«Come resistere / a tanti affetti!» “La Donna del lago” chiude il ROF

Pesaro, Rossini Opera Festival, XXXIV Edizione, Teatro Rossini
“LA DONNA DEL LAGO”
Melodramma in due atti di Andrea Leone Tottola, dal poema The Lady of the Lake di Walter Scott.
Musica di Gioachino Rossini
Giacomo V alias Uberto di Snowdon  DMITRY KORCHAK
Douglas D’Angus  SIMONE ALBERGHINI
Rodrigo di Dhu  MICHAEL SPYRES
Elena  CARMEN ROMEU
Malcom Groeme  CHIARA AMARÙ
Albina  MARIANGELA SICILIA
Serano  ALESSANDRO LUCIANO
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Alberto Zedda
Maestro del Coro Andrea Faidutti 
Esecuzione in forma di concerto
Pesaro, 23 agosto

Anziché una festa lieta, un momento di gioia serena e condivisa, la serata conclusiva del Rossini Opera Festival 2013 è stata colma di apprensione. Il Maestro Alberto Zedda, anima infaticabile della Kermesse pesarese, nel 2011 diede avvio alla consuetudine di chiudere il festival con un’opera in forma di concerto (e fu Il barbiere di Siviglia; nel 2012 fu Tancredi); quest’anno la scelta felicissima della Donna del lago si presentava come impegno ancora più gravoso. L’ottantacinquenne musicista, dopo aver diretto con grande vigore buona parte del I atto, tra il tempo di mezzo e la cabaletta della scena di Rodrigo ha avuto un malore, che ha indotto a sospendere l’esecuzione. Per più di mezzora il pubblico ha trepidato per la salute del Maestro; poi l’inossidabile direttore è rientrato sorridente, in gilet bianco e sparato ma senza la giacca del frac, salutato da un mare di applausi beneauguranti. Come se nulla fosse accaduto, e con il tono più pacato che si potesse immaginare, si è rivolto agli orchestrali dicendo: «Riprendiamo l’andante alla battuta 161». E via, spedito, a dirigere (in piedi!) la parte finale dell’atto I, e dopo un breve intervallo tutto il II (sempre in piedi), senza risparmiarsi nel gesto e nel vigile presidio dell’intera esecuzione. Alla fine la passione rossiniana ha avuto la meglio su qualunque altro accidente.
Per comprendere La donna del lago, come già per Guillaume Tell, conviene ricordare l’origine letteraria, che un tempo si sarebbe detta esterofila: se i francesi de Jouy e Bis erano impegnati a rielaborare e ridurre un modello schilleriano per l’ultima opera di Rossini, nel 1819 Andrea Leone Tottola riduce un testo inglese di colui che in pochi anni diventerà lo scrittore di riferimento per il nuovo melodramma italiano: Walter Scott. Il suo poema in sei canti The Lady of the Lake risale al 1810 (Wilhelm Tell di Schiller è del 1804), e la sua fortuna in italiano è documentata – oltre che dall’opera rossiniana – dalle due traduzioni apparse nel 1821 a Torino e a Palermo. Anni di fervore ossianico, si sarebbe tentati di riassumere drasticamente; ma è lo stesso Zedda, nelle recentissime Divagazioni rossiniane (Milano 2012), a proporre una definizione più articolata per la qualità narrativa della Donna del lago: «L’amicizia, gli affetti familiari, il panteistico rapporto con la natura celano turbamenti profondi, inquietudini esistenziali; dolore e morte vi compaiono con onirico distacco. Su tutto domina l’incomunicabilità, l’incapacità di capire sé stessi e il prossimo, di decifrare il messaggio dei sentimenti, di dar ordine agli impulsi dei sensi».
Sotto la bacchetta di Zedda brillano i colori dei legni e scintilla la luce degli ottoni (che in quest’opera ricoprono un ruolo forse ancora più importante che in Guillaume Tell); appunto a ottoni e legni compete soprattutto la rappresentazione di una natura solitaria, di boschi immensi e di laghi silenziosi, il cui senso panico pervade l’azione e gli affetti dei personaggi. L’arte direttoriale di Zedda si apprezza anche in un ritmo dinamico, continuamente sorprendente: tutta sua è una modalità di introdurre pacatamente le arcate melodiche del discorso musicale, imprimendo poi un abbrivio agli elementi di abbellimento: tale divenire drammatico genera vitalità nuova in ogni pagina. Nella ricerca espressiva dei colori a ogni sezione dell’orchestra corrisponde poi una prerogativa. Ma c’è anche la possibilità che un singolo strumento diventi protagonista indispensabile della resa cromatica, e della temperie di un intero numero, come l’arpa che introduce la stretta nel corale finale I, un nuovo prodigio di contrasti ritmici e coloristici.
Protagonista dell’opera è il giovane soprano spagnolo Carmen Romeu, dalla carriera pesarese tipica: dopo Il Viaggio a Reims dell’Accademia Rossiniana del 2011 (nelle parti di Madama Cortese e di Delia), è stata Argene in Ciro in Babilonia nel 2012, e ora ricopre il difficile ruolo di Elena. La sua voce risuona alquanto asciutta, con pochi armonici; il timbro è scuro, la cavata abbastanza robusta, e quindi la voce dovrebbe adattarsi bene alla parte. Ma non deve essere del tutto corretta la tecnica di respirazione e di appoggio del suono, visto che gli acuti appaiono pressochè velati, non sono emessi con pienezza; le agilità poi non sono fluide e spedite, come emerge dal duetto con il tenore, primo pezzo d’insieme; e in generale manca di espressività. Nel rondò conclusivo del II atto, «Tanti affetti in tal momento», la Romeu si sforza di fraseggiare con più grazia, ma la voce è sempre incolore e povera di vibrazioni; il virtuosismo è ridotto al minimo, e anzi l’intonazione qua e la vacilla. Momento migliore della sua prestazione è la cavatina acquatica iniziale «Oh mattutini albori!»
Del tenore che interpreta Giacomo V, Dmitry Korchak, si apprezza il tentativo di porgere le parole con grazia (tendente però al lezioso). Ma l’esito complessivo della sua prova è insoddisfacente: la voce è in molti punti troppo leggera, gli acuti forzati e “indietro”; la scena con coro «Le mie barbare vicende» è il momento in cui Korchak sempre riprendere quota. Fortunatamente la levità dell’orchestra diretta da Zedda sublima la componente strumentale, per rinvigorirla nel finale del numero con le viole, mentre l’ottimo coro – sempre per merito di Andrea Faidutti – rende benissimo gli effetti di eco del richiamo venatorio. Molto suggestivo per l’introduzione strumentale il rimando antifrastico del coro femminile, nella scena successiva («D’Inibaca, / donzella»), rispetto a quello maschile dei cacciatori, anche se le voci muliebri risultano più disomogenee e meno espressive del gruppo maschile. Le impressionanti modulazioni di «Cielo! in qual estasi», con relative variazioni, individuano il momento migliore della prestazione di Korchak; a partire dal II atto, con la celebre romanza «Oh fiamma soave» l’interpretazione purtroppo peggiora, perché l’emissione non è controllata (e dà adito a frasi d’intonazione calante), il fraseggio è trascurato, le agilità spianate al massimo, e negli acuti la voce si trasforma in un belato improponibile (oppure in un suono fibroso, come una superficie su cui spuntino tante grinze e difformità). Il duetto tra Giacomo ed Elena nel II atto che poi scivola nel  terzetto (con Michael Spyres), vede  entrambi i tenori  in evidente difficoltà sui passaggi acuti (anche se per motivazioni vocali diverse; del resto tutti e tre i cantanti faticano a seguire il ritmo vertiginoso impresso da Zedda alla pagina: è il punto più critico della drammaticità affettiva dei tre personaggi).
Nel ruolo en travesti di Malcom debutta Chiara Amarù, affermato mezzosoprano dall’ampio repertorio; quando attacca «Mura felici, ove il mio ben si aggira!» la bellezza della voce s’impone subito all’attenzione, così come l’uniformità del registro, la capacità di arrotondare il suono, la correttezza e il rispetto per la scrittura rossiniana. Nelle agilità, però, il fiato non sostiene abbastanza le note basse al termine di frasi discendenti, e a volte si percepisce una cesura tra il timbro delle note di petto e quelle di testa. In «Ah si pera: ormai la morte», del II atto, è senz’altro corretta e canta molto bene, anche se non convince del tutto la tecnica scelta per porgere le agilità, perché lo staccato tra nota e nota è ridotto al minimo; al termine della cabaletta il pubblico tributa alla Amarù l’applauso più prolungato dell’intera serata. Si tratta senza dubbio dell’artista più a suo agio e più corretto nella compagnia vocale di questa Donna del lago.
Simone Alberghini impersona un Douglas autorevole, il fraseggio è piuttosto generico e l’emissione non sempre controllata e sicura; fortunatamente, anche in «Taci, lo voglio, e basti» protagonista rimane sempre l’orchestra di Zedda, capace di rivelare particolarità armoniche e strutture musicali interne al brano praticamente inedite (bellissimo l’effetto che coniuga i flauti al tamburo militare, introducendo al clima guerresco del finale I).
Michael Spyres interviene per il ruolo del secondo tenore, Rodrigo, personaggio che compare in sole due scene dell’opera, ma nella cui parte Rossini ha concentrato difficoltà di ogni genere, puntature acute e discese nel registro baritonale. Spyres (che ha debuttato al ROF lo scorso anno come Baldassarre in Ciro in Babilonia) avrebbe dovuto avere tutte le credenziali per affrontare la tessitura di Rodrigo; il registro acuto rappresenta invece un’insidia che il cantante non riesce a superare. La cavata della voce, quando attacca «Eccomi a voi, miei prodi», è impressionante, specie nelle note basse; ma quando la voce sale si sbianca e gli acuti diventano esili, privi di timbro, forzati, e le agilità vacillano nella cabaletta «Se a’ miei voti amor sorride». E’ percepibile una voce scollata nei registri basso/medio e  acuto, come di due voci che si alternano (ma in cui quella acuta ha un’emissione sempre affaticata, come risulta in entrambi i terzetti, «Crudele sospetto» del I atto, e «Misere mie pupille!» del II). La pagina più riuscita è per Spyres è l’andantino della scena di sortita con l’andante «Ma dov’è colei, che accende» (che ha ripetuto – meno bene – dopo l’interruzione dovuta alla salute del direttore). Il lunghissimo finale I (uno dei concertati più articolati di tutto il catalogo rossiniano) permette di confrontare il quartetto, vocalmente molto assortito (cui si aggiunge l’Albina di Mariangela Sicilia, tendenzialmente stridula  negli acuti): la voce di Spyres è più convincente nel declamato e sulle note centrali; espressiva la Amarù, corretti la Romeu e Alberghini. Il Serano di Alessandro Luciano, per completare la locandina, in uno spazio più raccolto rispetto all’Adriatic Arena risulta corretto e funzionale. Con La donna del lago non si è ripetuto l’incanto del Barbiere e del Tancredi delle scorse edizioni: tutti gli interpreti – fatta eccezione per Chiara Amarù – hanno infatti accusato incertezze più o meno gravi e dimostrato più debolezze che virtù vocali, sebbene favoriti dall’esecuzione in forma di concerto (e dalla posizione in teatro, in quanto schierati davanti all’orchestra); ulteriore riprova che il Rossini serio non si può affrontare se non dopo un investimento cospicuo di studio e di applicazione. Ma anche l’investimento delle risorse economiche di un festival potrebbe essere più attento in ambito vocale: a realizzare la musica di Rossini non è il regista di grido con i suoi allestimenti faraonici, ma sono la voce dei cantanti e il suono degli strumenti. Oggi, purtroppo, è necessario sottolineare anche quel che dovrebbe essere ovvio, e invece non lo è affatto.