Christoph Willibald Gluck: “Orfeo ed Euridice”

Ranieri de' Calzabigi

Christoph Willibald Gluck (Erasback, Alto Palatinato 1714 – Vienna 1787)
Orfeo ed Euridice, Opera in tre atti su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
“Sarei degno di un rimprovero ancor più sensibile se acconsentissi a lasciarmi attribuire l’invenzione del nuovo genere d’opera italiana il cui successo ha giustificato il tentativo. È a Monsieur de’ Calzabigi che ne appartiene il principale merito; e se la musica ha incontrato qualche favore fra il pubblico, credo di dover riconoscere che è a lui che ne sono debitore, poiché è lui che mi ha consentito di sviluppare le risorse della mia arte. Questo autore pieno di genio e di talento ha seguito una strada poco conosciuta dagli Italiani nei suoi libretti d’Orfeo, Alceste e Paride. Queste opere sono piene di quelle situazioni felici, di quei tratti terribili e patetici che forniscono al compositore il mezzo per esprimere grandi passioni, di creare una musica energica e toccante”.

Con queste parole lo stesso Gluck in una lettera pubblicata il 1 febbraio 1773 sul «Mercure de France» rese omaggio al suo librettista Ranieri de’ Calzabigi; ma chi fu questa figura estremamente intrigante di avventuriero e di libertino che inventò perfino un sistema di lotteria durante il suo soggiorno parigino con l’aiuto di Madame de Pompadour e la partecipazione di Giacomo Casanova? Eccone un ritratto lasciatoci proprio dal grande seduttore italiano nella sua autobiografia:

Giacomo Casanova
Giacomo Casanova

“Incontrai un uomo dall’aspetto poco attraente, poiché era coperto di una specie di lebbra; ma ciò non gl’impediva né di mangiare né di scrivere né di assolvere perfettamente a tutte le funzioni fisiche e intellettuali; parlava bene e aveva un carattere molto allegro. Non si mostrava in pubblico, perché, oltre a questa sua malattia che lo sfigurava, aveva in certi momenti e piuttosto spesso, un’irresistibile voglia di grattarsi dappertutto; e dal momento che grattarsi a Parigi è ritenuto una cosa abominevole, preferiva lasciare muovere le sue unghie in libertà alla gioia che gli avrebbe procurato il vivere in società. Gli piaceva dire che credeva in Dio e alle sue opere, e che era persuaso che gli aveva dato le unghie perché si procurasse la sola consolazione che si poteva permettere nel momento di rabbia di cui era divorato […] Egli era più anziano e celibe, grande calcolatore, abile in tutte le operazioni finanziarie, conoscitore del commercio di tutte le nazioni, dotto in storia, bel esprit, poeta e gran donnaiolo”.
Certamente gran donnaiolo ed esperto dell’arte della finanza, come ricordato da Casanova, Calzabigi fu un grande uomo di teatro. Nato a Livorno, aveva maturato un’importante esperienza teatrale alla Corte di Napoli per la quale aveva composto cantate e feste teatrali. In seguito si era trasferito a Parigi, dove, oltre a conoscere Casanova e la Pompadour, curò l’edizione francese dei drammi di Metastasio, alla quale antepose un’importante Dissertazione da cui si possono enucleare i suoi principi estetici in merito al teatro musicale. Famoso per la sua abilità in campo finanziario, Calazabigi fu chiamato come consigliere alla corte di Vienna dove divenne il braccio destro del principe Kaunitz e dove entrò a far parte del gruppo antimetastasiano di cui uno dei massimi esponenti era il Conte Durazzo, direttore dei teatri imperiali; fu proprio lui a commissionargli il libretto dell’Orfeo ed Euridice per Gluck. Durante la sua esperienza teatrale Calzabigi aveva maturato una concezione del teatro musicale estremamente innovativa e diversa da quella di Metastasio, al quale, nella già citata Dissertazione, pur riconoscendo la presenza, nei suoi drammi, di arie che egli riteneva il modello di vera poesia drammatica, imputava di non aver rispettato l’esigenza di portare sulla scena passioni grandi ed esemplari che, a suo giudizio, costituivano il fondamento del melodramma. Egli, inoltre, pur ritenendo importante conservare la spettacolarità della Tragédie Lyrique con un coro numeroso e l’immancabile balletto, affermava l’esigenza di eliminare gli intrecci secondari, i paragoni, le sentenze morali ed altri elementi puramente decorativi e, a suo parere, ridondanti e, quindi, poco efficaci per la delineazione del dramma. Nella concezione drammaturgica di Calzabigi bisognava restituire alla parola quel ruolo di guida spesso toltole dalla musica, che, invece, nella produzione operistica precedente, era stata preponderante, mettendo in secondo piano la delineazione dei sentimenti a cui il vero dramma doveva mirare. Calzabigi riuscì a realizzare questa sua concezione grazie all’incontro con Gluck da lui così ricordato in una lettera pubblicata sempre sul «Mercure de France» nel mese di agosto del 1784:
“Arrivai a Vienna nel 1761, pieno di queste idee. Il signor Gluck non era tenuto in conto (e a torto senza dubbio), fra i più grandi maestri… Gli feci la lettura del mio Orfeo e gliene declamai più pezzi a più riprese, indicandogli le sfumature che mettevo nella mia declamazione, le sospensioni, la lentezza, la rapidità, i suoni della voce ora caricata, ora affievolita e trascurata nel modo in cui se ne facesse uso nella sua composizione. Lo pregai, nel frattempo, di bandire i passaggi, le cadenze, i ritornelli e tutto ciò che si è messo di gotico, di barbaro, di stravagante nella nostra musica. Il signor Gluck aderì ai miei punti di vista”.
Gaetano Guadagni

Gaetano Guadagni

Considerata ancora oggi il capolavoro di Gluck e Calzabigi, Orfeo ed Euridice riscosse un immediato successo già alla prima rappresentazione avvenuta il 5 ottobre 1762 al Burgtheater di Vienna con Gaetano Guadagni (Orfeo), Marianna Bianchi (Euridice) e Lucia Claverau (Amore). A questa prima seguirono oltre 100 repliche e l’entusiasmo fu tale che l’imperatrice Maria Teresa alla seconda recita donò a Gluck un anello aureo e adamantino. Nel volgere di pochissimo tempo l’Orfeo divenne un vero e proprio successo europeo, tanto che due anni dopo la partitura venne stampata a Parigi; fu un caso unico nella storia della musica, dal momento che le opere italiane non venivano quasi mai stampate nella capitale francese a causa dell’ormai atavica diffidenza della cultura musicale d’oltralpe nei confronti dell’opera italiana.
Il successo europeo dell’opera è certamente dovuto al carattere complesso e, per certi aspetti, cosmopolita della partitura gluckiana, dal momento che in essa convivono in una perfetta sintesi elementi tratti da tradizioni musicali diverse e, in particolar modo, da quella italiana e da quella francese. Se, infatti, l’adozione della lingua italiana, la presenza di un protagonista castrato, la riduzione dei personaggi a 3 come nella festa teatrale e l’introduzione del recitativo accompagnato derivavano dalla tradizione italiana, l’influenza della Tragédie-Lyrique si esercitava in particolar modo nel soggetto mitologico, nella grandi scene corali e di danza, nell’orchestrazione particolarmente curata e nella conclusione a lieto fine che simboleggiava l’assolutismo monarchico.
La maggiore novità del libretto di Calzabigi, rispetto al modo in cui i soggetti mitologici e quello di Orfeo, in particolar modo, erano stati trattati, consiste nell’umanizzazione dei personaggi che vivono e sentono come se fossero delle persone umane e non delle creature astratte. Per ottenere ciò Calzabigi riscrisse il famoso mito di Orfeo, che costituisce anche la base del melodramma, trasformando Euridice in un personaggio attivo, vero e vivo a differenza di quanto avveniva sia nella formulazione classica, ovidiana nelle Metamorfosi e virgiliana nelle Georgiche, sia nella sua elaborazione operistica cronologicamente più vicina, quella di Monteverdi, dove la donna svolgeva un ruolo passivo, quando addirittura non veniva coinvolta nell’azione. Le passioni dei personaggi, inoltre, risaltano grazie ad uno stile di canto che aderisce pienamente al testo del quale la musica esalta il suo valore letterario per mezzo di una scrittura semplice e scevra da colorature. Dal punto di vista formale, inoltre, il libretto di Calzabigi spezza la consueta sequenza di recitativo ed aria che aveva contraddistinto i drammi metastasiani a favore di una più discreta alternanza tra versi sciolti (recitativi) e versi lirici (arie) che, più che una struttura formale astratta, segue ed esalta l’evolversi del dramma e delle singole situazioni sceniche.

 L’opera (Il libretto)
Atto primo

Orfeo ed Euridice Es. 1
Orfeo ed Euridice Es. 1

L’opera è introdotta da una brillante ouverture che, contravvenendo a uno dei principi della cosiddetta riforma gluckiana, non anticipa affatto le situazioni del dramma, ma si presenta come un brano gioioso interamente costruito su un incisivo e vivace disegno tematico (Es. 1).
In uno stridente contrasto la scena iniziale, che si svolge in un ameno, ma solitario boschetto di allori e cipressi dove si trova la tomba di Euridice, si apre con un coro, il quale, alternandosi con Orfeo che evoca il nome della moglie, commenta l’azione e, in particolar modo, la recente morte di Euridice. Questo coro (Ah se intorno quest’urna funesta), formato da pastori e ninfe che esortano la defunta ad ascoltare il lamento di Orfeo, si caratterizza per una scrittura che esalta il pathos grazie ad appoggiature discendenti e a una melodia piana. Orfeo, subito dopo, in un recitativo all’interno del quale è possibile trovare una sezione in arioso piena di pathos, invita i suoi amici ad allontanarsi; questi, danzando al ritmo di un Larghetto di carattere malinconico, vanno via, lasciando solo Orfeo; questi canta il suo dolore per la morte di Euridice in tre arie (Chiamo il mio ben così – Cerco il mio ben così – Piango il mio ben così) di carattere strofico e intercalate da recitativi, nei quali il pathos è reso anche grazie ad intervalli altamente drammatici e poco consueti per l’epoca come la settima minore discendente sulla parola Euridice del secondo recitativo. Dal punto di vista formale queste arie monopartite contravvengono la classica struttura tripartita con da capo di ascendenza metastasiana creando una continuità con i recitativi. Orfeo si rivolge ai numi (Numi!. Barbari numi), perché questi le restituiscano Euridice e al suo appello risponde Amore, latore di un messaggio di Giove; il padre degli dei, avuta pietà del suo pianto, vuole accontentarlo restituendogli Euridice a patto che egli non si volti a guardarla prima che sia fuori dall’antro di Stige dove gli è concesso di entrare per riprenderla. Amore, quindi, intona una convenzionale aria col da capo (Gli sguardi trattieni), mentre Orfeo, nel successivo recitativo, sebbene consapevole dell’equivoco che avrebbe creato con Euridice non guardandola in volto, accetta la prova pur di riavere con sé la ninfa amata; un breve vivace brano sinfonico conclude l’atto

Atto secondo
La scena iniziale del secondo atto si svolge in un’orrida caverna al di là del fiume Cocito nella quale Furie e Spettri stanno danzando
. Interrotte dal suono della lira di Orfeo, queste forze infernali ammoniscono l’ignoto intruso (Chi mai dell’erebo) prima di scatenarsi in una sfrenata danza che, insieme al coro, ha trovato spazio nel repertorio sinfonico. Orfeo, accompagnato dalla sua lira si presenta e chiede alle potenze infernali di placarsi e di compatirlo per il dolore che sta provando. Inizialmente irremovibili, le potenze infernali, di fronte alle preghiere di Orfeo, addolcendosi a poco a poco, si allontanano per lasciare spazio al semidio. Questo passo musicalmente è caratterizzato da tre arie monopartite, ricche di pathos (Deh placatevi – Mille pene – Men tiranne, ah voi sarete) e intercalate da cori.

Orfeo ed Euridice Es. 2
Orfeo ed Euridice Es. 2

La scena si sposta in un ameno boschetto, I Campi Elisi, introdotti da un interludio di carattere pastorale e rappresentati icasticamente da una scrittura orchestrale particolarmente raffinata che caratterizza la successiva aria, Che puro ciel, affidata ad Orfeo. Qui la funzione descrittiva è assolta da una dialogo tra diversi strumenti tra cui spiccano il violoncello solista, il flauto e l’oboe al quale è affidata il tema principale (Es. 2). In quest’aria ancora una volta il testo viene esaltato dalla scelta di Gluck di lasciare sola, soprattutto nella parte conclusiva dell’aria, la voce del cantore, a cui rispondono gli strumenti dell’orchestra. Un coro di eroi ed eroine, inizialmente omoritmico con una breve sezione centrale di carattere imitativo (Vieni ai regni del riposo), accoglie Orfeo prima di prodursi in una nuova danza che presenta le eleganti movenze di un ballo di corte. Alla fine del ballo Orfeo, in un nuovo recitativo, chiede a quelle anime di restituirgli Euridice in nome di quel focoso desio che è l’amore. In modo solenne, con un latino Ecce Euridice, quelle anime grandi restituiscono la sposa ad Orfeo prima di intonare un coro musicalmente simile al precedente con il quale si chiude il secondo atto.

Atto terzo
L’atto si apre con una brevissima introduzione strumentale di appena quattro battute di carattere tortuoso come il labirinto all’interno del quale Orfeo sta guidando Euridice invitandola a seguirlo (Vieni, segui i miei passi, unico amato oggetto).
Durante il recitativo, a differenza di quanto avviene nel mito, Euridice risponde ad Orfeo chiedendogli come sia stato possibile il suo ritorno in vita. La ninfa si lamenta con il suo sposo per il suo strano comportamento in quanto non solo non manifesta alcuna tenerezza nei suoi confronti, ma la guarda nemmeno. Nel duetto Vieni! Appaga il tuo consorte, Euridice afferma di preferire la morte alla freddezza del suo sposo il quale la prega di non chiedere il motivo di questo suo atteggiamento. Euridice, sconvolta, comprende che Orfeo le sta nascondendo un segreto e si lamenta di quella vita che sta riprendendo nel recitativo (Qual vita è questa mai) dove elementi patetici e descrittivi esaltano ancora il testo riproducendone il carattere affannoso. Subito dopo Euridice intona la convenzionale aria di furia (Che fiero momento) dalla struttura tripartita il cui da capo è, però, accorciato. Alle nuove preghiere di Euridice, Orfeo non resiste e si volta a guardare la sposa che ritorna ad essere un’ombra.

Orfeo ed Euridice Es. 3
Orfeo ed Euridice Es. 3

A questo punto Orfeo canta la celebre aria Che farò senza Euridice, un rondò dalla struttura riassumibile nello schema A-B-A-C-A il cui refrain è costituito da una melodia di delicato e commosso lirismo (Es. 3) nel quale si contravviene leggermente allo stile sillabico che ha caratterizzato l’opera a favore di una maggiore, sia pur discreta, accentuazione dell’aspetto musicale. Nel recitativo successivo Orfeo manifesta la volontà di uccidersi, ma, prima che egli possa dar corso a questa sua intenzione, interviene Amore, deus ex machina, che ferma il suo gesto e gli restituisce Euridice. L’opera si conclude con canti e danze di eroi e di eroine che inneggiano all’Amore all’interno di un tempio dedicato a questa divinità.
La registrazione – a cura di Giordano Cavagnino
“ORFEO ED EURIDICE”
Azione teatrale in tre atti su libretto di Ranieri de’Calzabigi
Prima rappresentazione: Vienna, Burgtheater, 5 ottobre 1762
Orfeo Daniela Barcellona (contralto)
Euridice Andrea Rost (soprano)
Amore Julia Kleiter (soprano)
Coro e orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Riccardo Muti
Live recording: 28 aprile 2007
Eseguita in forma di concerto in occasione dell’edizione 2007 del Maggio Musicale Fiorentino questo’”Orfeo ed Euridice” di Gluck riveste un notevolissimo interesse. Viene infatti eseguita la versione originale del 1764 – priva quindi di tutte le modifiche e gli aggiustamenti subentrati in seguito e spesso dopo la morte dello stesso Gluck – in un’edizione di altissimo profilo musicale e con una protagonista capace di rendere a pieno la classica grandezza del ruolo di Orfeo troppo spesso affidato nelle edizioni critiche a sopranisti e contro-tenori che pur di buon valore in alcuni casi possono solo far intuire quanto un grande mezzosoprano può esprime pienamente.
L’approccio di Riccardo Muti – perfettamente accompagnato dai complessi del Maggio Musicale Fiorentino – è di per se già degno del massimo interesse. Il Maestro ha sempre avuto con Gluck un rapporto particolare affrontandolo con una sistematicità rara in direttori non filologici e con risultati artistici sempre di altissimo livello, alcuni dei quali da annoverare fra le punte più alte dell’intera carriera direttoriale di Muti – si pensi alle edizioni scaligere di “Iphigenie en Tauride” ed “Armide” – ad anche in questo caso l’interesse non manca. Tra le due vie oggi imperanti nell’affrontare questo repertorio – il richiamo ad una tradizione gloriosa ma in gran parte superata da un lato ed una filologia spesso trasformata in fine piuttosto che in strumento di conoscenza dall’altro – Muti si crea una terza, personale via.
Il direttore opta per un’orchestra tradizionale con strumenti moderni – in quei giorni non lesinò polemiche contro certi eccessi della prassi filologica – e non rinnega la tradizione esecutiva storica di cui rimangono il gusto per un colore orchestrale pieno, sontuoso ed un taglio espressivo fortemente drammatico e chiaroscurato che evoca più certe forme dell’ellenismo maturo asiano che il luminoso nitore della classicità fidiaca per trovare un paragone all’antica che verosimilmente non sarebbe spiaciuto a Gluck ma allo stesso tempo piega questo materiale ad una lettura di assoluto ed inappuntabile rigore, dove i dettagli della scrittura gluckiana sono esaltati in tutta la loro ricchezza secondo un gusto decisamente moderno quasi a voler mostrare come la tradizione – nei suoi elementi migliori – ed innovazioni filologiche possano convivere e non siano necessariamente incompatibili.
Fin dall’ouverture Muti ci introduce in un mondo di austera, mobile commozione che è il tratto più caratteristico della sua visione e dove la musica accompagna ed esalta il volere teatrale della parola in tutta la sua sublimità retorica dietro alla quale è pienamente intellegibile un attento e puntuale lavoro che porta non solo ad una dizione ineccepibile ma all’autentico valore drammatico del legame fra musica e testo che assumono i recitativi grazie anche alla prova magistrale di Daniela Barcellona, esemplare sotto questo punto di vista. Ovviamente in una lettura di questo tipo brillano i momenti più drammatici come la scena degli inferi – e va segnalata l’efficacissima contrapposizione fra la ridda veramente infernale delle furie e il purissimo e disincarnato suono dell’arpa che evoca la lira del cantore trace – e le contrapposizioni nette e marcate fra i singoli blocchi come l’abbagliante nitore che introduce agli Elisi dopo le tenebre del Tartaro. Ma l’intera partitura è letta da Muti all’interno di un rigoroso senza drammatico e teatrale che investe ogni momento dell’opera così che l’aria di Euridice del III atto non è solo lo sfogo di una moglie delusa ma l’autentico compimento del dramma di una figura di natura eroica e persino “Gli sguardi trattieni” è staccata con un tempo più lento e scandito di quanto si sia soliti ascoltare rinunciando ad essere un semplice momento di svago galante per caricarsi di ombre non prive di tratti inquietanti nonostante il tono leggero dell’aria.
La lettura di Muti può andare pienamente in porto grazie ad una protagonista di straordinario livello. Colta al massimo delle proprie possibilità Daniela Barcellona è infatti uno splendido Orfeo. Voce bellissima, ampia, compatta con gravi di non comune pienezza e acuti sicuri e squillante, perfetto contro tecnico e assoluto aplomb stilistico fanno di lei il miglior Orfeo degli ultimi decenni ma ancor più che per il canto, già di per se magnifico – si ascolti la pulizia di linea di “Che farò senza Euridice” – e sul piano dell’accento e dell’interpretazione che la Barcellona risulta autentica trionfatrice. La dizione è perfetta ed il testo sempre pienamente intellegibile, e mai si insisterà a sufficienza sull’importanza di questo aspetto nelle opere riformate di Gluck permettendo una scansione della frase e una declamazione autenticamente neoclassiche per nitore e chiarezza espressiva; gli interventi di Orfeo nella scena corale di apertura hanno veramente il nobile rigore di un rilievo antico ma come in questo la perfezione formale non è mai freddezza ma sempre vivificato dalla verità espressiva che accompagna tutta la prestazione della cantante triestina.
Il resto del cast non è al medesimo livello ma fornisce nell’insieme prove più che convincenti. Andrea Rost non è più nella forma che mostrata in alcuni spettacoli scaligeri degli anni ’90 ma è pur sempre una cantante di solida professionalità e dotata di un buon materiale di partenza con una voce decisamente godibile nel suo timbro morbido e luminoso. La dizione non è sempre pulitissima – e la vicinanza con la Barcellona non l’aiuta di certo al riguardo – e qualche acuto risulta indurito ma l’intesa con Muti e notevole e la Rost coglie pienamente l’idea che il direttore ha del ruolo riuscendo a tratteggiare un’Euridice per una volta più eroina tragica che moglie piagnucolosa arrivando a capo in modo corretto dell’aria del III atto nonostante le già ricordate imprecisioni vocali.
Julia Kleiter è un Amore dalla vocalità più piena e corposa di quanto voglia la tradizione e in questo pienamente in linea con la lettura più seria che del ruolo da Muti. Soprano lirico piuttosto che leggero dispone di una buona voce calda e carezzevole e di una pronuncia italiana decisamente apprezzabile; l’aria del primo atto assume così, come già ricordato, un carattere diverso e più coerente all’impianto drammaturgico complessivo oltre ad essere cantata in modo decisamente ammirevole.