“Itaipú” di Philip Glass all’Auditorio Nacional di Madrid

Philip Glass, Itaipu,Orquesta y Coro Nacionales de Espana

Madrid, Auditorio Nacional de Música, Temporada 2015-2016
Concierto Extraordinario de Orquesta y Coro Nacionales de España
Direttore Dennis Russell Davies
Maestro del coro Miguel Ángel García Cañamero
Violino Tim Fain
Violoncello Matt Haimovitz
Philip Glass : Days and Nights in Rocinha – Concerto per violino, violoncello e orchestra – Itaipú. A Symphonic Portrait for Chorus & Orchestra
Madrid, 16 aprile 2016

Aumenta appena il volume sonoro di una modulazione o di una sequenza, ed ecco che riesce a trasfondere un’aura bruckneriana nelle lunghe arcate di Days and Nights in Rocinha: è Dennis Russell Davies, alla guida di Orquesta y Coro Nacionales de España per il primo concerto straordinario della stagione 2015-2016 “Malditos”; il programma monografico rende omaggio al Philip Glass sinfonico-concertante, approssimandosi gli ottant’anni del compitore statunitense. E non si sarebbe potuto scegliere un direttore che conoscesse meglio di Russell Davies tutti i segreti e la vita interiore delle partiture di Glass.
Incarico dell’Orchestra della Radio di Vienna risalente al 1998, Rocinha si apre con un modulo che non sfugge a un certo decorativismo; ma è lo sviluppo a caratterizzare la qualità dell’opera. Alla struttura di apertura, enunciata da archi e fiati, si aggiungono infatti progressivamente le percussioni (timpani, grancassa, xilofono, marimba e molte altre), sebbene l’autore si sforzi di evitare l’imitazione di un crescendo omogeneo, su modello del raveliano Bólero. Per il resto l’evocazione dell’atmosfera musicale brasiliana è decisamente sommessa: non compaiono mai ritmi riconoscibili di samba (anche se proprio questo è l’elemento più tipico del quartiere di Rocinha), a riprova che Glass rinuncia a tradurre moduli popolari in forma sinfonica. Chi si attende un punto di culminazione o un apice tematico resta deluso, in quanto tutto il brano (che dura circa mezzora) sembra una lunga introduzione a se stesso, interminabile e compiutissimo inizio di un seguito che non c’è; in questo, funge perfettamente da ouverture al programma della serata.
Accostandosi ai generi più tradizionali della musica romantica e post-romanica, Glass ha sostenuto che esistono due tipologie fondamentali di concerto solistico: quella in cui lo strumento mantiene continuamente un ruolo egemonico, e quella in cui solisti e orchestra sono bene integrati tra loro. Nell’opera commissionatagli nel 2010 dal Netherlands Dance Theater, che in origine doveva essere una suite orchestrale, Glass decide di sperimentare una terza modalità, dedicandosi alla scrittura concertante per violino e violoncello, due strumenti la cui interazione gli pareva evocativa della danza e dell’arte coreutica. La struttura che il compositore sceglie per questo concerto conferisce un aspetto “architettonico” prevedibile, poiché alterna con precisione due dimensioni spaziali: quella cameristica, in cui i due strumenti dialogano senza alcun rapporto con l’orchestra, e quella sinfonica, in cui la compagine s’innesta sui duetti. Le scelte tematiche appaiono pertanto di secondaria importanza, avvicendandosi in una sorta di antologia degli stilemi di tutto Glass. L’integrazione di scrittura dei due strumenti solistici è perfetta: vibrati, disegni melodici, definizioni ritmiche sono sempre redistribuiti in modo da concorrere all’armonia, più che a un discorso troppo articolato o disomogeneo. La facies stilistica è quanto mai tradizionale; l’attacco sinfonico della penultima sezione (IV. Part 2), che succede a un duetto molto elegiaco, pare la riscrittura di un motivo brahmsiano.
Il pubblico apprezza molto le due esecuzioni, tributando applausi generosi a solisti, direttore e orchestra, ma è soltanto con la seconda parte che tutto l’entusiasmo, la meraviglia e la commozione che Glass è capace di suscitare si liberano completamente, in un trionfo memorabile. Il brano più significativo di tutto il programma è ovviamente Itaipú, che è anche il più antico dei tre pezzi (1988) ed è caratterizzato da un’origine compositiva del tutto peculiare, Nel 1987 Glass visitò la più grande centrale idroelettrica del mondo, Itaipú, appunto, edificata sul fiume Paraná al confine tra Paraguay e Brasile; comparando la gigantesca opera di ingegneria di condotte forzate, turbine, accumulatori elettrici, con le vicine cascate di Iguazú, Glass decise di rendere omaggio alla forza con cui l’uomo osa modificare la natura e tenta di sfruttarne la potenza. Più precisamente, Glass parlò per la diga sul Paraná di un «atto di immaginazione grazie al quale l’umanità ebbe l’ardire di trasformare la natura; quello stesso atto che permise la costruzione delle piramidi dell’Egitto». La cantata è articolata in quattro parti (Matto Grosso – The Lake – The Dam – To the Sea) e il testo scelto per la parte corale è l’antico poema guaranì sul mito dell’origine della musica, sempre riconducibile al fiume Paraná; Itaipú significa infatti ‘pietra che canta’ ed è la parola guaranì che esprime il suono della pietra che per prima cadde nel grande fiume, originando così tutti i suoni successivi e la musica dell’uomo. Anche un’isoletta nei pressi della diga reca questo antico nome, e lo ha trasmesso alla centrale elettrica costruita negli anni Settanta e inaugurata nel 1984.
Scintillio del suono e cromatismo caratterizzano il I movimento (Matto Grosso), tutto consacrato all’enunciazione corale del mito guaranì: nell’orchestra spiccano le frasi nitidissime degli ottoni, mentre il Coro Nacional de España, istruito da Miguel Ángel García Cañamero, si presenta sempre in forma smagliante e impeccabile. In The Lake si fa strada un motivo elegiaco e commovente: è il lago originato dallo sbarramento della diga, che inghiotte un’immensa porzione di foresta con tutti i villaggi guaranì. Questo scontro di natura e di progresso umano si traduce in una tecnica di iterazione più complessa del solito, perché evita le simmetrie prevedibili, e obbedisce piuttosto a un criterio affettivo/espressivo, giocato sulla reinterpretazione allegorica del testo musicato. «Il nostro Pa-pa Miri creò questa terra, e fece sì che il canto sacro dell’uomo risuonasse in essa. […] Dopo aver colmato la totalità dello spazio terreno con i canti consacrati degli uomini, il nostro Padre fece ritorno alla propria casa». Ma nel pensiero del compositore il canto di un’umanità ancestrale e incontaminata, che colma il mondo con il suo echeggiare nella foresta, è adesso sostituito dall’acqua del fiume, bloccata dalla mano dell’uomo, indotta a inghiottire l’antica selva e a formare un lago che Pa-pa Miri non aveva previsto. Come in una salmodia incalzante, il coro declama la diffusione della poesia nel mondo su di un pedale orchestrale mobilissimo, che Russell Davies mantiene ricco di colori. La sequenza non è celebrativa, e non ha nulla di trionfale; piuttosto conserva un senso di nostalgia nei confronti di un cosmo perduto e armonico, che forse soltanto la musica riesce a evocare dignitosamente (nulla, invece, fa pensare allo squallore del mancato risarcimento degli indios costretti a trasferirsi o all’annoso diverbio tra Brasile e Paraguay sulle condizioni dello sfruttamento economico di Itaipú, il cui trattato bilaterale scadrà nel 2023; si può però ricordare che il 20 % del fabbisogno elettrico del Brasile e il 95 % di quello del Paraguay sono forniti dalle venti turbine di questa centrale).
Il tono entusiastico di coro e orchestra va crescendo nel corso del III movimento (The Dam), apoteosi della «terra dalle acque crescenti», sormontata da un miracoloso albero di palma; quando esso «fiorì per la prima volta – recita sempre il poema guaranì – fu il passero Piri’yriki a cibarsi per primo dei suoi fiori». È il numero più trascinante dell’intera partitura, con gli interventi percussivi più compositi e difficili; ma il gesto attento e vigile del direttore fa in modo che tutto funzioni perfettamente, come un congegno impeccabile, e che tutto risuoni come il vortice di una gigantesca turbina (al tempo stesso, ogni cedimento meccanicistico è evitato dallo stato di grazia e di ispirazione del coro). Nell’ultimo movimento, limitato alla nuova invocazione di Itaipú, è protagonista in orchestra il flauto di José Sotorres Juan, i cui prolungati trilli fissano lo scenario di pace e di armonia dell’epopea del Paraná: sembra il finale dei Vier letzte Lieder, ma in realtà è il canto dell’uccello del paradiso, Piri’ykiri, che effonde nel mondo la melodia della creazione.