Bruxelles, Théâtre La Monnaie: “Macbeth”

Bruxelles, Théâtre La Monnaie – stagione 2016/2017
“MACBETH”
Melodramma in quattro parti. Libretto di Francesco Maria Piave.
Musica di Giuseppe Verdi
Macbeth SCOTT HENDRICKS
Banco CARLO COLOMBARA
Lady Macbeth BEATRICE URIA-MONZON
Dama di Lady Macbeth LIES VANDEWEGE
Macduff ANDREW RICHARDS
Malcolm JULIAN HUBBARD
Medico, Servo, Araldo JUSTIN HOPKINS
Sicario GERARD LAVALLE
Apparizione JAQUES DOES, MARIA PORTELLA LARISCH, BOYAN DELATTRE / JULES BESNARD
Orchestra Sinfonica e Coro del Théâtre La Monnaie
Direttore Paolo Carignani
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia Olivier Fredj
Regia grafica Jean Lecointre
Scene Olivier Fredj, Gaspard Pinta, Massimo Troncanetti
Costumi Frédéric Llinares
Luci Christophe Forey
Coreografia Dominique Boivin
Produzione Théâtre La Monnaie
Coproduzione Poznàn Opera House 2016
Bruxelles, 27 settembre 2016
Il prolungarsi dei lavori di ristrutturazione dello storico teatro nel centro di Bruxelles costringe il Théâtre La Monnaie a fare ricorso, per tutta la stagione 2016/2017, alla struttura provvisoria – il Palais de la Monnaie – allestita in una zona industriale in via di riqualificazione urbanistica, e a rimaneggiare in un certo qual modo il programma annunciato la scorsa primavera. Macbeth apre la stagione con risultati tutto sommato più che positivi nonostante le condizioni non ideali, e va dato atto alla Monnaie di aver saputo creare, attorno al Palais provvisorio, una macchina organizzativa davvero efficiente. Questa nuova produzione del Théâtre La Monnaie offre uno spettacolo che sicuramente non lascia delusi, soprattutto per quanto riguarda orchestra; del resto, l’orchestra e il coro della Monnaie sono sempre una garanzia. L’incognita, quando si assiste a un’opera a Bruxelles, è data piuttosto dalla regia, vista la propensione della Monnaie verso l’innovazione e la ricerca di prospettive nuove e significati ulteriori, con risultati a volte interessanti e a volte meno indovinati. Il risultato, per questo Macbeth, non convince del tutto ma non lascia nemmeno insoddisfatti. L’impressione è quella di un’incompiuta, un’idea di base che doveva fare da filo conduttore a una certa lettura dell’opera e che poi si perde nell’incontro con altre prospettive. Insomma, un misto di spunti e idee anche interessanti, ma non in coerenza tra loro, e che lasciano lo spettatore un po’ disorientato. Il regista franco-britannico Oliver Fredj, che è anche autore delle scene insieme a Gaspard Pinta e Massimo Troncanetti, segna il suo esordio nella regia operistica proponendo inizialmente una lettura psicanalitica, basandosi sull’importanza del sogno e del mondo fantastico nel libretto. Il preludio è accompagnato da immagini video che richiamano visioni oniriche, disegni che sembrano ispirarsi ai test di Rorschach, rappresentazioni del cervello umano. Poi, nel primo atto, ci si ritrova in un grand hotel di lusso stile anni quaranta, dove Macbeth e lady Macbeth ordiscono il delitto come un gioco di società, l’assassinio efferato come un evento salottiero. Non potrebbe esserci contrasto più grande con la drammaticità del momento nel libretto. Forse l’intento è quello di rappresentare la famosa banalità del male, ma l’esito non è cosi evidente e soprattutto sembra perdere di vista l’efficace spunto iniziale. Le streghe all’inizio dell’opera sono anch’esse parte di un frivolo gioco di società, dove soltanto i copricapi stravaganti lasciano intendere una deviazione dai binari della normale umanità. L’elemento fantastico si accentua mano a mano che si procede nel dramma con effetti decisamente più interessanti, e la resa dei personaggi acquista spessore di pari passo. Il volto di Banco che appare a Macbeth dentro il tacchino del banchetto strappa sorrisi, ma finalmente la reazione emotiva di Macbeth appare in sintonia con il libretto. Bella e suggestiva la rappresentazione degli otto re, ieratiche, surreali carte da gioco che ricordano certi film del cinema espressionista tedesco. Streghe, spiriti e diavoli sono rappresentati da danzatori di grande agilità e bravura, che danno movimento e ritmo alle scene sulle coreografie di Dominique Boivin. I costumi di Fédéric Llinares spaziano dagli anni quaranta alle reminiscenze scozzesi, con vistosi abiti dorati per il banchetto per la coppia regale, e accenti più sobri man mano che procede il dramma. Tutta l’opera, scene, costumi, danze, è visivamente piacevole e ben equilibrata. Originali e di grandi effetto la grafica di Jean Lecointre, non solo nelle proiezioni video del preludio di cui si è già parlato ma anche nei giochi di immagini e geometrie proiettate sullo sfondo delle scene, molto efficaci nel segnare cambi di atmosfera o di ambienti e belli a vedersi. Le luci curate da Christophe Forey completano armoniosamente una produzione visivamente riuscita. L’orchestra sinfonica del Théâtre La Monnaie diretta da Paolo Carignani una solida presenza delle stagioni del teatro e garanzia di sicurezza. Anche in questo occasione non ha deluso. Viene eseguita una versione che include i ballabili dell’edizione parigina 1865, mentre per il finale dell’opera si è optato per la Firenze 1847. Anche  se l’acustica di una struttura come il tendone del Palais de la Monnaie, la concertazione di Carignani è tesa e vibrante e sempre attenta alle ragioni del canto. Qui iniziano i problemi. L’originario mezzo, ma ormai passata a ruoli sopranili, Beatrice Uria-Monzon indossa per la prima volta nel ruolo di Lady Macbeth, panni che, aldilà della presenza scenica e valore interpretativo, le stanno decisamente stretti.  Allo stato attuale la voce della cantante franco-spagnola appare  ingolata e opaca sotto, oscillante e con acuti fibrosi e striduli (per altro appena sfiorati). Il disagio della cantante nell’affrontare le agilità è palese (vedi cabaletta primo atto e ancora di più il brindisi, del secondo) così come il  fraseggio verdiano  (ignora le consonanti e tutto suona una lunga sequela di “i, u,o, a”).  Sul piano meramente vocale le cose andrebbero meglio al baritono americano Scott Hendricks. Il colore del timbro è gradevole, così come il controllo complessivo della tessitura, peccato che qualcuno non gli ha detto che questo è Verdi e non verismo e che  Macbeth non è Compar Alfio.  Ne esce così un protagonista dalla linea canto volgare, dal fraseggio totalmente fuori stile e dall’espressione drammatica sempre  sopra le righe. Con i limiti dei due protagonisti, suona come una vera panacea per le orecchie il Banco di  Carlo Colombara che, con la sua bella vocalità e nobiltà di fraseggio,  ci fa finalmente  sentire Verdi. Un po’ stentoreo ma complessivamente valido  il Macduff di Andrew Richards. Buono il Malcom di Julian Hubbard, così come corretti sono stati gli interventi di Lies Vandewege (Dama) e di Justin Hopkins (medico, araldo, servo). Ottima prova del coro della Monnaie diretto da Martino Faggiani, che nei primi tre atti è relegato in fondo al palcoscenico, con i coristi seduti come spettatori qualsiasi e vestiti in abiti di tutti i giorni. È chiaro che una simile scelta di regia penalizza un po’ l’acustica, e ancora più quando il coro canta da dietro le quinte. Ma l’idea di considerare il coro come una parte del pubblico prende un risvolto inaspettato e sorprendente quando i coristi, all’inizio del quarto atto, invadono la platea e le gradinate e cantano letteralmente tra gli spettatori, che si ritrovano essi stessi parte del dramma. La bellezza delle voci e le capacità espressive del coro del La Monnaie regalano allora uno dei momenti più intensi dell’opera. Buon successo di pubblico.