramente, come negli esempi sopra citati, l’interesse dell’autore non è certo solo per la vicenda, chiaramente segnata fin dalle prime battute, ma per il continuo insorgere di tensioni, modifiche e interazioni tra i personaggi: una partitura scenica che sembra essere la fonte generatrice anche degli eventi musicali. Per fare ciò, come acutamente rileva lo stesso Sciarrino, è necessaria la creazione di un nuovo stile vocale che sia funzionale alle sottili inquietudini dell’opera, rimuovendo, o almeno minimizzando, le convenzioni vocali cui siamo così abituati. In realtà appare evidente all’ascoltatore una concezione vocale originale piuttosto che uno stile vocale nuovo, una concezione che potrebbe essere il principale omaggio, anche questo collaterale, al principe di Venosa: l’unica citazione musicale dichiarata d’altronde, nei tre brevi intermezzi e nel prologo, è solo un’elegia del compositore rinascimentale Claude Le Jeune. Infatti, come nei celebri madrigali di Gesualdo, la partitura è chiaramente costruita sull’impianto delle voci, secondo una sensibilità ondeggiante tra la struttura polifonica e uno stile melodico che sovrappone tensioni e distensioni secondo le raffinate iterazioni del testo. Difficile non pensare a un nuovo madrigalismo proprio a proposito delle innumerevoli varianti cui sono sottoposte le tormentate e brevi linee vocali, ricche di micro dinamiche, intervalli ripetuti e mutati, tecniche di parlato cantato, una sorta di nuovo recitar cantando intenso e mutevole. In particolare varie volte le note lunghe variamente intersecate tra la Malaspina e l’Ospite (parte femminile “en travesti”) sembrano alludere alle voci superiori dell’impianto madrigalistico senza mai cadere nel facile citazionismo. La costruzione prettamente vocale è oltretutto evidenziata da una raffinatissima orchestrazione che inganna il consueto archetipo di sostegno strumentale alle voci: un gruppo di archi, fiati e percussioni costruisce infatti un continuum sonoro spesso pseudo – descrittivo che appare come una proiezione astratta delle tensioni e delle attese dei personaggi. Armonici acutissimi degli archi, “slap” delle ance, respiri, mormorii, glissati misteriosi sembrano alludere a un mondo nascosto e inconscio, sottofondo inquietante dovuto anche all’utilizzo di dinamiche quasi sempre dal piano al pianissimo. L’effetto crea alla fine una sorta di affascinante caleidoscopio che può far pensare anche a un nastro magnetico o a un live electronics invece dei soli strumenti acustici utilizzati. Le voci galleggianti su questo mormorio cangiante e indistinto creano una delle impressioni più straordinarie che possa offrire il teatro musicale contemporaneo. In ciò sta anche la vicinanza, seppur con esiti ben diversi, con il Pelléas et Mélisande che sconcertò il pubblico proprio nel modificare profondamente i rapporti tradizionali e gli equilibri tra palcoscenico e orchestra, parte vocale e parte strumentale, conscio e inconscio della concezione drammaturgica.
Una volta tanto, e ingiustamente, non rimane molto spazio per parlare della realizzazione dell’opera che, va detto, non presta il fianco ad alcuna critica da ogni punto di vista. Il nuovo allestimento originale, realizzato dal Teatro Comunale di Bologna in coproduzione con la Staatsoper unter den Linden di Berlino, si avvale della prestigiosa regia di Jürgen Flimm ed è costruito intorno a un semplice apparato scenografico di Annette Murschetz: una stanza borghese arredata comunemente in stile eclettico presenta due porte laterali e una frontale mimetizzata nella parete che mostrerà alcune controscene. L’elemento insolito che dal primo momento trasmette una pressante inquietudine è rappresentato da una lunga fenditura nel muro. Col procedere dell’opera la crepa diventa sempre più evidente fino all’inevitabile, e per la verità un po’ scontato, crollo della parete che mostrerà la camera col talamo fatale. Anche i bei costumi di Birgit Wentsch e le luci di Irene Selka sono coerenti con la scenografia richiamando un indefinito ambiente alto borghese otto/novecentesco, ma con evidenti elementi antinaturalistici: il Servo appare come una maschera, una sorta di clown, e il Malaspina nelle scene finali indossa delle didascaliche ali nere, da Angelo della Morte. La recitazione e i movimenti scenici curatissimi appaiono coerentemente astratti, dipingendo con perfetta evidenza le caratteristiche dei personaggi e tendendo talvolta a una sorta di espressionismo scenico che deforma rendendo abnormi i semplicissimi gesti richiesti agli interpreti. Bravissimi i due protagonisti Katharina Kammerloher e Otto Katzameier che incarnano perfettamente la figura del virtuoso moderno, da giudicare secondo parametri certamente più ampi del consueto: perfetta intonazione, assoluta padronanza scenica, una vasta paletta espressiva data da un eccellente controllo dinamico e timbrico del mezzo vocale, nonostante l’estrema difficoltà della parte. La loro vocalità, abbastanza ampia e brunita, secondo la vociologia consueta non è specificata, (comunque soprano e baritono) anche perché le estensioni dei ruoli tendono a un registro naturale sicuramente più adatto per una perfetta intelligibilità del testo. A questo proposito è superiore a ogni lode anche l’ottima pronuncia dell’italiano di tutti gli interpreti, capaci di rendere superflua, una volta tanto, la puntuale proiezione del testo. Anche Lena Haselmann nella parte dell’Ospite e Christian Oldenburg, che ha impersonato la splendida marionetta del Servo, hanno dimostrato una perfetta aderenza ai loro ruoli e delle eccellenti qualità musicali senza le quali, d’altronde, l’opera di Sciarrino sarebbe assolutamente inavvicinabile. Suggestivo anche il prologo fuori scena affidato a un gruppo di voci bianche ben preparato da Alhambra Superchi. Marco Angius ha guidato con sicurezza e precisione gli interpreti e un eccellente gruppo orchestrale del Teatro Comunale, dimostrando un ottimo senso dello spettacolo; difficile ascoltare ed esprimere un giudizio senza riferimenti storicizzati, ma il fascino di Luci mie traditrici deriva essenzialmente dalla sua coerenza espressiva e dinamica, coerenza perfettamente restituita da un equilibrio raro tra le sezioni strumentali e il palcoscenico. Una menzione particolare per la sezione delle percussioni, dove il lavoro sulle lastre metalliche ha permesso una notevole varietà di effetti e una timbrica particolarmente avvolgente e coesa di tutto l’ensemble. Il pubblico, certamente non numeroso (ma questa cronaca si riferisce all’ultima replica), ha applaudito alla fine con convinzione ed è da sottolineare una buona presenza di spettatori stranieri che sono apparsi particolarmente interessati e incuriositi dallo spettacolo.