Étienne-Nicolas Méhul (1763 – 1817): “Uthal” (1806)

Opera in un atto su libretto di Jacques-Benjamin-Maximilien Bins. Karine Deshayes (Malvina), Yann Beuron (Uthal), Jean-Sébastien Bou (Larmor), Sébastien Droy (Ullin), Philippe-Nicolas Martin (Les chef des Bardes, le troisiéme barde), Reinoud Van Mechelen (Le premier Barde), Artavazd Sargsyan (Le Deuxième Barde), Jacques-Greg Belobo (Le Quatrième Barde). Choer de Chambre de Namur, Les Talens Lyrique, Christophe Rousset (direttore). Registrazione Opéra Royal de Versailles 29-31 maggio 2015. 1 cd Ediciones Singulares, “Opéra français” /Palazzetto Bru Zane –  volume 14.
Avevamo già parlato di Étienne-Nicolas Méhul, recensendone l’”Adrien” (vi rimandiamo a quell’articolo per inquadrare storicamente l’autore), talentuoso compositore di età napoleonica e figura emblematica di una generazione combattuta fra formazione neoclassica e nascenti sirene romantiche. Ancor più che il precedente lavoro, questo “Uthal”, andato in scena sul più sperimentale palcoscenico dell’Opéra-Cominque nel maggio del 1806, rappresenta al meglio questa dimensione di ponte fra due epoche rappresentate da Méhul – come da altri compositori della sua generazione a torto ancora negletti – e l’ardita sperimentalità delle soluzioni proposte del compositore. La scelta del soggetto risponde all’entusiasmo che aveva invaso l’Europa dopo la pubblicazione dei “Canti di Ossian” da parte dello scozzese James Macpherson, nel 1760 (cui rapidamente era seguita la traduzione francese di Pierre Letourneur nel 1777). Lungi da sospettarne la natura di falso, la buona società europea era stata contagiata da un’autentica mania per l’Omero del nord, diffusa a tutti i livelli sociali e che contava tra gli ammiratori di Ossian lo stesso Napoleone Bonaparte.
La scelta di un’opera di soggetto ossianico non sorprende nella Francia napoleonica – si pensi solo, passando dalla musica alle arti figurative, all’importanza del tema in un’opera apertamente celebrativa come “Apoteosi degli eroi francesi” di Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson nel 1801. Quello che sorprende è l’approccio con cui Méhul si avvia alla composizione. La precisa volontà di ricreare il clima brumoso, stinto, cupo dei versi ossianici porta Méhul a radicali scelte di orchestrazione: i violini sono banditi, il velluto degli archi e interamente costruito sui suoni più gravi e profondi di viole e violoncelli, mentre il settore acuto è occupato solo dai fiati spesso usati per ricreare sonorità insolite e spiazzanti. La maggior libertà vigente sul palcoscenico dell’Opéra-Cominque gli permette di evitare le ampie costruzioni obbligatorie all’Opéra e di costruire brani stringati, strutturalmente lineari, che si succedono con implacabile passo drammatico, sfruttando al riguardo le cesure date dai parlati. L’agogica è spesso estrema, l’andamento ritmico violento e apparentemente sconnesso, tutto finalizzato a concentrare una drammaticità elettrica, un clima da tempesta sempre pronta a esplodere.
Nell’uso delle voci le scelte sono simili, eliminate totalmente o quasi quelle acute – nessun soprano, un solo tenore in parte ausiliaria – tutto viene giocato sui velluti di baritono, basso e mezzosoprano. La vocalità predilige un declamato arioso di pretta derivazione gluckiana che raramente si espande in forme di autentiche arie  – forse solo quella di Uthal all’inizio della scana IV “Quoi! Je la cherche en vain!”, mentre più spesso assume una forma più libera e dinamica, in continua evoluzione. Non che manchino momenti di autentico abbandono lirico – come il meraviglioso “Inno al sonno” intonato da Malvina e dai bardi nella scena III, non a caso scelto nel 1817 per accompagnare i funerali dell’autore. Ma è evidente come questi aspetti passino in secondo piano di fronte alla pregnanza drammatica dell’espressione.
Alle prese con questo materiale magmatico, Christophe Rousset, alla guida i suoi Les Talents Lyriques, offre una prestazione esemplare, capace di coniugare rigore stilistico e filologico con il necessario senso del teatro. Gli strumentisti suonano splendidamente e non solo superano senza intoppi tutte le difficoltà previste dalla partitura, ma il loro suono è sempre vivo, teatrale, intensamente drammatico, che è ancor più importante in una scrittura di questo tipo, tanto da rendere difficile immagine contributo migliore alla valorizzazione di questa musica.
Molto positive le prove di tutti i solisti. Karine Deshayes è una Malvina che unisce a una voce di mezzosoprano chiara e luminosa, che ben si adatta alla natura impetuosa e femminile del personaggio, una notevole solidità anche nei momenti di più impervi della scrittura e un temperamento al calor bianco.  Nel ruolo virilmente lirico di Uthal troviamo la bella voce baritonale e la nobile linea di canto di Yann Beuron, mentre la vocalità più aspra di Jean-Sébastien Bou rende piena giustizia all’austero e scostante Larmor, il fiero padre di Malvina. Molto buone le parti di fianco e strepitosa la prova del coro – cui sono affidati alcuni dei momenti più ispirati della partitura. Assolutamente da conoscere.