Gioachino Rossini (1792-1868): “Guillaume Tell”

Opera in quattro atti di Victor Joseph Étienne de Jouy e Hippolyte Louis Florent da “Wilhelm Tell” di Friedrich von Schiller e da “Guillaume Tell” di Jean-Pierre Claris de Florian.  Andrew Foster-Williams (Guillaume Tell),  Michael Spyres (Arnold Melcthal), Nahuel Di Pierro (Walter Furst / Melcthal padre di Arnold), Tara Stafford (Jemmy), Raffaele Facciolà (Gesler ), Giulio Pelligra (Rodolphe), Artavazd Sargsyan (Ruodi, il pescatore), Marco Filippo Romano (Leuthold), Judith Howarth (Mathilde), Alessandra Volpe (Hedwige).
Cast della musica supplementare: Marco Filippo Romano (Guillaume Tell), Giulio Pelligra (Arnold Melcthal), Raffaele Facciolà (Gesler / Walter Furst), Tara Stafford (Jemmy), Artavadz Sargsyan (Rodolphe), Diana Mian (Mathilde), Alessandra Volpe (Hedwige).  Camerata Bach Choir, Poznań; Virtuosi Brunensis, direttore Antonino Fogliani.  Registrazione dal vivo: Trinkhalle, Bad Wildbad, Germania, XXV Rossini in Wildbad Festival, 13/16/18/21 luglio 2013. T.Time: 4h.12′,21″.  4 CD Naxos 8.660363-66
Guillaume Tell è un’opera di cui tutti quanti, inclusa la solita casalinga di Voghera, conoscono almeno un paio di brani (Ouverture e Finale), un’opera ritenuta come una svolta epocale nella storia della musica, assunta come pietra del paragone, considerata da molti il capolavoro assoluto di Rossini; la romanza di Mathilde “Sombre forȇt”, quasi sempre in traduzione italiana, fa parte del repertorio di moltissimi soprani, ed anzi, date le sue particolarità (ampie opportunità di far sfoggio di legati e pianissimi in una tessitura tutto sommato comoda) è onnipresente a concorsi di canto ed audizioni.  È un’opera di cui si parla molto ma che si rappresenta poco. Sebbene non si sia mai completamente eclissata, ha vivacchiato ai margini del repertorio sin dall’epoca della sua creazione (1829, Opéra di Parigi), sempre in attesa che ogni tanto un teatro con mezzi significanti e soprattutto un tenore a disposizione osasse riproporla, generalmente in versioni italiane orrendamente mutilate, sovente veri e propri lavori di macelleria.  Il problema dei tagli, da affrontare in dettaglio in quanto la loro riapertura costituisce una delle maggiori attrattive della presente incisione Naxos, emerse già durante le prove, allorché Rossini, resosi conto delle dimensioni mastodontiche che stava assumendo l’opera, decise di accorciare il pas de trois tirolese, eliminare un balletto alla fine dello stesso atto, l’aria tutto sommato insipida di Jemmy, e la bellissima preghiera di Hedwige del quarto atto.  Dopo la prima il compositore effettuò gradualmente altri tagli così che al momento del suo ritorno in Italia Rossini lasciò sulle scene parigine una partitura in cui erano scomparsi anche il pas de deux, gran parte dei dialoghi del finale secondo, dei recitativi con cui Tell si rifiuta di rendere omaggio a Gesler, e addirittura il terzetto di Mathilde, Jemmy e Hedwige nel quarto atto; piccoli brani orchestrali furono tagliuzzati qua e là, la presenza di Arnold eliminata durante l’aria di Mathilde del terzo atto (la cui strumentazione fu notevolmente alleggerita), personaggio, quello della principessa austriaca, che scomparve del tutto nel quarto atto (e questo spiega perché, anche quando successivamente le venne concesso di tornare in scena, si continuò ad assegnare ad Arnold il suo intervento “Oui, la nature sous nos yeux..” nel Finale, come appare in ogni partitura prima della pubblicazione di quella critica a cura di M. Elizabeth C. Bartlett su cui si basa questa incisione.  Ben presto, in ogni caso, fu l’aria intera di Mathilde a sparire, per ragioni extra-musicali: con quell’aria, oltre a un tenore eccezionale, diveniva d’obbligo ingaggiare e pagare anche un soprano fuoriclasse. Ma i tagli, anzi le amputazioni, termine usato dal compositore stesso, evidentemente non erano sufficienti, perché il Pesarese, cedendo all’inevitabile, obtorto collo autorizzò nel 1831 una versione in tre atti, in cui gli elementi più vistosi sono la scomparsa dell’arioso di Tell “Sois immobile”, e soprattutto la sostituzione della cosmica apoteosi finale con l’allegro vivace dell’ouverture adattata per coro e solisti. Inoltre ben presto l’Opéra prese ad introdurre il secondo atto nel mezzo di altri spettacoli che con Tell non avevano nulla a che fare; citatissimo è l’aneddoto secondo cui durante una passeggiata il direttore del teatro incontrò Rossini e pensando di comunicargli una buona notizia lo informò che la serata successiva avrebbero messo in scena il secondo atto del Guillaume Tell, al che lui rispose: “Come? Tutto il secondo atto?”.  Questo lungo preambolo si è reso necessario per spiegare che la presente incisione, frutto di quattro recite di un allestimento del Rossini in Wildbad Festival del 2013, è l’unica sul mercato a presentare il Guillaume Tell (in lingua originale, ovviamente) nella sua interezza, compresi i tagli effettuati prima e dopo la prima, aggiungendo in appendice le modifiche apportate alla versione in tre atti.
Ma la meritoria operazione filologica non è l’unico argomento di vendita di questa registrazione, che offre, oltre ad eccellenti forze orchestrali e corali, un’ottima direzione e una superba prova tenorile.  Antonino Fogliani colpisce immediatamente con una sinfonia che già da subito rivela il suo approccio all’opera: struggente, sognante, malinconica nell’ andante iniziale, ruggente, rutilante e serrata nelle sezioni più veloci; nelle sue mani ciascuna delle quattro sezioni di cui è composta rivela la propria caratteristica eppure scorrono fluidamente senza cesure.  Si potrebbe parlare di concezione neoclassica della partitura: energica e vitale ma sempre mantenendo una compostezza pre-romantica, una lettura che libera quest’opera dall’ottica quarantottesca con cui spesso – anzi quasi sempre -la si è osservata; trasmette una calma solo lievemente increspata anche quando l’atmosfera si arroventa.  Il finale dell’opera è costruito magistralmente, con un crescendo che arriva per gradi sempre più intensi alla cosmica catarsi. Fra tanta cura ed attenzione desta un po’ di sorpresa la totale mancanza di variazioni nei daccapo o abbellimenti delle cadenze. Esperto concertatore, Fogliani è sempre attento a mettere in luce i pregi e a mascherare (fino a un certo punto, poi miracoli non può farne) i difetti della compagnia di canto.  Una volta soltanto si lascia prendere un po’ troppo dall’entusiasmo, e ciò ha luogo nella cabaletta di Arnold del quarto atto, staccata con un tempo indubbiamente euforizzante che però dà del filo da torcere persino ad un cantante del calibro di Michael Spyres.  Il tenore americano offre nel complesso una prova a dir poco superlativa: la struttura vocale è mostruosa nel senso positivo del termine, in quanto comprende un’estensione di tre ottave, dimostrata in un’aria dell’Antigono di Antonio Maria Mazzoni in cui dal sol 4 precipita fino al sol 1.  Se il timbro brunito e virile lo rendono adattissimo ai ruoli da baritenore, si disimpegna con destrezza anche in parti dalla tessitura vertiginosa come appunto quella di Arnold: sono prestazioni come questa che richiamano alla mente l’arte della sprezzatura, la capacità di far sembrare facile quello che in realtà è quasi disumano.  L’interprete è fantasioso, rispettoso di ogni segno dinamico, abile e disposto a smorzare ad ogni altezza.  L’unico momento di dubbio gusto è la puntatura al termine della cabaletta, soltanto perché cerca di tenere più del dovuto la sillaba finale di “aux armes”, che è costretto a lasciare in modo un po’ brusco.  Judith Howarth (Mathilde) ha all’attivo una carriera ormai trentennale in un repertorio piuttosto ampio e variegato, e i segni del tempo sono innegabilmente avvertibili: l’emissione si è fatta dura, intubata, segnata da un’oscillazione già nei centri che se al momento è ancora tollerabile, lascia presagire problemi più seri in un futuro neanche troppo lontano.  “Sombre forȇt” non decolla per la mancanza di canto sul fiato e conseguente galleggiamento del suono e assenza di legato, mentre la ben più ardua aria del terzo atto crolla a causa di un’intonazione precaria, agilità approssimative e soprattutto una linea di canto scomposta, frammentata da troppe riprese di fiato.  I limiti della Howarth sono evidenti nel duetto del secondo atto in cui soprano e tenore ripetono le stesse frasi, e il confronto è impietoso. Il ruolo eponimo si basa quasi esclusivamente su un costante declamato tipico dell’opera francese interrotto da rari ariosi; è necessaria quindi una vocalità ben scolpita, marmorea, ma connessa ad un fraseggio estremamente vario e ricco di sfumature per poter conferire a Tell una psicologia più interessante di quella indubbiamente dominante dell’eroe senza macchia e senza paura.  Il baritono inglese Andrew Foster Williams non spicca né per nobiltà timbrica, né per immaginazione interpretativa: se si aggiunge una fonazione poco raffinata il risultato è quello di un protagonista pallido e di scarso rilievo.  Raffaele Facciolà, al contrario, nonostante un’emissione non immune da asperità, dispone di una gamma di accenti piuttosto ampia, che gli consente di dar vita ad un antagonista multidimensionale, un “villain” che rimane tuttavia un essere umano e non una marionetta, e che giustifica tutto il tempo e l’energia che Tell e compagnia impiegano per liberarsene. Il basso Nahuel Di Pierro interpreta sia Mechtal che Walter Furst senza farsi notare troppo, mentre più interessante sembra la voce di Marco Filippo Romano nei panni di Leuthold. Fra tutte le parti di fianco spicca Alessandra Volpe, che presta alla parte di Hedwige un timbro quasi contraltile morbido e vellutato, con cui impedisce al terzetto femminile del quarto atto di colare a picco, se si considera che oltre a una Mathilde in difficoltà, abbiamo un Jemmy peso piuma (Tara Stafford, ovvero Mrs. Spyres) dal timbro afflitto da un vibrato strettissimo e acuti alquanto cavallini.  Giulio Pelligra si disimpegna bene nel ruolo di Rodolphe, mentre discutibile è la scelta di Artavadz Sargsyan, tenore dal registro acuto forzato, e ben sappiamo come un do acutissimo facile e squillante sia conditio sine qua non per il piccolo ma impegnativo ruolo del pescatore.  Alcuni dei cantanti impegnati nei ruoli secondari interpretano le parti principali nei brani posti in appendice; l’unico nome nuovo è quello di Diana Mian, soprano dal timbro limpido cui non sarebbe stata malvagia idea assegnare il ruolo di Mathilde nell’opera vera e propria.  Per concludere, un caveat emptor necessario soprattutto per gli audiofili e per chi si distrae facilmente: i rumori di scena sono davvero troppo invadenti anche per un’incisione dal vivo.