Bologna, Teatro Comunale: “Un Ballo in Maschera”

Teatro Comunale – Stagione d’opera 2015
UN BALLO IN MASCHERA
Melodramma in tre atti, Libretto di Antonio Somma
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo GREGORY KUNDE
Renato LUCA SALSI
Amelia MARIA JOSÉ SIRI
Ulrica ELENA MANISTINA
Oscar BEATRIZ DÍAZ
Silvano PAOLO ORECCHIA
Samuel FABRIZIO BEGGI
Tom SIMON LIM
Un giudice BRUNO LAZZARETTI
Un servo di Amelia LUCA VISANI
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Michele Mariotti
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Regia Damiano Michieletto ripresa da Roberto Pizzuto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Bologna, 11 gennaio 2015

L’opera in tempi moderni. Prima dello spettacolo, il ricordo della recente strage di Parigi. Agli applausi finali, un lancio di volantini sindacali dal loggione. Nel mezzo, sulla scena, un “Ballo in maschera” tratteggiato come fosse il dramma umano di un politico dei giorni nostri, in un’America razzista ma non troppo (come già altrove, Ulrica non è “dell’immondo sangue de’ negri”), fra uffici elettorali, slogan presi pari pari dal libretto, palazzetti dello sport occupati da santoni televisivi. S’è molto scritto di questo allestimento di Damiano Michieletto, pensato nel 2013 per la Scala e qui riproposto ad apertura di stagione: s’è rimarcato che ci sono poche idee e che sono pescate perlopiù da allestimenti di Pizzi o di Bieito (ma si potrebbe tirare in ballo – si perdoni il bisticcio – anche il “Ballo in maschera” di Denis Krief che nel 2003 aprì un’altra stagione bolognese). Nuovo o non nuovo, il punto sta altrove: lo spettacolo funziona perché mantiene in primissimo piano lo scontro fra res publica e passioni private, che in quest’opera di Verdi (e non è ovviamente l’unico caso) è fra i propulsori del dramma. Poca attenzione al lato amoroso della vicenda? Può darsi. Ma pochi sono i momenti gratuiti e le idee che non vanno a segno. Qualche concessione al facile effetto c’è: è l’innocente figlio di Amelia e Renato a estrarre il nome del padre dall’urna dei congiurati; ed è il fantasma di Riccardo, ritto in piedi di fianco al proprio cadavere, ad intonare il suo arioso finale, quasi fossero le parole della lettera da lui indirizzata a Renato, che Amelia legge ad alta voce. Espedienti che sembrano evocare una retorica del racconto propria del cinema americano, pienamente coerenti (bisogna ammetterlo) con il setting pensato da Michieletto.
Se i momenti che girano a vuoto sono pochi, il merito è anche di un  Michele Mariotti in splendida forma. Un direttore che raffina senza perdersi in preziosismi, che lascia vibrare i legni già ai loro primissimi interventi nel preludio e che nell’introduzione al secondo atto fa cantare gli archi con inedito trasporto. Eppure l’orchestra non prevarica mai il canto: anzi, lo accompagna. Mariotti dosa le sonorità, tiene il fortissimo solo per i momenti cruciali ed imprime grande tensione narrativa ad ogni scena giocando sulle pulsazioni ritmiche dei bassi.
Ogni cantante si fa sedurre dall’infallibile giustezza di questo approccio in maniera diversa, perché differenti sono le qualità vocali del cast. Gregory Kunde, che già fu Riccardo a Torino nel 2012, prosegue a più di 60 anni la sua frequentazione del repertorio verdiano: i registri non sono sempre omogenei, le mezze voci sono spesso in gola, ma il tenore americano non ingrossa mai la voce e fraseggia sempre. La lunga scuola rossiniana si sente tutta, vuoi per gli acuti, vuoi per le prodezze vocali che dissemina qua e là: dal famigerato salto di tredicesima nella canzone del primo atto ad una prodigiosa smorzatura sul si bemolle acuto che chiude la sua grande scena del terzo atto. E sul palcoscenico è perfettamente a suo agio, senza mai strafare. Luca Salsi è un Renato di magnifico timbro scuro e acuti facili, e si riconferma voce verdiana per accento e dizione, di volume invidiabile ma all’occorrenza (è il caso di “Eri tu che macchiavi quell’anima”) capace di alleggerire. Più variegato il panorama delle voci femminili: Maria José Siri ha bel suono, ma il peso vocale non sembra sempre adeguato per Amelia e la dizione latita; abbondano però filati e pianissimi. Imprecisa per pronuncia è anche l’Ulrica un po’ gutturale di Elena Manistina, statuaria in scena, ma penalizzata da un fraseggio generico e da una proiezione non sempre infallibile. Piacevole per timbro, vivace in scena, mai petulante l’Oscar di Beatriz Díaz; efficaci i due congiurati:  Simon Lim (Tom) Fabrizio Beggi (Samuel), con menzione particolare per l’ottimo fraseggio di quest’ultimo. Il cast è completato da Paolo Orecchia (Silvano), Bruno Lazzaretti (Un giudice) e Luca Visani (un servo d’Amelia). Coro ancora una volta in grande forma. Alla fine applausi per tutti e dissensi per l’aiuto regista Roberto Pizzuto. Non si capisce il perché, quando (come in questo caso) la sfida tutta verdiana del fare teatro in musica è stata vinta con successo. Foto Rocco Casaluci