Gioachino Rossini 150: “L’inganno felice” (1812)

Farsa in un atto su libretto di Giuseppe Foppa. Artavazd Sargsyan (Bertrando), Silvia dalla Benetta (Isabella), Baurzhan Anderzhanov (Ormondo), Tiziano Bracci (Batone), Lorenzo Regazzo (Tarabotto). Virtuosi Brunenses, Antonino Fogliani (direttore). Jochen Schönleber (regia), Robert Scharg(scene), Claudia Möbius (costumi), Nicole Berry (luci). Registrazione Königliches Kurtheater Bad Wildbad, 23-25 giugno 2015. 1 DVD Dynamic EAN 8007144377601

L’inganno felice è, fra le farse rossiniane in un atto, quella che ha goduto di minor fortuna. Scarso successo non certo dovuto a una deludente qualità musicale – che spesso è altissima e apre significativi spiragli sulla futura produzione del compositore – quanto alla sfuggente natura dello stesso genere. Farsa, “L’inganno felice”, è solo negli elementi strutturali ma non certo nell’orizzonte espressivo rientrante piuttosto in quel genere semi-serio che dalla metà dell’Ottocento è stato guardato con non pochi sospetti a partire dalla visione romantica di una netta differenziazione dei generi rimasta poi bagaglio della tradizione critica fino a tempi relativamente recenti. Pièce à sauvatage, secondo il genere divenuto di moda nel tardo Settecento – si pensi alla “Lodoïska” di Cherubini – e più volte ripreso dallo stesso Rossini negli anni seguenti – “Torvaldo e Dorliska”, “La gazza ladra” – dotato al tempo di una vitalità significativa a prescindere dal per noi paradigmatico – ma per molti versi atipico – caso del “Fidelio” beethoveniano. Opera quindi semi-seria ma con ben poco di semi – le stesse parti buffe di Tarabotto e Batone non sono certo comiche essendo sinceramente umana la prima e venata di inquietanti doppiezze la seconda – e molto di serio nell’infelice vicenda della Contessa Isabella sfuggita per buona sorte dalle trame del perfido Ormondo e vissuta dieci anni in un povero villaggio di minatori. Un taglio quindi molto lontano da certi stereotipi rossiniani che a lungo hanno impedito una piena comprensione del genere.
Il festival Rossini in Wildbad allestisce questa produzione come sempre con grande passione e limitati mezzi ma il risultato finale è molto convincente. Merito anzitutto di Antonino Fogliani che qui si mostra decisamente più a suo agio di quanto non lo sia nell’aulica nobiltà delle opere serie giostrando con bravura, malinconia e brio, leggerezza e commozione così da rendere il peculiare carattere del genere. Alle sollecitazioni direttoriali rispondono i Virtuosi Brunenses in ottima forma e pianamente in linea con la visione del direttore.
Silvia Dalla Benetta è un’Isabella notevole pur con qualche limite vocale. La voce, pur mancando un po’ di luminosità e smalto e nonostante qualche insicurezza, è, però, ampia, solida, robusta, quasi troppo drammatica per il personaggio; il canto di coloratura è buono e l’interpretazione molto convincente rendendo al meglio il carattere patetico e melanconico dell’infelice Contessa. Artavazd Sargsyan, altre volte apprezzato in parti di secondo piano nel passare al ruolo di protagonista di Bertrando, mostra qualche limite sia nel canto di coloratura che nel settore acuto della voce pur disponendo di un timbro piacevole e di una buona comunicativa interpretativa. Lorenzo Regazzo sfrutta tutta la sua esperienza in questo repertorio tratteggiando un Tarabotto di profonda umanità oltre che ottimamente cantato. Tiziano Bracci regge con sicurezza l’impervia parte di Batone – scritta per il grande Filippo Galli – e ha il merito di non dare del ruolo un’immagine troppo bonaria ma di far emergere i tratti ambigui del personaggio forse non così solo vittima delle prepotenze di Ormondo. Il loro duetto – prova generale di un genere in cui Rossini sarà insuperato maestro – è semplicemente trascinante e fra i momenti più riusciti della registrazione. Di buona presenza sia scenica che vocale l’Ormondo di Baurzhan Anderzhanov.
Essenziale ed elegante lo spettacolo di Jochen Schönleber. La vicenda, pur attualizzata agli anni della II guerra mondiale – uniformi e mezzi rimandano a quel contesto storico –, è seguita in modo rigoroso e preciso, senza inutili forzature e con grande cura dei dettagli.  Le scene di Robert Scharg e i costumi di Claudia Möbius sono tutti giocati su sfumature di grigio che, se da un lato rendono l’ambiente pesante e polveroso della miniera e dei poveri abitati che la circondano, dall’altro, grazie al cromatismo così prossimo agli effetti visivi dei filmati storici in bianco e nero, danno l’inpressione di assistere ad una pellicola d’epoca, soluzione particolarmente riuscita in relazione all’ambientazione scelta.