Venezia, Teatro La Fenice: “La Sonnambula”

Venezia, Teatro La Fenice,  Stagione Lirica 2012
“LA SONNAMBULA”
Melodramma in due atti, su libretto di Felice Romani.
Musica di Vincenzo Bellini
Il conte Rodolfo FEDERICO SACCHI
Teresa  JULIE MELLOR
Amina JESSICA PRATT
Elvino SHALVA MUKERIA
Lisa ANNA VIOLA
Alessio DARIO CIOTOLI
Un notaro RAFFAELE PASTORE
Coro e Orchestra del Teatro La Fenice di Venezia
Direttore Gabriele Ferro
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Bepi Morassi
Scene Massimo Checchetto
Costumi  Carlos Tieppo
Luci Vilmo Furian
Nuovo allestimento
Venezia, 20 maggio 2012

La grande terrazza prospiciente un paesaggio alpino mozzafiato con sventolante bandiera bianco-crociata su fondo rosso e funivia ormeggiata di quest’ultimo colore, in cui si svolge buona parte del primo atto dell’opera, avrebbe potuto suscitare l’interesse di qualche tour operator del tempo che fu in cerca di argomenti per allargare il proprio giro d’affari. La cosa strana è che su questo spazio elitario e simbolico della jet society degli anni Quaranta o giù di lì fanno la loro comparsa alcuni poco probabili abitanti del locale borgo contadino, con seguito di notaio, per celebrarvi un matrimonio tra persone apparentemente di classe, che sorseggiano distratte un drink o ballano la musica diffusa da una radio. Ma fin qui si potrebbe anche soprassedere. I problemi veri nascono quando tutti annunciano l’arrivo di una carrozza, avvertiti dal calpestìo dei cavalli, e invece arriva la tutt’altro che equino-trainata funivia, nel frattempo discesa e risalita, da cui sbuca bel bello il nostalgico quanto satireggiante Conte Rodolfo. Ma non basta. Il nobiluomo cerca e trova sull’istante i luoghi ameni – il mulino, il fonte, il bosco, la fattoria – presso cui ha trascorso la sua prima gioventù. Sulla terrazza di un albergo? Sembra difficile … Certo i registi ‘lirici’ ci hanno abituato a tutto ormai. Riteniamo, comunque, legittimo accordare loro la massima libertà creativa, ad un solo patto però: che rispettino le esigenze del testo, per non parlare di quelle della musica. Invece, come abbiamo notato, sembra che, nelle situazioni descritte, più di qualche incongruenza non si possa negare. Così come avviene in apertura del secondo atto, allorché il carattere pastorale della scena, ben introdotta dal preludio, viene forzatamente vanificato da un’altra scenetta da tour operator , che vede la presenza di un Pullman arancione e di una schiera di turisti con l’autista intento a riporre gli sci sul portabagagli: il tutto sempre modello anni Quaranta o giù di lì. E si potrebbe continuare con la pagina finale del sonnambulismo, che si svolge in una sorta di salone delle feste dell’albergo, compromettendo ancora una volta, a nostro modesto avviso, il carattere intimamente idilliaco dell’opera.
Diversamente la direzione di Gabriele Ferro ha messo in luce, attraverso tempi abbastanza dilatati, la componente lirica e meditativa dell’opera, ma ha saputo anche animare l’agogica per sottolineare adeguatamente i climax drammatici, sorretto da un’orchestra in generale duttile e precisa. Il suo Bellini è risultato meno esile nelle sonorità di quanto si ascolta abbastanza spesso, pur senza mai contravvenire al dettato precipuo del compositore, che è quello di dare sempre il dovuto risalto alle voci nella migliore tradizione del Belcanto. Non a caso talora l’accompagnamento orchestrale è volutamente ridotto a pochi tratti minimali. Sempre autorevole il gesto direttoriale nei pezzi d’insieme.
Quanto agli interpreti vocali, Jessica Pratt (Amina) ha sfoggiato una bellissima voce di soprano lirico-leggero dalla pasta omogenea, evidenziando un’ottima padronanza tecnica, che le consentiva facilità negli acuti come nelle mezze voci, nei filati e nei trilli. Il suo canto era particolarmente elegante e lieve per l’abilità nell’affrontare salti anche estesi senza portamento e per la dizione chiara e suggestiva come in «Come per me sereno» (che Ferro ha accompagnato con un ritmo riposato e meditativo e un bel legato dell’orchestra) e nella successiva cabaletta «Sovra il sen la man mi posa», resa con grande agilità nelle colorature e ottima intonazione, a rendere una gioia quasi presaga dell’imminente dolore. Meraviglioso l’acuto finale. Amina si è rivelata molto espressiva anche nel recitativo – mai banale in Bellini – insieme a Teresa presso il podere di Elvino. Ma il momento culminante della sua interpretazione si è realizzato nella scena del sonnambulismo del secondo atto, dove ha fatto sentire un declamato bellissimo per fraseggio e colori senza eccessi né portamenti, sullo sfondo di un’orchestra dalle sonorità soavi. Veramente sublime poi si è rivelata in «Ah, non credea mirati», assecondata dal misurato accompagnamento degli archi, che metteva in valore un canto caratterizzato da assoluto controllo della voce per esprimere un’Amina ora infiammata d’amore ora sconsolata per la perdita dell’amato, meritandosi acclamazioni e applausi a scena aperta. Appassionata e precisa nelle colorature anche nell’impervia cabaletta finale «Ah, non giunge uman pensiero» dal piglio energico e festoso, siglata da uno sfavillante fa sovracuto.
Shalva Mukeria
come Elvino è risultato un ragguardevole tenore di grazia dal timbro piuttosto corposo, capace di acuti squillanti e di un fraseggio scolpito, ben recitato, senza impacci; una voce di bello smalto anche nel registro grave come si è potuto apprezzare nelle celeberrima «Prendi, l’anel ti dono», ma anche nel duettino «Ah, vorrei trovar parole» e nel successivo duetto «Son geloso del zefiro amante », in cui lo si ascoltava appassionato assieme a un’Amina teneramente rassicurante. Dell’atto secondo ricordiamo «Tutto è sciolto» e la successiva cabaletta «Ah!Perché non posso odiarti» intonate con ricchezza di pathos e colorature eseguite con naturalezza senza alcun intento virtuosistico come le ha concepite l’autore.
Anna Viola
in «Tutto è gioia, tutto è festa» ha saputo rendere con voce piuttosto estesa, uniforme nei vari registri e agile, nonostante il timbro piuttosto ibrido, il carattere mesto dell’aria in cui Lisa svela il suo amore impossibile per Elvino. Sufficientemente espressiva anche l’aria del secondo atto «De’ lieti auguri», quando invece l’ostessa crede di poter coronare il sogno di sposarlo.  La Teresa di JulieMellor ha rivelato poco peso vocale e un timbro metallico, ma ha trovato il giusto accento nella scena in cui parla delle sinistre apparizioni del fantasma. Suggestivo il suo intervento nel secondo atto («Piano, amici: non gridate; dorme alfin la stanca Amina»): uno squarcio lirico che interrompe l’enfasi dell’insieme. Piuttosto scialbo il conte Rodolfo di Federico Sacchi. In «Vi ravviso, o luoghi ameni» l’accento non era propriamente elegiaco come richiesto dal testo: un po’ troppo aperto ed acerbo il timbro, senza adeguato peso la voce, che si sfarinava nelle note gravi. Ma anche i successivi interventi non sono andati meglio:  tra l’altro il basso è incappato per ben due volte in un attacco sbagliato. Incerta nell’intonazione e dal timbro acerbo la voce Dario Ciotoli (Alessio), mentre  Raffaele Pastore si è rivelato un dignitoso “notaro”. Ottima, per concludere, la prestazione del coro sempre duttile, coeso, espressivo fin dalla prima canzone «In Elvezia non v’ha rosa». Calorosi applausi hanno salutato i cantanti, il vernacolo Bepi Morassi, il direttore. Foto Michele Crosera – Teatro La Fenice di Venezia