“Aida” al Teatro alla Scala

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2012-2013
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re  ALExANDER TSYMBALYUK
Amneris  NADIA KRASTEVA
Aida  HUI HE
Radamès  MARCO BERTI
Ramfis  MARCO SPOTTI
Amonasro  AMBROGIO MAESTRI
Messaggero  JAEHEUI KWON
Sacerdotessa  SAE KYUNG RIM
Akhmet  DEBORAH GISMONDI
Coppia di selvaggi  BEATRICE CARBONE, MARCO AGOSTINO
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Corpo di ballo del Teatro alla Scala e allievi della Scuola di Ballo Accademia Teatro alla Scala
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia e scene Franco Zeffirelli
Regia ripresa da Marco Gandini
Costumi Maurizio Millenotti
Coreografia Vladimir Vassiliev
Luci Marco Filibeck
Produzione Teatro alla Scala 2006
Milano, 31 ottobre 2013

Dal 7 dicembre 2006 a oggi il Teatro alla Scala ha proposto sul suo palcoscenico 35 recite di Aida (compresa quella di cui si riferisce), distribuite in due edizioni, entrambe con la regia di Franco Zeffirelli: l’allora nuovo allestimento, inaugurale della stagione 2006/2007, fu ripreso nel 2009 e ritorna adesso, mentre nel 2012 è stata riesumata l’edizione del 1963, la prima (e senza dubbio la più bella) Aida curata da Zeffirelli per la Scala, con “bozzetti e figurini” di Lila De Nobili e con la direzione di Gianandrea Gavazzeni. Prima del 2006, Aida mancava nelle stagioni scaligere sin dal 1985, e dunque l’assiduità con cui il titolo è riapparso negli anni appena trascorsi è più che giustificata. Tra il 2006 e oggi, inoltre, si sono avvicendati direttori d’orchestra illustri e non, Riccardo Chailly, Daniel Barenboim, Omer Meir Wellber, e ora un altro Gianandrea, Noseda; nel ruolo protagonistico chi scrive ha avuto modo di ascoltare Violeta Urmana e Isabelle Kabatu (2006), Manon Feubel (2009), Oksana Dyka e Liudmyla Monastyrska (2012); adesso nella prima compagnia di canto c’è Hui He, che nel piccolo catalogo di interpreti appare come l’Aida vocalmente più convincente.
Gianandrea Noseda debuttò alla Scala il 5 ottobre 2000 con Vojna i mir (Guerra e pace) di Prokof’ev, avvicendandosi a Valery Gergiev; poi è tornato nel giugno 2012 per Luisa Miller, sortendo buoni risultati; è reduce da due trionfi verdiani torinesi (il Regio è il teatro in cui dirige di più e in cui più è apprezzato), con il Don Carlo dello scorso aprile e con il Simon Boccanegra che ha appena inaugurato la stagione subalpina. In Aida si attendeva una conferma della nuova vena verdiana del direttore; al contrario, la sua lettura si è rivelata fallimentare nel complesso, e dannosa per i cantanti. Allo studio accurato delle dinamiche non corrisponde infatti una controprova con le sonorità in orchestra; il ritmo è ora frenetico (secondo una cattiva abitudine di Noseda, più volte rilevata) ora rallentato, e obbliga i cantanti a inseguire le volubilità strumentali, anziché accompagnarli con premura. La concertazione di Noseda propone una lettura “sperimentale”, in alcuni momenti anche interessante (per esempio nel terzetto del I atto, in cui è bellissimo il mormorio calligrafico di violini e viole), ma troppo spesso appesantita dalla ricerca di effetti sonori, in particolare delle percussioni. A volte il ritmo è accelerato all’interno dello stesso numero, come nel duetto tra Amneris e Aida nel II atto, sì da rendere più faticosa la prestazione delle cantanti. Il difetto principale di Noseda è intendere Aida come un sognante poema sinfonico, in cui incidentalmente si ascoltano anche voci liriche; ma il fatto paradossale è che neppure nei momenti strumentali la lettura direttoriale convinca, perché le dinamiche sono realizzate in modo sbagliato, come per esempio nel preludio al III atto (capolavoro di strumentazione, che riuscì a strappare addirittura il plauso del supercilioso Berlioz), quando il tempo è troppo rapido e svilisce ogni finezza; il direttore ha in mente un tempo musicale evidentemente irrealizzabile, perché esso deve essere continuamente modificato, al fine di correggere le sfasature rispetto al palcoscenico (la disattenzione nei confronti dei cantanti è, del resto, clamorosa, come dimostrano i pochissimi attacchi che il direttore riserva alle voci, pressoché abbandonate a sé stesse). Si è parlato di “effetti”, e volutamente: stupisce che un direttore così esperto e competente come Noseda ricerchi soluzioni da banda strapaesana, con timpani e piatti impazziti, come nella stretta finale del III atto o nella scena del giudizio di Radamès del IV; ma persino le arpe del duetto finale, in quell’atmosfera che dovrebbe essere di placida rassegnazione e di speranza oltremondana («l’alme erranti / volano al raggio dell’eterno dì»), sono invece aggressive, mordaci, muscolari. Nelle danze del II atto i tempi sono giusti, anche se le sonorità di Noseda sono sempre un po’ troppo robuste; molto bravi i bambini che si esibiscono di fronte ad Amneris, così come perfetto è il senso della funzionalità musicale ai movimenti coreografici nei ballabili del trionfo (va ricordato come la coreografia stessa sia essenzialmente decorativa, basata sulla congiunzione prevedibile dei movimenti di un gruppo di selvaggi e d’una coppia di amanti). Ma il momento più penoso per il direttore d’orchestra è appunto a cavallo tra II e III atto, perché alla fine della scena del trionfo si odono dal loggione grida di disapprovazione, e segni di contestazione giungono a Noseda quando ritorna sul podio, prima dell’inizio del III atto.
È consequenziale che, con una direzione d’orchestra priva di un progetto chiaro, ondivaga e cervellotica, i solisti di canto siano tutti svantaggiati e in imbarazzo. Marco Berti è tenore dall’atteggiamento iniziale alquanto nervoso, evidentemente per lo scoglio del «Celeste Aida, forma divina», da cantare a freddo; la voce è impostata troppo in avanti, e la linea di canto sorretta da un piglio aggressivo, che è il tratto generale della condotta vocale, ma che non sortisce alcuna utilità. Nel corso della romanza si annoverano poi errori di solfeggio, totale mancanza di fraseggio e di espressività, mentre la puntatura conclusiva, aperta e mantenuta troppo brevemente, è priva di qualsiasi smorzatura, a conferma di quell’atteggiamento aggressivo con cui il cantante esordisce. La reazione del pubblico del turno B è severa, poiché non manifesta neppure un cenno di applauso al termine della celebre cavatina. La prestazione migliora un poco nel declamato della scena del trionfo, «O Re: pei sacri Numi», e diventa accettabile nel duetto con Aida del III atto. Berti non canta male, anzi ha una voce dal timbro pregevole; ma la linea di canto resta sempre così “grezza”, così squadrata, da far pensare più a Turiddu che non a Radamès. Comunque sia, il duetto tra Aida e l’amato, poi terzetto con il ritorno in scena di Amonasro, è il momento più felice dell’intera esecuzione, apprezzato anche dal pubblico. Non così il duetto finale nel sepolcro, in cui Berti alterna emissioni stentoree (anche fuori luogo) a difetti d’intonazione piuttosto evidenti.
Nadia Krasteva è un’Amneris dalla voce aggressiva e inespressiva quanto quella di Berti; appare soltanto capace di prorompere in note basse di petto, e non importa se le parole per lo più non si capiscono («Se in campo il duce impavido / cadde trafitto a morte» è enunciato in maniera distinguibile, ma così mascolina da evocare un film dell’orrore). I suoi acuti sono discutibili, striduli, e poi nessun suono è dolce; nella grande scena che apre il IV atto il canto è troppo corrivo al grido o all’emissione di petto scomposta, del tutto eterogenea rispetto al registro delle note centrali.  Aida è interpretata da una cantante ben diversa rispetto ai due precedenti: Hui He è capace di alleggerire i suoni nei momenti lirici, anche se ha uno stile espressionista nei recitativi. La voce è corposa, dai colori scuri molto apprezzabili, e sicura negli acuti. «Ritorna vincitor!… E dal mio labbro» è penalizzato da un tempo staccato troppo rapidamente dal direttore: se in orchestra si colgono bellissime architetture ritmiche affidate agli archi, la voce del soprano è invece troppo sacrificata. E forse sempre a causa dell’eccessiva velocità, l’Aida delle He finisce per sembrare verista, con colpi di glottide e accentuazioni stilistiche oggi difficilmente condivisibili, specie nei primi due atti. In «O cieli azzurri, o dolci aure native» la voce si è riscaldata, fino a raggiungere un timbro molto bello; le puntature finali sono affrontate con una certa fatica, e soprattutto con qualche disallineamento rispetto al tono richiesto da Verdi (è un difetto ricorrente nel canto della He, già occorso nella Messa di Requiem che ha inaugurato la stagione RAI a Torino). Nel successivo duetto con Radamès le numerose difficoltà vocali sono risolte per lo più con il ricorso al pianissimo e alle mezze voci: un accorgimento che funziona in modo soddisfacente. Le protagoniste femminili, comunque, sono molto apprezzate dal pubblico, anche per la loro efficacia scenica: sia la He sia la Krasteva sono fiori di affascinante bellezza.Ambrogio Maestri è Amonasro, come già nell’edizione del 2012; ora però canta con un certo risparmio dei mezzi vocali, quando non è coperto dagli ottoni di Noseda (nel II atto). E anche nel duetto del III atto baritono e soprano sono a volte in difficoltà perché sopraffatti da pesantezze orchestrali inutili e dannose; la voce di Maestri si ritrova piena e potente nella corona della celebre frase «Dei Faraoni tu sei la schiava!». Marco Spotti è un basso sempre convincente, e dunque il suo Ramfis è personaggio corretto e plausibile sul piano vocale. Ha voce differente, un po’ cavernosa e con un leggero vibrato corto, Alexander Tsymbalyuck nel ruolo del Re, comunque efficace. Corretta, anche se poco incisiva, la voce del Messaggero di Jaeheui Kwon. Molto buona, vibrante e precisa nelle colorature, la voce della Sacerdotessa di Sae Kyung Rim. Il coro scaligero istruito da Bruno Casoni ha cantato bene, seppure le frenesie ritmiche del direttore abbiano causato qualche piccola défaillance, per esempio nel corso del trionfo.
All’indomani della prima del 2006, il 13 dicembre «La Repubblica» stampava un ampio reportage, soprattutto memorialistico, di Alberto Arbasino, dal titolo Ma l’Aida non può che essere kitsch. Per tante ragioni quel titolo, coniato per giustificare le scelte di Zeffirelli e per riportare a più miti consigli i detrattori dello spettacolo, è ancora riutilizzabile, nella sua felice sintesi di un’eterna questione. Nella grande rassegna del Kitsch di cui si sostanzia l’Aida zeffirelliana, a ogni ripresa il catalogo si arricchisce di qualche particolare notevole; questa volta si possono ricordare gli scudi leopardati dei soldati egizi nel I atto, una sorta di chiassoso gadget per una guerra molto glamour contro gli Etiopi ormai incombenti su Tebe «dalle cento porte» (anche il libretto di Ghislanzoni fa la sua parte quanto a suggerimenti letterariamente pompier). Nella vastità pletorica della scena del trionfo, il costume rosso di Aida è la nota più significativa ed emotiva di tutto il versante scenico; per il resto, è un totale sfavillio di oro e di bijoux. È invece un segno ricorrente, che risveglia i ricordi di recita in recita, l’aroma aspro dell’incenso che si leva tra II e IV atto da bracieri fumiganti e da tripodi che – più che l’Egitto faraonico – rimandano allo stile del Secondo Impero, magari filtrato attraverso molto cinema hollywoodiano. E poiché corre il 2013, è irrinunciabile il riferimento al cinquantenario di Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz, distribuito appunto nel 1963, l’anno della prima Aida scaligera di Zeffirelli: i manierismi, le sovrapposizioni cronologiche, le megalomanie costumistiche tra cinema e mise en scene dell’opera verdiana si infittiscono nel confronto. C’è poi un’aggiunta narrativa dovuta al regista, con il personaggio coreutico di Akhmet, «presente nei momenti nodali della storia di Aida, Radamès e Amneris come una “conduttrice” di energie celesti per proteggere e accompagnare il cammino difficile e fatale dei tre personaggi» (secondo quanto scrive lo stesso Zeffirelli nel programma di sala, Appunti per una nuova lettura di Aida). In termini generali, l’allestimento punta su di una dicotomia netta: i primi due atti sono quelli della dimensione colossale, pubblica, politica, sfarzosa, invasi di luce piena e di riflessi dell’oro; i secondi due atti sono notturni, misteriosi, funerei, e quindi avvolti nell’oscurità e in aromi leggermente tanatofili. Tale interpretazione deriva da un’analisi musicale, in parte esatta, sulla suddivisione stilistica dell’opera in due parti. Per il resto, la cifra conduttrice di Zeffirelli è la monumentalità architettonica, con relativo riempimento scenografico di masse corali, comparse, danzatori; se tutto questo rischia di occultare le meraviglie musicali, dell’orchestra e del canto dei personaggi, può anche considerarsi un eccesso; ma se l’integrazione riesce, allora l’obbiettivo – almeno quello della “ricostruzione storico-musicale” – può dirsi raggiunto. D’altra parte «le bellezze di Aida sono spesso di una natura intenzionale, che si rivela meglio alla lettura, ed all’esecuzione può venire facilmente assorbita nella farragine del grande spettacolo»: parole di Massimo Mila.Foto Brescia/Amisano © Teatro alla Scala