L’Armonia sovrasensibile: intervista al compositore Mark Drusco

Il M° Mark Drusco (intervista dell'aprile 2014)

Mark Drusco esordisce come compositore nel 1995. Nel 2000 realizza la colonna sonora del film The Doors of the Unknown, di cui partecipa alla regia; il film è interpretato dall’attrice americana Corina Katt Ayala (la stessa che ricopre il ruolo della pittrice messicana Frieda Khalo in The Cradle Will Rock, per la regia di Tim Robbins, con John Cusack e John Turturro). Nel 2001 compone la  colonna sonora del film The Way of Beauty, nel 2002 quella di Women in Magic, e nel 2003 quella di Downigh. Negli anni più recenti, dedicandosi soprattutto alla composizione, ha delineato un nuovo rapporto tra la sua poetica e il patrimonio della musica di tradizione classica.
Maestro Drusco, Lei è un compositore che mantiene sempre attivo il rapporto tra modelli classici e innovazione. Vorrebbe spiegarci che cosa intende con la locuzione Armonia sovrasensibile, ossia una struttura musicale di sua elaborazione (e anche nome di una casa discografica che lei ha fondato nel 2012)?
SupernalArmony, ovvero Armonia Sovrasensibile, è musica che indaga nell’energia spirituale dell’animo umano e della Bellezza l’aspetto magico e primordiale della Natura. È espressione di visioni, percezioni, intuizioni, rivelazioni e condivisioni del Sovrasensibile tradotte in musica. Armonia Sovrasensibile è sintesi, perciò concentra la propria espressività in un’estrema brevità della composizione, è musica trascendente nei lemmi del Sovrasensibile: Primordialità, Ancestralità, Ignoto. Per sua natura, Armonia Sovrasensibile è vincolata alla struttura compositiva classica, con una strumentazione classica, archi, soprattutto. Il mio mondo non è musica per la musica, ma è proiezione armonica di riflessi magici naturali. Una sorta di alchimia in musica. Almeno, questa è la mia via. Ed è come si fa raccontare gli strumenti che conta, e il valore cromatico/armonico che si conferisce all’interno di un racconto sonoro (di una partitura). Per esempio, le Onde di Meraviglia, una delle serie sovrasensibili che ho recentemente composto: io definisco questi brani ‘emanazioni cromatiche’ della Bellezza. Io non voglio emulare le onde del mare in una sorta di musica a programma, ma mi calo nell’energia delle onde e la descrivo nella sua accezione sovrasensibile; così i violini, le viole, i violoncelli, i contrabbassi si lanciano in racconti di energia. Io penso in termini di battute lunghe (12/4, ad esempio), all’interno delle quali si sviluppano racconti, visioni in armonie verticali, non orizzontali. Per me una breve sequenza di note è una micro storia indipendente, eppure vincolata al richiamo della sequenza che la precede e di quella che la segue. L’incontro, l’intreccio di queste ha per me una valenza di armonia primordiale, ancestrale. Io penso che la mia musica sia tanto arcaica da sembrare nuova e tanto nuova da sembrare arcaica. SupernalArmony è diventata un Movimento musicale.
L’arcaismo di cui lei parla traspare soprattutto dalla severità e dall’asciuttezza delle sonorità realizzate (penso per esempio al violoncello, uno degli strumenti ad arco che certamente predilige), mentre le progressioni e le sequenze denunciano una struttura nuova e moderna. C’è nella sua musica una confluenza di Medioevo e di contemporaneità? Oppure la dialettica storica è del tutto superata dai tre lemmi del Sovrasensibile di cui parlava prima?
Lei è entrato in profondità nel mio mondo armonico. Voglio dirle che è la prima volta che mi capita. Per risponderle: l’uno e l’altro. La musica pre-medievale aveva già in sé l’embrione dell’armonia post-moderna, (pre-medievale e post-moderna sono molto simili) perché le due ère si assomigliano, quanto meno per confusione sociale; ma quella si rifaceva al sovrasensibile in modo spontaneo, naturale, magico, mentre questa è costruita, artefatta e grottesca. Quella era l’epoca dell’uomo in cerca di nuovi lemmi, a 360 gradi, in cui tutto era magico, sovrasensibile, mentre questa è l’epoca del disordine sociale elevato a ordine preconfezionato, e il magico, il sovrasensibile, sono una moda, e anche un affare.  Nella mia musica non c’è contaminazione o confluenza di due mondi lontani, ma c’è un nuovo e unico lemma, basato sul concetto che la musica così com’è oggi non ha più nulla da esprimere perché è totalmente svincolata dall’essere umano e dai suoi sogni. Io cerco di ripristinare un vincolo duraturo fra i sogni dell’uomo di oggi e il senso della sua vita e questo per una nuova èra in cui l’uomo sia capace di esprimere il meglio di sé spontaneamente, senza l’enfasi del ‘personaggio’ e della sua glorificazione. Così, il mio arcaismo armonico diventa un possibile futuro, l’asciuttezza dei miei strumenti diventa lucidità espressiva, e il tutto confluisce nell’Armonia Sovrasensibile.
Ho alluso al Medioevo anche per un’altra dimensione importante della sua musica: l’epica. Nelle arti performative del Novecento, più che la musica è stato il cinema a riappropriarsi dell’epica. Secondo lei è un rapporto che deve invertirsi? Gli intellettuali che oggi “fanno tendenza” parlano sempre dell’epica (in qualunque arte sia declinata) con un certo sospetto.  
L’epica nel cinema è una fasulla enfasi del mito dell’eroe, anche quando alla fine del film l’eroe muore. Ma se riandiamo all’Odissea, Odisseo torna a casa lacero e si trasforma in uno straccione, ma dentro è l’uomo scaltro e vincente che pianifica la sua giusta vendetta. È l’epica dell’UOMO, non del burocrate che torna dalla consorte e scaltrisce sul possibile compromesso con i Proci.  Il mezz’uomo di oggi farebbe questo, pur di sopravvivere. L’epica espressa dal cinema hollywoodiano ha messo l’accento sul superuomo, ma lo ha fatto riducendo tutto a muscoli e azione subordinata al mito di sé. Ma ora è tempo che sia la musica ad appropriarsi di un’epica, di un nuovo modo si sentire, di vivere. Abbiamo bisogno di spontaneità, non di labirintica complessità. Di sintesi, non di lezioso artificio fine a se stesso. Dobbiamo tornare alla logica spontanea dell’uomo dell’Ottocento, che trascendeva l’esistenza per conferirle una magica visione, e questo lo rendeva un uomo libero; e dentro, anche se fuori restava servo della gleba, una condizione a cui non poteva sottrarsi. Gli ‘intellettuali’ di oggi sono schiavi di un concetto di libertà artistica costruita sulle macerie del liberalismo, ma hanno dimenticato la spontanea trascendenza che la musica  può creare. Se la mia musica è epica lo è perché si riappropria del mito finale: la condivisione con la Bellezza, l’energia magica della Natura.
Al rapporto tradizione/contemporaneità di cui si parlava prima lei ha recentemente aggiunto un influsso dell’arte orientale, con la Harmony Haiku. Si tratta della trasformazione delle Armonie sovrasensibili, oppure è una strada parallela, ottenuta dalla suggestione di un mondo musicale e narrativo completamente “altro”, come quello giapponese?
All’inizio riconsiderai la struttura letteraria degli antichi Haiku giapponesi e cinesi legati alla filosofia Zen e Ch’an. Allora un poeta doveva esprimere in due, al massimo in tre versi concetti, visioni, rivelazioni o pensieri molto complessi; l’haiku doveva contenere il mondo in due versi. Ma si trattava di poesia. Io ho applicato il concetto delle antiche poesie Haiku alla mia musica, e ho elaborato un sistema strutturale armonico di sintesi, ma poi gli Hamony Haiku sono entrati nel sistema armonico delle mie Armonie Sovrasensibili e hanno infuso una nuova visione al tutto, fino a diventare, come dice lei, un mondo musicale parallelo e completamente ‘altro’, ma allo stesso tempo vincolato, per contenuti e struttura musicale, ai principi di SupernalArmony.
Un particolare che certamente colpisce l’ascoltatore è la durata predeterminata di queste sue composizioni: 58 secondi. Perché?
Perché quei 58 secondi di musica devono essere la sintesi estrema di una storia, di un’emozione, di una visione complessa. Io compongo per lemmi, non per descrizioni. Faccio un esempio: nell’Haiku del Vento e dell’Erba, che prosegue la serie degli Haiku della Sorgente, il violino sul tasto è l’energia a folate del vento; il secondo violino, in crescendo breve, è il respiro del vento, mentre i violoncelli in crescendo lungo sono il respiro dell’erba e il suo anelito. L’incontro e l’intreccio dei violini (vento) e dei violoncelli (erba) è l’armonia del brano. In questi 58 secondi di musica c’è la sintesi estrema di un racconto magico, la storia della condivisione fra il vento e l’erba.

 È da parecchi anni che Lei lavora molto per il cinema, in particolare americano, per la composizione della colonna sonora di film. Come si è evoluta secondo Lei la musica per cinema negli ultimi vent’anni? Molto spesso le grandi produzioni holliwoodiane presentano musiche di stile assai antiquato; a volte sembra addirittura che i modelli sinfonici degli anni Cinquanta-Sessanta (alla Bernard Herrmann, tanto per capirsi) siano insostituibili …
È vero, ma questo è dovuto a molti fattori che condizionano i compositori, prima di tutto la convinzione, nell’Industry hollywoodiana, che in un film la musica sia di supporto alle scene. Così, nelle colonne sonore dei film non si è mai andati oltre ‘l’evocativo’, il suggestivo, l’armonia ad effetto, e questo ha provocato un ristagno artistico nella musica per film. Io credo invece che la musica debba essere un elemento trascinatore in un film, perché se la musica è elevata, grande, significativa, lo è anche il film, ma non viceversa.
I lettori di “GBopera” sono soprattutto appassionati di melodramma e melomani. Qual è il suo rapporto con l’opera, e con il teatro musicale in genere? Vorrebbe cimentarsi in questo ambito performativo? Nell’età digitale il teatro musicale secondo lei è destinato a scomparire o a mutare sensibilmente?
L’opera vive e continuerà a vivere di luce propria. Il teatro musicale, invece, è passato attraverso molte rielaborazioni strutturali, spesso partendo dall’aspetto scenografico, che ha finito per influenzare anche la musica. Io sto elaborando un nuovo aspetto della mia musica: il teatro musicale Sovrasensibile.
Quali sono le sue caratteristiche? È sempre presente quella congiunzione di parola letteraria e di musica strumentale che caratterizza sin dalle origini il teatro musicale?
Immagini, suoni, sillabe, parole senza una storia né un approccio sociale ma con una valenza sovrasensibile; avrà una possibile visione di un teatro musicale libero, spontaneo, dove la voce non racconta, ma si eleva a vita, a lemma di una ragion d’essere della voce stessa, in cui la musica è compagna di avventure della voce, non accompagnatrice di storie trite o confezionate. Immagini un lungo assolo di voce e nient’altro e poi un lungo assolo di musica, poi un intreccio di voce e di strumenti che riprendano quegli assolo e ne facciano un cantico, e avrà la primordiale visione di ciò che la voce umana e la musica possono fare insieme, senza che ci sia bisogno di gorgogliare melodrammatiche sequenze di esistenza condite con costumi grotteschi davanti al paravento del sipario o di una costruita e patetica scenografia.
Qual è il suo rapporto con gli esecutori della musica che compone?
Libertà. E condivisione.  
E il rapporto con il pubblico? Lo vorrebbe più diretto, ossia vissuto nella sala da concerto?
Vorrei che la gente si alzasse e andasse a mettere gli occhi sugli strumenti e li riempisse di musica. Vorrei che gli strumentisti suonassero in mezzo alla gente e per la gente. Vorrei che la musica fosse vita nella vita.