Christoph Willibald Gluck (1714-1787):”Iphigénie en Tauride” (1779)

Christoph Willibald Gluck (Erasback, Alto Palatinato 1714 – Vienna 1787)
Il clima avvelenato di Parigi e le ulteriori polemiche lanciate dal fronte piccinista dopo il successo del “Roland” del compositore italiano avevano spinto Gluck a provare un ritorno a Vienna nel febbraio del 1778, portando con sé i libretti e probabilmente i primi abbozzi per due nuove opere, fra cui quello per “Iphigénie en Tauride” firmato dal giovane letterato Nicolas-François Gullard e cui aveva probabilmente collaborato l’amico du Roullet, l’autore dei primi libretti francesi del compositore.
La situazione trovata a Vienna si rivelò però ben diversa da quanto Gluck si poteva augurare: le polemiche di Parigi avevano infatti contagiato anche la capitale asburgica. Il soggetto dell’Ifigenia taurica rappresentava già una sfida impegnativa a Vienna, dove era vivo il ricordo del trionfo ottenuto da Traetta con analogo soggetto; inoltre, la scelta del nuovo direttore del Burgtheater De Vismes di commissionare un’opera sullo stesso tema a Piccini faceva intuire a Gluck come il soggiorno viennese non si aprisse sotto i migliori auspici. È in quest’atmosfera che Gluck cerca di mettere in movimento i suoi contatti francesi, cominciando ad ipotizzare una possibile destinazione parigina per la sua Iphigénie, scelta che si rivelò opportuna tanto che l’opera poté vedere la luce 18 maggio 1779 all’Academie Royale de Musique, accolta da un convinto successo.
La vicenda – che a Parigi rappresentava una sorta di conclusione di un ideale dittico con “L’Iphigénie en Aulide del 1774 – era un soggetto particolarmente amato dalla cultura del tempo per la sua capacità di fondere la più pura tradizione classica con suggestioni emotive già preromantiche, in una sintesi fra i due mondi che la tragedia di Goethe del 1787 realizzerà nel modo più perfetto. I librettisti di Gluck non si rifanno al riguardo al modello euripideo, ma ad una meno prestigiosa e più recente versione che già anticipava certe suggestioni e forniva tutta una serie di elementi d’effetto particolarmente adatti alla trasposizione lirica, ovvero l’omonima tragedia di Claude Guimond de la Touche andata in scena a Parigi il 4 giugno 1757 e che già era servita come principale fonte a Marco Coltellini per il libretto dell’opera viennese di Traetta.
Conscio del valore della partitura e dell’importante occasione per affermarsi definitivamente sui rivali, Gluck curò la messa in scena nei minimi dettagli e per la parte musicale si affidò a una compagnia non solo di provato valore, ma nei confronti della quale nutriva un’assoluta fiducia. Nel ruolo della protagonista fu scelta Rosalie Levasseur, già prima interprete di Amour nell’”Orphée ed Eurydice” parigino; Pilade fu affidato all’ormai immancabile Legros mentre per la parte di Oreste fu scelto Henri Larrivée, che, se non vantava dirette collaborazioni con Gluck, ne era però convinto ammiratore
Concepita fra Parigi e Vienna, l’opera rappresenta una straordinaria mediazione fra due mondi culturali e forse il risultato più compiuto di Gluck nel creare un nuovo linguaggio musicale autenticamente europeo e in cui le esperienze dell’opera riformata viennese e della tragedie-lyrique si fondono in una nuova forma di compita coerenza. Per quanto anche in “Iphigénie en Tauride” non manchino brani derivati da opere precedenti, questi sono usati in modo sistematico rispetto all’”Armide” e in genere posti in punti nodali della vicenda, quasi a fare di quest’opera una sorta di museo dell’arte gluckiana precedente: è il caso dell’ouverture tratta da “L’isle de Merlin”, della scena delle furie ricavata dal balletto “Sémiramis”, della grande aria di Iphigenie “Ô malheureuse Iphigénie” che reinterpreta il sublime tema di “Se mai senti spirarti sul volto” da “La clemenza di Tito” – una delle melodie più nobili e pure di tutto il Settecento musicale – o il grande finale in cui ancora si rielaborano elementi tratti da “Semiramis”, il tutto però fuso quanto e ancor più che in “Armide” in una straordinaria coerenza di fondo e in una visione del teatro musicale ormai totalmente proiettata verso il futuro.
La scrittura orchestrale è ricchissima  carica di una pregnanza drammatica e di una centralità emotiva che ormai fanno presagire fisicamente il nascente romanticismo, specie il personaggio di Oreste lacerato dalle sue nevrosi e dai suoi sensi di colpa – e qui le furie figure di sogno prive di ogni fisicità che non sia psicologica sembrano invero proiezioni di un inconscio lacerato che anticipa di oltre un secolo certe riflessioni freudiane – ha il canto accompagnato da un’orchestra di una ricchezza e di una intensità ormai quasi beethoveniane.
Il canto fonde in una nuova unità tutte le esperienze pregresse con lo stesso rigore visto nella scrittura orchestrale. I confini fra le varie forme vocali sono definitivamente superate, il declamato ha raggiunto vertici di espressività musicale perfetta, momenti con la grande scena che precede l’autentico duetto fra Oreste e Pilade nel III atto o il monologo di Ifigenia che apre il IV atto organizzato secondo un unico blocco stilistico in cui le due componenti si riprendono e si arricchiscono a vicenda lo testimoniano. La cantabilità italiana si esprime nella ripresa della forma autentica dell’aria – ovviamente, com’era venuta a ricostruirsi nelle opere riformate del periodo viennese – che, innestandosi sulla struttura drammatica della tragedia musicale francese, permette una ricchezza irraggiungibile autonomamente rispetto a quanto fosse possibile separatamente ai due modelli di partenza. Ormai al massimo della propria maturità espressiva, Gluck può usare ogni elemento a sua disposizione e riplasmarlo per le nuove necessità: così ricompare anche il canto di coloratura, come in “Je t’implore et je tremble” di Ifigenia, ma non più inteso come esibizione virtuosistica, bensì come specifico elemento espressivo, contribuendo a dare al brano un sapore già tutto mozartiano e all’ascolto non possono non venire in mente le arie di Donna Anna che faranno uso dei medesimi metodi di costruzione espressiva.
Per quanto celeberrima non può esser taciuta la scena di Oreste del II atto  – “Dieux! protecteurs de ces affreux rivages…Le calme rentre dans mon cœur” che, per originalità e modernità di concezione, rappresenta una delle più geniali intuizione gluckiane. Forse per la prima volta nella storia dell’opera in modo così compiuto si realizzava un totale straniamento fra le parole del testo e il senso espressivo del brano che ad esse è totalmente contrario, con la musica chiamata a negare la falsità delle parole e aprire uno squarcio su una verità più profonda. Lezione destinata a lasciare un segno profondo fino a germogliare con tutta la sua inesausta gamma di possibilità nell’arte di Wagner che in questo, come in molto altro, appare veramente come la lussureggiante fioritura di quanto l’esperienza gluckiana aveva cominciato a seminare.
I balletti – così imprescindibili nella cultura musicale francese – sono limitati a due brevi sezioni, corrispondenti alle danze guerriere degli sciti dopo la cattura di Oreste e Pilade e alla visione orinirica delle furie da parte di Oreste, mentre l’opera è chiusa con un coro – ripreso da “Paride ed Elena” – ed è totalmente soppresso il balletto conclusivo tradizionale.
Pregevole la scrittura corale che qui si organizza sulla contrapposizione fortemente marcata fra la dimensioni violenta e barbarica degli sciti e la purezza classica delle sacerdotesse che incarnano l’elemento greco. I primi sono particolarmente interessanti per la soluzione utilizzata: Gluck parte dai motivi musicali di tradizione “turchesca” e li prosciuga di ogni elemento folkloristico, mantenendone la struttura ritmica di fondo che si presta alla perfezione a rendere la natura barbarica e orientale degli sciti, senza però nessuna concessione all’orientalismo di maniera, mentre fra i cori delle sacerdotesse si trovano alcune delle pagine di più alta ispirazione, come il sublime inno “Chaste fille de Latone”, una delle più belle preghiere mai messe in musica e probabilmente non ignoto a Mozart, vista la vicinanza di certe soluzioni con le pagine più profondamente spirituali di “Die Zauberflöte”.
L’opera fu accolta con grande successo e fu uno dei titoli gluckiani più rappresentati in Francia, con riprese nel corso di tutto il XIX secolo e fu anche oggetto  di numerosi adattamenti non privi di interesse. Fra questi va ricordata l’edizione in tedesco “Iphigenia in Tauris” curata dallo stesso compositore nel 1781, in occasione di una visita viennese del gran duca Pavel Pëtrovič, il futuro zar Paolo I. In quest’occasione, Gluck apportò alcune modifiche all’orchestrazione e traspose per tenore la parte di Oreste. Un’altra versione viennese si data al 1783 e questa volta senza la presenza dell’autore tradotta in italiano da Lorenzo da Ponte: questa edizione  è stata conosciuta in Italia fino ad anni recenti, comprese le ormai leggendarie recite scaligere del 1957 con protagonista Maria Callas e la regia di Luchino Visconti.
L’ultimo rifacimento appartiene ormai ad una fase storica totalmente diversa ed è quello curato nel 1890 da Richard Strauss, sulla falsa riga del rifacimento wagneriano dell’”Iphigenie en Aulide” e che, se nulla aggiunge alla storia dell’opera nel suo contesto storico e culturale, testimonia un interesse mai cessato nei confronti di questo titolo ben dopo il termine della stagione neoclassica.
La trama
Atto I
L’atrio del tempio di Artemide. Sta infuriando una tempesta e le sacerdotesse, guidate da Ifigenia, pregano la Dea di placare la natura irata. Cessati i venti, Ifigenia racconta alle amiche – come lei, greche prigioniere in terra straniera – l’incubo avuto nella notte in cui ha visto l’uccisione del padre da parte della madre e di questa per mano del fratello (ovvero quanto avvenuto a Micene dopo la fine della guerra troiana ma che lei ignora vivendo ormai da più di dieci anni in Scizia) e invoca la Dea perché la faccia ricongiungere con il fratello.
Entra Toante, re dei Tauri, in preda ai timori per un oracolo che ha predetto la sua morte per mano di uno straniero, cui verrà risparmiata la vita nel suo regno; questi viene raggiunto da un gruppo di guerrieri sciti che annunciano la cattura di due greci sbarcati sulle vicine spiagge: i due prigionieri – che altri non sono che Oreste e Pilade – vengono condotti di fronte al re e quindi al sacrificio.
Atto II
Interno del tempio. Oreste e Pilade sono in catene: il primo è tormentato dall’angoscia di aver causato la morte dell’amico, ma questi cerca di rassicurarlo. Le guardie giungono e portano via Pilade, lasciando Oreste sgomento anche se il sonno vince le resistenze del giovane; questo però non trova riposo perché le furie lo tormentano, rammentandogli il matricidio commesso. Oreste è raggiunto da Ifigenia: i due non si riconoscono, ma entrambi sentono nascere un affetto reciproco. La giovane interroga il prigioniero su quanto accaduto in Grecia: Oreste racconta la tragedia degli Atridi, ma, celando la sua vera identità, racconta anche la morte di Oreste. Ifigenia, sconvolta, allontana lo straniero e, dopo aver pianto per le sventure della sua famiglia, raduna le compagne per rendere onori funebri almeno al fratello.
Atto III
Le stanze di Ifigenia nel tempio. Ifigenia pensa di mettersi in contatto con la sorella Elettra che ha saputo sopravvissuta in Argo; fa quindi chiamare i due ostaggi, promettendo di liberarne uno e chiedendo in cambio la consegna della lettera per la sorella. I due giovani cercano in ogni modo di salvare l’amico: alla fine Ifigenia sceglie di affidare il messaggio a Oreste, ma le minacce del giovane di uccidersi se impossibilitato di salvare l’amico costringono la sacerdotessa ad affidare il messaggio a Pilade. Rimasta sola con quest’ultimo Ifigenia rivela che la destinataria del messaggio è Elettra, ma non svela i suoi legami con la principessa micenea. Rimasto solo, Pilade giura di salvare l’amico o di morire con lui.

Atto IV
Interno del tempio. Ifigenia, conscia di non essere in grado di levare il coltello sacrificale sullo straniero, invoca la Dea di donargli la forza che si sente mancare. Le sacerdotesse annunciano che l’ostaggio è stato preparato per il sacrificio. Oreste invoca la sorella ricordando che anch’ella è morta sacrificata, a quel nome il coltello cade di mano ad Ifigenia che rivela la sua identità al fratello. L’agnizione è interrotta dall’arrivo di Toante e degli sciti inferociti per la scoperta fuga di Pilade. Dall’esterno del tempio si odono rumori di battaglia e lo stesso Pilade prorompe nel tempio con un gruppo di guerrieri greci, con conseguente scontro con gli sciti. Toante tenta di uccidere Oreste e Ifigenia, ma in quel momento compare Diana, che non solo ordina la liberazione di tutti, ma impone di consegnare il proprio simulacro ai greci, in quanto gli sciti per troppo tempo l’hanno profanato con i loro sacrifici di sangue. L’opera si chiude con il grande coro che celebra lo scampato pericolo e la riunione di fratelli e amici.

La registrazione
“IPHIGÉNIE EN TAURIDE”
Tragédie lyrique in quattro atti su testo di Nicolas François Guillard

Prima rappresentazione: Parigi, Académie Royal de musique, 18 maggio 1779
Iphigénie Caitlin Hulcup (Soprano)
Oreste Grant Doyle (Basse-taille)
Pylade Christopher Saunders (Haute-contre)
Thoas Christopher Richardson (Basso)
Diane Margareth Plummer (Soprano)
Orchestra of the Antipodes – Cantillation
Direttore Antony Walker
Registrazione Live: Recital Hall Sydney,  7 dicembre 2014
Chissà cosa avrebbe pensato Gluck, paladino di un’idea europea e sovranazionale di melodramma, di vedere la sua musica non solo capace di unificare l’Europa, ma anche di essere celebrata in una terra lontana e, ai suoi tempi, di recente scoperta e ancora sostanzialmente ignota come l’Australia: eppure proprio da quella terra viene questa recentissima registrazione, una sorta di ideale chiusura per le celebrazioni del tricentenario gluckiano.
Registrata lo scorso 7 dicembre alla Recital Hall di Sydney, in occasione di un’esecuzione in forma di concerto, questa esecuzione colpisce soprattutto per la forza espressiva e la coerenza stilistica degli strumentisti della Orchestra of the Antipodes, che al riguardo mostrano di non avere nulla da invidiare alle più acclamate compagini europee specializzate in questo repertori: l’orchestra di Sydney mostra infatti un’ammirevole pulizia di suono – particolarmente evidenziata dall’ottima ripresa audio – e si dimostra capace di sprigionare pienamente la forza drammatica della partitura, anche grazie alla direzione vitale e teatralissima di Antony Walker che non solo regge con grande abilità i complessi fili della scrittura gluckiana, ma li vivifica con una lettura assolutamente coinvolgente che non teme di abbandonarsi alla vibrante energia che questa musica contiene. Il coro Cantillation non è forse allo stesso livello e, soprattutto, manca di naturalezza nel controllo della prosodia francese, ma offre una prestazione decisamente solida in cui emergono i brani dal carattere più lirico e disteso, mentre si nota una certa tensione nei passi più drammatici e barbarici.
Il cast non è sicuramente perfetto, ma è unito da un entusiasmo diffuso che si trasmette e che rende la prestazione complessiva decisamente coinvolgente, nonostante le lacune dei singoli interpreti. Caitlin Hulcup è sostanzialmente un mezzosoprano e l’impressione di trovarsi un po’ al limite su certi acuti è evidente, ma, in compenso, la voce è di notevole robustezza e di bel colore, mentre l’interprete appare decisamente attenta, evidenziando un’Ifigenia di forte personalità e riuscendo a dare al composto rigore di molte frasi la giusta autorevolezza della sacerdotessa capace di imporsi con la propria forza morale sulle passioni che dominano gli altri personaggi. I passaggi di coloratura sono puliti e giustamente espressivi e, se la declamazione francese non è inappuntabile, l’autorevolezza dell’accento giunge a compensarla, almeno per l’ascoltatore non di madrelingua francese.
L’Oreste di Grant Doyle fa della forza e dell’irruenza il suo tratto distintivo, la voce è sana, robusta e squillante, ma di grana finissima e anche l’interprete risulta un po’ grossier, soprattutto nei momenti più lirici e cantabili, mentre la convinzione interpretativa lo fa risultare decisamente più efficace quanto la tensione drammatica cresce fino al parossismo e la linea vocale tende ad articolarsi in modo più frammentario; è innegabile che, pur senza un senso dello stile inappuntabile, il personaggio in qualche modo venga centrato.
Christopher Saunders vocalmente è meno ragguardevole, ma sicuramente ha maggior eleganza e senso dello stile e il suo Pilade fornisce un buon contraltare all’irruento Oreste di Doyle. “Unis de la plus tendre enfance” è aria celeberrima e Saunders non può certo reggere il confronto con certi illustri precedenti, ma nell’insieme fornisce una convincente prestazione.
Di interessante presenza vocale – fato salvo qualche acuto al limite in “De noir presentemente” – il Toante di Christopher Richardson, autentico basso come richiesto dal ruolo; corretta nel breve e non particolarmente ispirato recitativo di Diana Margareth Plummer.