Le verità di Maria, Divina e infelice

“Quando la conobbi, brutta, inelegante, carica di gioielli vistosi. Poi perse cinquanta chili, divenne un’altra persona” – racconta Giovanna Lomazzi, che incontrò la cantante a Milano nel 1952 e le rimase vicina negli anni del trionfo1e poi in quelli del declino – “Nessun mistero nella sua morte: è stata uccisa dal dolore”.
Le intime verità di Maria Callas. Il suo mistero forte e senza fondo. Il divario tra la fragilità della persona e l’imperiosa potenza dell’artista. Difficile comprendere, esplorare. Maria se n’è andata il 16 settembre del 1977, con una morte solitaria, spettacolare per tristezza, nella casa parigina di Rue Georges Mendel, dove s’erano consumate le stagioni del declino. È stata la sua voce, segno teatrale e musicale senza confronti, duttile e splendente nella varietà dei colori, e non immune da zone aspre e opache, ad avvisare la rinascita del belcanto a metà Novecento. Però in Maria c’è dell’altro: icona tragica e bellezza oltre le mode, non è catalogabile come cantante perché appartiene al mito. In tanti provano a scoprire e riscoprire la divina Callas e nessuno sonda veramente il suo segreto, alimentato dall’inesauribilità di una leggenda fondata non solo sul carisma dell’interprete, ma sugli interrogativi sospesi di un’esistenza ferita dagli inizi: “Maria era bisognosissima di affetto, desiderosa di calore e famiglia, sempre in cerca di un alone di difesa”, racconta l’amica milanese Giovanna Lomazzi, che le fu vicina per molti anni. “C’era in lei un dolore antico, originato dal suo sofferto rapporto con la madre. Odiava parlare dell’infanzia, come se vi avesse calato sopra un velo, anzi una saracinesca. Ma una volta che eravamo insieme a Londra mi disse a un tratto: guarda, mostrandomi un brutto segno su una gamba. Questo è quanto mi ha lasciato una sedia che mi tirò addosso mia madre”.
Bella signora imponente ed elegante (“da giovane avevo le misure sottili di Maria quand’era magra, e lei mi regalò molti dei suo abiti meravigliosi, tutti firmati Biki”), Giovanna Lomazzi è stata per la Callas una di quelle fidate e discrete presenze indispensabili alla sopravvivenza psicologica degli artisti, soprattutto se squassati da conflitti interni come lo fu Maria. “Avevo vent’anni quando la conobbi, una decina meno di lei, che in seguito avrebbe detto di considerarmi come una sorella minore”, riferisce la Lomazzi, oggi vicepresidente del Teatro Sociale di Como e impegnata nell’Aslico, associazione che riunisce e promuove giovani cantanti. “Ho accompagnato la Callas in tanti viaggi e le sono stata accanto in fasi diverse della sua vita. La conoscevo bene, mi era legata. E ora detesto le troppe sedicenti amiche pronte a scrivere sue biografie dopo averla frequentata solo pochi mesi, o i detrattori che la fischiavano in teatro e oggi non esitano a professarsi suoi cultori. C’è un continuo, incontrollato sfruttamento della sua immagine”.
Il primo incontro tra Maria e Giovanna avvenne nel ’52 al ristorante Biffi Scala, “luogo deputato di Milano per le cene dopo gli spettacoli. Vi andavo con i miei genitori che avevano un amico in comune con Battista Meneghini, all’epoca marito della Callas, più vecchio di lei di ventotto anni. Un coniuge affettuoso, protettivo e solido. In quel periodo Maria cantava Gioconda alla Scala e la vedevamo al Biffi dopo la recita. Grassa, brutta, inelegante, carica di gioielli vistosi, fatti con grandi pietre comprate in Brasile. Ci presentarono, mi diede una sua foto con dedica, nacque molta simpatia. Io, molto appassionata di musica, veneravo l’artista ed ero fiera che mi fosse amica. Intanto la vedevo cambiare, perdere peso, diventare sempre più sofisticata e bella”.
S’è favoleggiato molto sul dimagrimento della Callas: qualcuno ha detto che arrivò a ingerire un verme solitario. “Ma quale verme! Semplicemente non mangiava. Mai che toccasse pane, vino, pasta, dolci. Sia a pranzo che a cena ordinava solo filetto o pesce ai ferri con verdura scondita. Perse cinquanta chili, in pratica si dimezzò. Rispetto alla donna sciatta e gonfia che avevo visto quella prima volta al Biffi divenne un’altra persona”. Callas cantò moltissimo a Milano negli anni Cinquanta, “e io andavo a tutte le sue prove, e quando non lavorava la accompagnavo nei negozi, beandomi di tante piccole banalità femminili condivise nella quotidianità. La seguii a Berlino con la Scala, poi a New York per tre mesi, quando andò a cantare al Metropolitan. Battista volle che partissimo in quattro, lui, Maria, io ed un’altra amica. Prese in affitto un meublé con due camere da letto su Park Avenue, alla 79esima. Quando Maria non era alle prove o alle recite noi donne andavamo nei grandi magazzini, mentre lui si occupava dei contratti”. Ci furono molte altre trasferte “callassiane” per Giovanna, anche durante la fase dell’amore con Onassis, periodo che definisce “drammatico e tremendo”. Intanto, col passare degli anni, Maria aveva cominciato ad avere problemi vocali, “con cedimenti forse legati al dimagrimento, che aveva indebolito la muscolatura del diaframma. Però si ostinava a non cambiare repertorio, riproponendosi nei suoi cavalli di battaglia come Norma e Tosca, opere ormai per lei troppo impegnative vocalmente. Le ultime Norme a Parigi furono terribili. Aveva una tale paura di cantare che non era neanche più brava scenicamente. S’era persa la sua grinta, dileguata l’espressione”.
La voce l’abbandona ma Maria spera di poter cambiare vita, trasformandosi nella signora Onassis: “Passava da una crociera e da una festa all’altra, senza più studiare. Era capace di chiamarmi la mattina e dirmi che voleva andare a Parigi il pomeriggio. Io ero giovane e mi divertivo da matti, però capivo che certi strapazzi nuocevano alla sua voce. Ricordo che una volta arrivammo ad Anversa e ripartimmo l’indomani perché non se l’era sentita di cantare”.
Con Onassis, hanno scritto in molti, la passione era sconvolgente: un’ondata di eros rivelatoria a paragone del quieto rapporto col marito-padre Meneghini. “Credo che quello con Onassis fosse piuttosto un innamoramento di natura cerebrale. Erano entrambi greci partiti dal niente e saliti all’apice della fama. C’era complicità, una sorta d’intesa. Però Maria era disperata. Sul Christina, il panfilo di Onassis, facemmo una volta una crociera noi tre, solo lei, lui ed io. Stavamo mangiando al bordo della piscina dello yacht, e Maria improvvisamente scoppiò a piangere a dirotto, senza motivo. Ero molto scossa, quando stava con Battista non l’avevo mai vista così. La verità è che non era fatta per quella vita piena di niente, tra mondanità, navigazioni e jet set: si rendeva conto che stava smarrendo la sua identità più autentica. Era nata per essere cantante e lavorare in teatro, regolata dagli orari dello studio e delle prove. Quegli anni con Onassis, con cui tra l’altro non poteva parlare di musica, perché lui non ne sapeva nulla, scardinarono le sue basi esistenziali”.
Giovanna, che definisce l’armatore “di una bruttezza inavvicinabile”, narra che in quel periodo Maria fece la Norma a Epidauro, “e io vidi lo spettacolo seduta a fianco di Onassis, il quale non solo non capiva niente dell’opera, ma non seppe neppure distinguere la Callas alla sua entrata in scena. La scambiò col mezzosoprano. Poi, finita la recita, salimmo a bordo del Christina per una crociera di sogno nel Pireo, restando svegli tutta la notte e approdando ad Atene alle sette    del mattino. Eppure Maria, regina della festa, sembrava la più infelice”. Quando Onassis si sposò con Jackie Kennedy l’umiliazione fu atroce. “E arrivò il momento disastroso in cui Di Stefano le propose di fare un giro di concerti. S’ingannarono a vicenda, illudendosi di poter tornare a cantare come un tempo, e la tournée fu faticosissima. Non volli assistere a nessuna di quelle esibizioni. D’altra parte Maria, in quel periodo, non aveva piacere che noi amici di Milano andassimo a sentirla: si rendeva conto del declino e non voleva testimoni”.
Rievocando l’amica, Giovanna rammenta la sua mancanza assoluta di senso del denaro (“dopo la separazione da Battista lasciava mance spropositate nei ristoranti, addirittura somme pari al conto, e quando la rimproveravo mi diceva: devo farlo non per il valore dei soldi, ma per ciò che io sono”). Soprattutto ricorda la straziante consapevolezza della fine: “Nel ’59 mi chiese di accompagnarla a Dallas dove avrebbe dovuto cantare Lucia, passando per Kansas City dov’era fissato un suo concerto. La vedevo sempre più insicura e fragile,  stanca dei viaggi sul Christina. Mai un vocalizzo, mai una lettura di spartito. Giunte a Kansas City mi chiese: cosa canto stasera? Non aveva preparato nulla. Le suggerii l’aria d’ingresso della Lucia, almeno l’avrebbe ripassata prima di Dallas. Dopo il concerto volle tornare per una settimana a Montecarlo da Onassis, per poi presentarsi a Dallas il giorno della prova generale di Lucia.     Dalla sartoria di Roma non erano arrivati i costumi, Zeffirelli era furente. Eppure Maria non batté ciglio. Quando l’opera andò in scena, nel primo atto si adattò a indossare il costume di una corista, mentre Zeffirelli e io attaccavamo le perle al costume di un’altra corista per arricchire l’atto dello sposalizio. Maria non protestò mai: era passiva, non coinvolta. Se fosse accaduto qualche anno prima avrebbe piantato una grana infernale, perché era una grande professionista”.
La Callas quella sera cantò in modo discutibile, “e alla fine della scena della pazzia mancò i due mi bemolle di tradizione, ma riuscì a fare due scale cromatiche discendenti e il pubblico non se ne accorse. La applaudirono e le andai incontro in palcoscenico: era stravolta. Mi disse, cacciandomi le sue unghie lunghe nella carne della mano: la mia carriera finisce qui. In albergo dormivamo nella stessa stanza e la sentii singhiozzare l’intera notte. E fu patetico quando   la rividi a Torino, dove andò a fare la regia dei Vespri Siciliani. Nello spettacolo non succedeva niente, non trovò alcuna chiave registica. Il fatto è che Maria non poteva far altro che cantare, era questa la sua totale vocazione. Anche come insegnante non trasmetteva granché, non era in grado di spiegare la propria arte”.
La morte è l’ultimo capitolo dell’oscuro e fascinoso romanzo della Callas:Nessun mistero, nessun avvelenamento: Maria è morta di dolore”, sostiene Giovanna. “Soffriva di   pressione bassa, prendeva tranquillanti per dormire che le buttavano giù la pressione e la mattina doveva tirarsi su con i tonici. Ma ciò che l’ha uccisa veramente è la sua infelicità. Lei, che dalla vita aveva avuto tutto, nel giro di cinque anni perse ogni cosa: voce, amori, gloria. Prima era celebre e popolare come Audrey Hepburn o Ava Gardner, poi entrava nei ristoranti di Parigi e non la riconosceva quasi più nessuno. Era confusa, desolata, priva di riferimenti. È morta perché non aveva più alcun motivo per stare al mondo”. (Leonetta Bentivoglio)